L'ANNO DI GRAZIA DEL SIGNORE: IL SOGNO DI DIO
di Enzo Bianchi, Priore di Bose

 

Celebrare l'Anno di Grazia del Signore non è celebrare il passaggio di un millennio, è accogliere un tempo nel quale impegnarsi con più intensità ad accogliere la misericordia del Signore.

Giovanni Paolo II nella "Tertio millennio adveniente" (n.42) dice che l'obbiettivo di questo anno è rinsaldare, rinnovare, rinforzare la fede e, quindi, la vita cristiana che è la sola vera testimonianza data a Cristo. Questo è l'obbiettivo del Giubileo, niente altro. Noi tutti, perché cristiani, perché Chiesa, dobbiamo vigilare affinché questa celebrazione non sia dominata dalla retorica del passaggio di millennio o non resti prigioniera della gigantesca macchina economica messa in moto. Dovremo fare in modo che l'Anno di Grazia sia un evento evangelico e non mondano; sia memoria dell'evento dell'incarnazione; un atto di discernimento di fede; un modo per dire che Dio ci salva nella storia; un modo per confessare che la salvezza è «qui e ora». Ma cosa afferma la Parola di Dio sul Giubileo? Che cosa questo deve significare oggi nella nostra vita ecclesiale? Vediamo.

Il messaggio della parola di Dio sul Giubileo

Al cuore della Legge vi è una parola di Dio detta al Suo popolo che i rabbini chiamano il comando dei comandi: «Siate santi perché Io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Lv.19,2). Questo comando di Dio afferma la vocazione alla santità del popolo, è un vero invito ad assumere i tratti, la personalità stessa di Dio.

Siate santi significa siate altri, siate distinti dal mondo e dalla mondanità, siate capaci di sottrarvi alla seduzione idolatrica quotidiana che impedisce di essere altrimenti, di sentire l'inenarrabile, di credere all'indicibile, di vedere le realtà invisibili, quelle che sono eterne. Siate santi significa siate appartenenti al Santo, in comunione con il Signore tre volte santo, condividendo proprio la Sua santità.

Proprio per offrirci ed avviarci su questa possibilità, Dio fin dall'inizio ci ha proposto e chiesto di santificare il tempo, cioè la nostra vita, i nostri giorni sulla terra, dalla nascita alla morte. Ha iniziato Lui stesso facendo santo il settimo giorno, il sabato: «Dio benedisse il settimo giorno e lo fece santo» (Gen. 2,3); cioè lo distinse, lo separò dagli altri giorni. La santificazione del tempo, è allora un qualcosa che Dio stesso ha iniziato e l'uomo, continuando quest'opera, compie contemporaneamente l'opera della propria santificazione. Il settimo giorno appare così come il destino, la vocazione stessa dell'uomo. L'inserzione nel tempo ordinario di un tempo altro, distinto, santo, significa negare che il tempo sia una eterna ruota; significa negare che il tempo possa tenerci prigionieri. Significa negare che il tempo sia senza uno sbocco. Significa dire che il tempo ha un Thelos, cioè un fine datogli da Dio stesso e che la creazione contiene in sé la sua primizia che è proprio il giorno santo. Per questo il tempo nel popolo di Dio è suddiviso tra feriale e altro, cioè santo. Questo impedisce di relegare nell'inaccessibile la santità. Ogni sette giorni c'è dunque lo sabbath, il sabato, il giorno santo. Ogni sette anni c'è un anno sabbatico, un anno santo. Ogni sette settimane di sette anni c'è un anno giubilare, anno santissimo. Quello che il sabato è nell’arco della settimana (lo qualifica una prassi liturgica che porti alla comunione con Dio ed una prassi umana tendente alla carità), lo deve essere l'anno sabbatico ogni sette anni e l'anno giubilare ogni quarantanove anni.

