SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il convenuto. La disciplina
dettata dalla legge n. 353 del 1990. - 3. Segue: Gli interventi
legislativi successivi. - 4. La costituzione del convenuto. -
5. La comparsa di risposta. L'art. 167 c.p.c. - 6. Il primo comma
dell'art. 167 c.p.c. Le mere difese. - 7. Il secondo comma: la
domanda riconvenzionale. - 8. Il terzo comma: la chiamata del
terzo in causa. - 9. La prima udienza di comparizione. - 10. La
memoria contente le eccezioni di merito e processuali non rilevabili
di ufficio. - 11. L'udienza di trattazione. - 12. La rimessione
in termini. - 13. Considerazioni riassuntive. - 14. L'intervento
dei terzi. L'intervento volontario. - 15. La chiamata del terzo
su richiesta del convenuto. Rinvio. - 16. La chiamata del terzo
su richiesta dell'attore. - 17. La chiamata del terzo su ordine
del giudice. - 18. La costituzione del terzo chiamato. I poteri
del terzo. - 19. Le questioni sull'intervento.
1. Premessa. Il quadro normativo che si presenta oggi all'interprete, relativamente alle figure del convenuto e del terzo, è molto complesso, atteso che in questi ultimi tempi si sono succeduti leggi e decreti legge che hanno introdotto significative novità.
In particolare, volendo individuare le norme interessate dalle modifiche che si sono succedute nel tempo, si può rilevare, riguardo al convenuto, che la legge 26 novembre 1990, n. 353, contenente provvedimenti urgenti per il processo civile, ha riscritto gli artt. 166, 167, 168-bis, 171, 183 e 184 ed ha aggiunto l'art. 184-bis; la legge 6 dicembre 1994, n. 673, che ha convertito, con modificazioni, il decreto legge 7 ottobre 1994, n. 571, ha inserito alcune modifiche negli artt. 166 e 168-bis c.p.c. e 76 disp. att. c.p.c; il decreto legge 18 ottobre 1995, n. 432, ultimo di una serie non si sa se conclusa, è intervenuto sugli artt. 167, 180, 183 e 184-bis.
Relativamente all'intervento del terzo la situazione
si presenta più semplice perché solo la legge n.
353 del 1990, intervenendo peraltro sugli aspetti essenzialmente
processuali della disciplina dettata appunto per il terzo, ha
apportato modifiche agli artt. 268, 269 e 271 c.p.c., , ed ha
lasciato immutati invece gli artt. 105, 106, 107, 267, 270 e 272;
i provvedimenti legislativi successivi nulla hanno previsto in
ordine al terzo, neppure a livello di mero coordinamento tra gli
artt. 167, 180 e 183, così come modificati, e gli artt.
268, 269 270 e 271 c.p.c.
2. Il convenuto. La disciplina dettata dalla legge n. 353 del 1990. Come è noto, la disciplina dettata dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 prevedeva un sistema di preclusioni, sia per l'attore sia per il convenuto, caratterizzato da una differenziazione della posizione dell'attore da quella del convenuto e da una differente intensità a seconda che l'attività delle parti fosse diretta alla determinazione del c.d. thema decidendum (e nel senso dell'individuazione dei fatti storici posti a fondamento della domanda e delle eccezioni e nel senso della qualificazione giuridica di quei fatti) e del c.d. thema probandum.
Si legge nella Relazione al Senato che «la disciplina che si sottopone all'approvazione dell'Aula si fonda sull'elementare rilievo per cui occorre, prima di tutto, determinare i fatti che hanno dato luogo alla controversia; una volta compiuta questa necessaria e preliminare operazione, è possibile procedere alla qualificazione giuridica di quei fatti; e, infine, in riferimento ai fatti allegati e alle conseguenze che ciascuna parte intende trarne, si può procedere all'accertamento di quei fatti, aprendo l'istruzione probatoria».