L'Antico Testamento ci presenta un ritmo costante di tempi forti, chiamati tempi santi, che devono accompagnare e scandire la vita del credente e di tutto il popolo, per porla sotto il segno della signoria di Dio, sotto il segno della chiamata alla comunione con Dio. L'istituzione più antica è certamente quella dell'anno sabbatico, il settimo anno, che è stato compreso e forse vissuto in una dinamica che registra mutamenti di fondamento e di significato. Nel libro dell'Esodo il Signore chiede di non sfruttare e di lasciare la terra incolta il settimo anno, perché ci sia riposo per gli uomini, per gli animali, per la terra e per ogni creatura. Il settimo anno è percepito come un lunghissimo sabato, un anno da vivere nel riposo che canta la dignità dell'uomo, ma anche in una comunione, in una solidarietà che si deve realizzare nell'accesso di tutti ai frutti della terra. In quest'anno soprattutto gli indigenti, i poveri, i miseri, gli ultimi, potranno beneficiare coi loro fratelli di tutti i frutti della terra nella libertà. Più tardi però, secondo la legislazione del Deuteronomio, il settimo anno sabbatico doveva essere vissuto anche come anno di remissione dei debiti; dunque anno di liberazione dagli obblighi assunti. Viene chiamato l'anno della shemittà, l'anno nel quale cioè si accordava ai debitori insolventi la libertà. Cadevano tutti i debiti. Questi potevano essere in denaro, ma sovente significavano prestazioni di lavoro, fino alla servitù verso i creditori ma, allo scoccare del settimo anno, allo scoccare dell'ora della shemittà, della remissione, tutti questi vincoli cadevano.

L'anno sabbatico diventa allora un antidoto allo sfruttamento del debitore. E' la negazione che un debito possa rendere schiavo per sempre una persona. E' un tentativo di immettere nel popolo un principio di fraterna uguaglianza. Dice infatti il Deuteronomio, esprimendo questa intenzione, «in realtà non ci sarà nessun bisognoso tra di voi se voi osserverete la legge». Se cioè la legge di Dio fosse ubbidita, diventasse prassi dei credenti, nella comunità del Signore non ci sarebbe  nessun bisognoso. Noi diciamo che il povero è sacramento del Signore. S. Basilio però afferma che il povero è sì sacramento, ma dell'infedeltà dei credenti alla legge della carità. Il povero è memoria che il popolo di Dio contraddice alla logica di comunione voluta da Dio. E' straordinaria questa doppia valenza del povero. Giovanni Crisostomo lo chiama sacramento di Cristo. Basilio lo dice sacramento della ingiustizia della comunità cristiana. Non a caso la comunità nata dalla Pentecoste e vista da Luca come «fedele realizzazione della volontà di Dio», è raffigurata come una moltitudine in cui non c'era nessun povero perché «tutti i beni erano distribuiti a ciascuno secondo il suo bisogno» (Atti 4,32). E' questo suo un preciso riferimento al Deuteronomio.

Accanto però alla legislazione dell’anno sabbatico c’è anche quella riguardante l'anno giubilare: dice il Signore «contate sette settimane di anno e giunto il quarantanovesimo anno, nel decimo giorno del settimo mese voi farete suonare la tromba dell'acclamazione, lo jobel, tromba di esultanza; suonerà la tromba quel giorno perché sarà giorno di remissioni e di espiazioni in tutto il paese. Voi renderete santo quell'anno e proclamerete la liberazione sulla terra per tutti. Sarà per voi Giubileo».