Più precisamente il legislatore del 1990, al fine di evitare che le parti potessero nel corso del processo proporre nuove domande ed eccezioni, allegare nuovi fatti e chiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova, aveva disposto a) che l'attore nella domanda introduttiva dovesse allegare - a pena di decadenza - tutti i fatti costitutivi del diritto fatto valere; b) che il convenuto nella comparsa di risposta, da depositare - a pena di decadenza - venti giorni prima dell'udienza fissata nell'atto di citazione, dovesse allegare tutti i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi e dovesse proporre tutte le eccezioni di rito e di merito non rilevabili di ufficio, eventuali domande riconvenzionali, nonché la richiesta di chiamare un terzo in causa; c) che l'attore, nella prima udienza di trattazione potesse proporre le domande e le eccezioni che fossero conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta e potesse chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli artt. 106 e 269, 3° comma, sempre a condizione che l'esigenza derivasse dalle difese del convenuto; d) che l'attore ed il convenuto potessero precisare e, previa autorizzazione del giudice, modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, o nell'udienza di trattazione o, mediante deposito di memorie, nel termine perentorio non superiore a trenta giorni che il giudice, a seguito di richiesta di parte e nella ricorrenza di giusti motivi, avesse ritenuto fissare; e) che il convenuto, nel termine perentorio non superiore a trenta giorni, potesse, a seguito di sua richiesta, replicare alle domande ed eccezioni proposte dall'attore nell'udienza di trattazione e proporre le eccezioni conseguenti alle domande dell'attore.
Nell'impostazione data dal legislatore del 1990,
dunque, tutta l'attività delle parti diretta alla determinazione
del thema decidendum doveva concentrarsi nella fase introduttiva
ed esaurirsi nella prima udienza di trattazione o in atti scritti
immediatamente successivi (art. 183, 5° comma, c.p.c.), udienza
che doveva comunque concludersi con l'ordinanza di fissazione
dell'udienza successiva per i provvedimenti di cui all'art. 184
c.p.c., in tema di prove.
3. Segue: Gli interventi legislativi successivi. La disciplina ora ricordata è stata tuttavia in seguito oggetto di modifiche. Alcune ispirate, se così si può dire, a buon senso. Va ricordata innanzitutto quella che consente alle parti o ai loro difensori semplicemente "muniti di procura" - e non più, come in passato, "regolarmente costituiti" - di potere esaminare gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo di ufficio e in quelli delle altre parti e di potersene far rilasciare copia (art. 7 d.l. 7 ottobre 1994, n. 571, conv. in l. 6 dicembre 1994, n. 673, che ha modificato l'art. 76 disp. att. c.p.c.). Una modifica più che opportuna, atteso il sistema di preclusioni che opera già con la costituzione in giudizio, anche se ora limitatamente alla domanda riconvenzionale e alla chiamata di un terzo in causa. Il difensore del convenuto potrà, pertanto, al fine di predisporre una compiuta difesa, esaminare il fascicolo dell'attore, estraendo copia, prima ancora di costituirsi, mostrando soltanto la procura, che verosimilmente sarà apposta in calce all'atto di citazione.
Altra modifica opportuna era quella che consentiva al convenuto di costituirsi anche «venti giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'articolo 168-bis, quinto comma» (art. 1, d.l. cit., che modifica l'art. 166 c.p.c.), senza che tale costituzione comportasse per lo stesso convenuto alcuna decadenza (art. 2, d.l. cit., che modifica l'art. 168-bis, così come modificato dall'art. 12 l. 26 novembre 1990, n. 353). Si è volutamente usato l'imperfetto in quanto non si ritiene, come meglio si chiarirà successivamente, che, a seguito dell'introduzione dell'udienza di prima comparizione di cui all'art. 180 c.p.c., il giudice istruttore possa ancora avvalersi dell'art. 168-bis, 5° comma, per rinviare, sia pure di non oltre quarantacinque giorni, la data della prima udienza.
Altre modifiche incidono significativamente sulla disciplina dettata nella legge n. 353 del 1990; è sufficiente per tutte rammentare quelle apportate dal d.l. 21 giugno 1995, n. 238, e ribadite nei decreti successivi, alla disciplina della costituzione del convenuto ed alla stessa struttura iniziale del processo. Così gli artt. 3 e 4 d.l. 238/1995 intervengono sull'art. 167 e sul sistema di preclusioni, prevedendo che la decadenza operi in un primo momento, con riferimento alla udienza di comparizione, relativamente alle domanda riconvenzionali ed alla chiamata di un terzo in causa ed in un secondo momento, con riferimento alla prima udienza di trattazione, relativamente alle eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili di ufficio. Va infatti sottolineato che una delle novità più significative dei dd.ll. a partire da quello del 21 giugno 1995, n. 238 riguarda proprio l'introduzione, prima dell'udienza di trattazione, di un'udienza di prima comparizione, per adempimenti che, a ben vedere, nella pratica non sempre ricorrono.