Il jobel suonerà: il corno dell’ariete, qualche volta chiamato shophar, ma sempre corno che suona la liberazione. Quell'anno sarà un anno santissimo, fatto santissimo dalla liberazione proclamata nel paese. Liberazione delle persone, liberazione della terra, delle case che debbono ritornare e di nuovo appartenere a chi le aveva perse a causa di calamità, disgrazia, indebitamento, schiavitù; è la fine della servitù delle persone vendute ai creditori. Potremmo dire con i rabbini che il Giubileo è l'anno del passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla servitù alienante al servizio di Dio: cioè il Giubileo è un memoriale dell’Esodo, dell’uscita dall’Egitto, è un memoriale pasquale. C’è una parola fondamentale sul Giubileo in Lev. 25.55 che collega Giubileo e Pasqua. «Sì, per me - dice il Signore - i figli di Israele sono servi, sono servi per me che li ho fatti uscire dalla terra d'Egitto: Io, il Signore vostro Dio».

Certamente noi possiamo anche domandarci se questa legislazione del Giubileo sia diventata una prassi. Nessuna pagina dell'A.T. ne fa menzione. Ma non si può concludere solo in virtù di questo silenzio che non sia mai stata realizzata, che non si sia mai tentato di praticarla; soprattutto perché nel libro di Neemia, il libro del ritorno del popolo da Babilonia, è testimoniata un'iniziativa che può essere fatta risalire alla legislazione giubilare. Infatti, al cap. 5 si dice che i Giudei, tornati profughi da Babilonia, premevano alle porte come i nostri immigrati, gridando contro gli ebrei, notabili e ricchi che non avevano conosciuto l'esilio ed erano restati residenti nella Terra Santa. Neemia allora chiede, invocando la prassi giubilare: «condoniamo i debiti, rendiamo loro i campi, le vigne, gli oliveti e le case che avevano perduti prima di andare in esilio». In ogni caso, poi, questi testi sul Giubileo mostrano bene la volontà di Dio e indicano la condizione di fedeltà e di santità alla quale i credenti sono chiamati. Se vivono nella logica del giubileo, allora sono santi come Dio è santo.

Attenzione, nell'anno giubilare dell'Antico Testamento la santificazione avviene attraverso la prassi della remissione: non è previsto alcun il pellegrinaggio perché il vero pellegrinaggio è esattamente il passare da una condizione di ingiustizia ad una di carità; da una situazione di schiavitù ad una di libertà. Il Giubileo è dinamica di liberazione, è memoriale del primato di Dio, è alleanza stabilita con l’umanità, invita ad un’esistenza sotto il segno della benedizione di Dio che porta i tratti della carità. Il messaggio che si ricava da questi testi è comunque un messaggio non periferico della nostra fede, perché è un messaggio che riguarda il nome stesso che gli ebrei avevano dato a Dio. Dio è il Goel, il liberatore perché ha creato un popolo attraverso la liberazione dall'Egitto.

La terra è Dio: è data ad Israele non in proprietà ma in uso.

Infatti, nel libro del Levitico (25.23) il Signore dice: «mia è la terra, voi siete ospiti ed inquilini». Cioè la proprietà della terra è e rimane di Dio. Per questo nessuno ne può disporre a piacimento e la terra si configura come un dono da custodire. Ricevendolo, l'uomo accoglie una responsabilità perché ogni dono richiede che si rispetti l'intenzione del donatore. Dandolo all'uomo Dio (rivolto a tutta l'umanità, non solo a parte di essa), invita: «crescete e moltiplicatevi, custodite la terra». Allora ogni uso arbitrario della terra, ogni pretesa di possesso esclusivo, ogni tentativo di fare della terra un autosufficienza, contrasta con l'intenzione del donatore. La terra è un dono di Dio, ma la proprietà rimane sempre Sua. Su questo va confrontata sempre ogni nostra prassi.

Per diventare santi come Dio è santo, occorre riconoscere la regalità di Dio, la sua signoria e, di conseguenza, rispettare questa economia del dono che deve regnare tra quanti abitano la terra. Anche il riposo della terra. Tra l'altro, il suo scopo è soprattutto quello di immettere nel cuore del credente il senso che il rapporto con la terra è un rapporto sponsale. Infatti, il termine di Genesi sovente interpretato:


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