Lo stretto legame , peraltro, che intercorre tra
l'attività del convenuto e la previsione di queste due
udienze, porterà inevitabilmente a trattare, sia pure in
maniera non approfondita, dell'udienza di prima comparizione e
di quella di trattazione, che saranno oggetto specifico di altre
relazioni.
4. La costituzione del convenuto. L'art. 166, dettato in tema di costituzione del convenuto, è stato modificato, come anticipato, sia dalla legge n. 353 del 1990 sia dal d.l. 571 del 1994, conv. in l. n. 673 del 1994, ed oggi dispone che «il convenuto deve costituirsi in giudizio a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, almeno venti giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione, o almeno dieci giorni prima nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma dell'articolo 163-bis, ovvero almeno venti giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'articolo 168-bis, quinto comma, depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di cui all'articolo 167 con la copia della citazione notificata, la procura e i documenti che offre in comunicazione».
La lettura del solo art. 166 non dice tuttavia molto, soprattutto se si raffrontano il suo testo e quello antecedente alla riforma del 1990; la novità, infatti, sarebbe limitata ad una semplice anticipazione del termine di costituzione del convenuto da cinque giorni prima dell'udienza di comparizione a venti giorni. Se però si analizza tale disposizione alla luce di quella immediatamente successiva (art. 167 c.p.c.), del 2° comma dell'art. 171, soprattutto, ed, ora, anche dell'art. 180 ci si rende subito conto dell'effettiva portata della modifica introdotta, una portata peraltro ben differente da quella che sicuramente aveva l'intervento legislativo prima dei dd.ll. del 1995.
L'obiettivo del legislatore del 1990 era di far sì che alla prima udienza di trattazione, considerata «il nodo centrale della trattazione della causa», i fatti che avevano dato luogo alla controversia fossero allegati e determinati, per poi «procedere alla qualificazione giuridica di quei fatti; e, infine, ... procedere all'accertamento di quei fatti, aprendo l'istruzione probatoria». Ed infatti dal combinato disposto degli artt. 166, 167 e 171, 2° comma, era possibile affermare che il termine ultimo perché il convenuto potesse compiere tutta una serie di attività era appunto quello di venti giorni prima dell'udienza. In particolare bisogna richiamare l'art. 171, 2° comma, per il quale, «se una delle parti si è costituita entro il termine a lei assegnato, l'altra parte può costituirsi successivamente fino alla prima udienza, ma restano ferme per il convenuto le decadenze di cui all'art. 167». Come si vedrà oggi non è più così. Ma procediamo con ordine.
L'art. 166 c.p.c. nella sua attuale formulazione pone all'interprete alcuni problemi.
In primo luogo ci si chiede se il termine indicato di venti giorni sia da considerare "libero" oppure no. Infatti, a differenza dell'art. 163-bis, ove si discorre di «termini liberi», e del precedente testo dell'art. 166, ove si precisava che andava «computato nel termine il giorno della costituzione», l'art. 166 dispone genericamente che il convenuto «deve costituirsi ... almeno venti giorni prima dell'udienza». La dottrina, soprattutto basandosi sull'art. 155, 1° comma, c.p.c., secondo cui «nel computo dei termini a giorni ..., si esclude il giorno ... iniziale», ha affermato che non si tratta di "termini liberi", sicché «nel suddetto termine di costituzione debba computarsi anche il giorno in cui la costituzione si realizza».
Va ricordato che un analogo problema si è posto nel processo del lavoro, atteso che l'art. 416 c.p.c. prevede che il convenuto debba costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza di discussione di cui all'art. 420 c.p.c. L'opinione prevalente ritiene che pure in quel caso non si tratti di termini liberi, anche se non sono mancate voci di dissenso.
Ed infatti in tema di computo dei termini processuali, qualora la legge non preveda in modo espresso che si tratti di termine libero (con la conseguenza che vanno esclusi dal computo stesso tanto il giorno iniziale tanto quello finale), opera il criterio generale di cui all'art. 155 c.p.c., secondo cui non va conteggiato il giorno iniziale, computandosi invece quello finale. Ne consegue che per il termine che deve essere calcolato a ritroso, come è quello di venti giorni prima dell'udienza di comparizione, previsto dall'art. 166 c.p.c. per la tempestiva costituzione del convenuto, il dies a quo, costituito dal giorno dell'udienza, non computatur in termino, mentre il dies ad quem, ossia il giorno in cui avviene la costituzione, computatur in termino.
Tali considerazioni valgono, ovviamente, non solo per il termine di cui all'art. 166, ma anche per il termine, non inferiore a venti giorni, ora previsto nell'art. 180, 2° comma, c.p.c., così come modificato dal d.l. n. 238 del 1995.
Secondo aspetto da esaminare riguarda il dies a quo. Come è noto, nell'originaria formulazione, il riferimento era all'«udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione», tanto che un eventuale slittamento della prima udienza da parte del giudice istruttore designato ai sensi del 5° comma dell'art. 168-bis non consentiva al convenuto una costituzione ritardata, senza conseguenze. Precisava infatti la disposizione citata che «restano ferme le decadenze riferite alla data di udienza fissata nella citazione». Con il d.l. n. 571 del 1994, conv. in l. n. 673 del 1994, il legislatore, recependo le critiche mosse da parte della dottrina che aveva sottolineato l'inutilità di una costituzione -a pena di decadenza- con riferimento ad una udienza che poteva essere spostata, ha inserito nell'art. 166 la previsione «ovvero almeno venti giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'art. 168-bis, quinto comma», ed ha soppresso nell'art. 168-bis il periodo suindicato.
La lettera della legge porta a limitare la possibilità della costituzione con riferimento all'effettiva udienza solo al caso in cui il giudice istruttore si avvalga del potere attribuitogli dall'art. 168-bis, 5° comma, di differire la data di prima udienza - con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo - fino ad un massimo di quarantacinque giorni.
In altri termini, se la prima udienza si tiene in un giorno diverso da quello indicato nell'atto di citazione, ma a seguito dell'applicazione degli artt. 168-bis, 4° comma, e 82 disp. att. c.p.c. (perché il giudice istruttore designato non tiene udienza nel giorno fissato per la prima comparizione delle parti, nel qual caso l'udienza «si intende rinviata di ufficio all'udienza di prima comparizione immediatamente successiva, assegnata allo stesso giudice»), rimane l'onere per il convenuto di costituirsi venti giorni prima dell'udienza indicata nell'atto di citazione.
L'introduzione dell'udienza di comparizione, destinata allo svolgimento di talune attività, pone l'interrogativo se il giudice istruttore possa ancora rinviare la causa ai sensi dell'art. 168-bis, 5° comma. La risposta deve essere negativa, con la conseguenza che bisogna ritenere ormai incompatibile la citata previsione con la nuova struttura iniziale del processo di cognizione. Infatti, se lo scopo del differimento della prima udienza era di consentire al giudice istruttore di meglio organizzare il proprio lavoro, nel senso di una suddivisione delle varie cause, al fine di giungere all'udienza a conoscenza delle posizioni delle parti e dunque della controversia, è allora evidente che tale differimento non ha più alcuna ragion di essere nel momento in cui, come si vedrà, la prima udienza è di mero smistamento ed il giudice può essere a conoscenza soltanto della posizione dell'attore.
Terzo aspetto da considerare è che l'odierno testo dell'art. 166, a differenza di quello originario (nella formulazione e del codice del 1940 e della novella del 1950), ma al pari di quello dell'art. 416 c.p.c., per il processo del lavoro, non contempla più che il convenuto debba depositare in cancelleria nel proprio fascicolo anche la copia della comparsa per le altre parti. La previsione del deposito delle copie per le altre parti è invece prevista nell'art. 267 c.p.c., dettato a proposito del terzo interveniente volontario (va detto, comunque, che tale disposizione non è stata interessata dalla riforma del 1990).
Tale omissione, secondo numerosi commentatori, sarebbe comunque superabile con il riferimento agli artt. 156, 2° comma, 170, 2° comma, e 73 disp. att. c.p.c., in base ai quali si dedurrebbe la sussistenza di un onere per il convenuto di depositare le copie del proprio atto anche per le controparti.
Ad ogni buon conto vi è da dire che nella pratica si continua ad assistere, già in questi primi mesi di applicazione della riforma, al deposito delle copie per le altre parti, deposito che viene considerato dai difensori come cosa normale ed ovvia, sicché è prevedibile che non sorgeranno problemi di sorta per la mancata previsione di un siffatto onere per il convenuto.
Infine, nell'art. 166 il legislatore, sulla scia
dell'originaria formulazione, dispone che il convenuto deposita
in cancelleria il proprio fascicolo, contenente «i documenti
che offre in comunicazione». E' opportuno fin d'ora porre
in evidenza che si tratta di una produzione meramente eventuale,
alla cui omissione non può ricollegarsi alcuna conseguenza.
Nel sistema disciplinato dal legislatore del 1990, infatti, l'attività
probatoria è rinviata ad una udienza successiva a quella
di trattazione disciplinata nell'art. 183 c.p.c ed è con
riferimento a quell'udienza, regolata nell'art. 184 c.p.c., che
vengono previsti termini perentori e decadenza a carico delle
parti.
5. La comparsa di costituzione. L'art. 167 è stato modificato dai decreti legge a partire da quello del 21 giugno 1995, n. 238 (art. 3). La legge n. 353 del 1990 era intervenuta sull'art. 167, prevedendo che «nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni. // A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. // Se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi dell'articolo 269».
Tale disposizione è stata modificata, come detto, nel giugno del 1995 e più precisamente il legislatore, lasciati invariati il 1° ed il 3° comma, ha modificato il 2° comma, che ora così dispone: «a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali. Se è omessa o risulta assolutamente incerto l'oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente alla integrazione».
Il secondo comma è stato pertanto riscritto, sia eliminando la previsione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio, sia con l'introduzione di una disciplina in tema di nullità della domanda riconvenzionale.
Sono note le critiche che l'originaria formulazione aveva suscitato da parte sia di alcuni studiosi sia del ceto forense, soprattutto in quanto la stessa avrebbe dato vita ad una ingiustificata compressione del diritto di difesa del convenuto, soprattutto con riferimento alla decadenza prevista per le eccezioni non rilevabili di ufficio.
Non è questa la sede per dire se quelle critiche avessero fondamento e, quindi, se la disciplina dettata nella legge di riforma del 1990 comprimesse il diritto di difesa del convenuto oppure se le preoccupazioni manifestate fossero eccessive. E' possibile rilevare solo alcuni aspetti.
In primo luogo il sistema di preclusioni non si presentava eccessivamente rigido in quanto, come si legge nella relazione al Senato, «sono previsti meccanismi di preclusione diversificati, in riferimento: a) ai fatti storici deducibili esclusivamente negli atti introduttivi; b) alla qualificazione di quei fatti in funzione della modificazione delle domande e della proposizione di eccezioni, ammissibili entro la prima udienza; c) alla articolazione dei mezzi di prova (in relazione ai fatti già dedotti e alle domande e alle eccezioni già compiutamente formulate), ammissibile anche oltre la prima udienza, nel rispetto del principio di concentrazione».
In secondo luogo in quel sistema di preclusioni erano state differenziate espressamente la posizione dell'attore da quella del convenuto, in quanto mentre l'attore doveva allegare nell'atto di citazione i fatti costitutivi del diritto fatto valere (art. 163, n.4, c.p.c.) ed il convenuto doveva allegare nella comparsa di risposta i fatti estintivi, impeditivi e modificativi non rilevabile di ufficio (art. 167, 2° comma, c.p.c.), l'attore poteva altresì, entro la prima udienza, allegare nuovi fatti costitutivi, che fossero conseguenza diretta della difesa del convenuto (art. 183, 4° comma, c.p.c.), ed il convenuto poteva replicare alle nuove domande ed eccezioni (art. 183, 5° comma)..
Orbene, non sembra che tale sistema comprimesse il diritto di difesa del convenuto, il quale, peraltro, nel corso del processo poteva sollevare tutta una serie di eccezioni, cioè quelle rilevabili di ufficio.
La conferma è data dal nuovo sistema introdotto con i dd.ll. del 1995, nel quale si riafferma comunque «il principio per il quale occorre preliminarmente determinare il thema decidendum, l'oggetto della controversia; poi, se necessario, il thema probandum, cioè i fatti controversi che debbono essere provati»; sistema che non elimina le preclusioni, ma, da un lato, diluisce nel tempo talune attività del convenuto, che, anziché essere svolte tutte in un unico momento (venti giorni prima l'udienza di trattazione), possono oggi essere svolte in momenti diversi e, dall'altro, inserisce nel processo un'udienza che finirà per provocare soltanto ulteriori ritardi nella definizione della causa, anche perché non si può affatto escludere che taluni vizi, per i quali è stata prevista quell'udienza, vengano alla luce in corso di causa (si pensi per tutti all'ipotesi dell'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 102 c.p.c.). Udienza che in ogni caso rende quanto mai inopportuna, per non dire assurda, la previsione di un termine di sessanta giorni per l'inizio del processo.
La modifica introdotta si traduce, sostanzialmente, in uno slittamento delle preclusioni per il convenuto, che ora non operano più tutte con riferimento alla prima udienza, bensì alcune con riferimento all'udienza di comparizione ed altre con riferimento all'udienza di trattazione, nel corso della quale peraltro l'attore potrà «proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta» e «chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto» (art. 183, 4° comma, c.p.c.).
La riforma o, meglio sarebbe dire per rimanere fedeli
al tema dell'incontro, la controriforma del 1995, pertanto, finisce
per imporre un allungamento dei tempi del processo, fornendo al
convenuto, che è normalmente la parte meno interessata
alla sollecita definizione del processo, un insperato aiuto. Va
da sé, infatti, che il convenuto, che non deve proporre
domande riconvenzionali o chiamare in causa un terzo, non si costituirà
venti giorni prima l'udienza di comparizione, ma ritarderà
la propria costituzione o depositando in cancelleria, qualche
giorno prima dell'udienza di comparizione, una comparsa di stile,
nella quale si limiterà a contestare la pretesa attrice
e a chiedere termine per proporre le eccezioni di rito e di merito
(deposito che potrebbe anche indurlo, poi, a non comparire all'udienza),
oppure costituendosi direttamente prima dell'udienza di trattazione
nel termine indicato dal giudice, depositando comparsa contenente
tutte le eccezioni.
6. Il primo comma dell'art. 167. Le mere difese. Il 1° comma dell'art. 167 prevede attività che possono essere o non essere compiute, atteso che non viene comminata alcuna decadenza. Peraltro, mentre per i mezzi di prova ed i documenti la decadenza è comunque prevista sia pure con riferimento ad un momento successivo (art. 184 c.p.c.), le mere difese e le conclusioni non sono assoggettate ad alcuna espressa preclusione.
A proposito delle mere difese può essere interessante un'analisi comparativa con l'art. 416, 3° comma, c.p.c. dettato a proposito del processo del lavoro, che sicuramente ha costituito la norma di riferimento. Va peraltro precisato che l'art. 167, a differenza dell'art. 416, 3° comma, si limita ad affermare che il «convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda», senza aggiungere che le difese devono essere «in fatto e in diritto» e che il convenuto lo deve fare «in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione».
Va detto che per mera difesa o difesa generica si intende, per comune accezione, la contestazione della pretesa dell'attore, nel senso di contestazione dei fatti costitutivi sui quali la domanda attrice si fonda, sia allegandone la insussistenza, sia eccependone l'inefficacia.
Tanto premesso va posto in rilievo che secondo la giurisprudenza, con riferimento al processo del lavoro,
a) l'onere di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda non è sanzionato in caso di inosservanza con la previsione di alcuna decadenza;
b) il convenuto può in qualsiasi momento, anche in caso di tardiva costituzione ed in appello, contestare i fatti affermati dall'attore;
c) una mera e generica contestazione non vale «ammissione, da parte del convenuto, della sussistenza dei fatti affermati dall'attore», non esonera «l'attore, in ordine ai fatti costitutivi del diritto da lui azionato, dall'onere probatorio posto a suo carico dalla norma generale di cui all'art. 2697 c.c.» e non esime «il giudice dal verificare l'adempimento di quell'onere da parte dell'attore»;
d) una generica contestazione «può eventualmente integrare violazione del dovere di lealtà processuale, sanzionabile ai sensi degli artt. 88 e 92 c.p.c., e comunque essere discrezionalmente valutata, attenendo al contegno della parte del processo, come semplice argomento di prova, ai sensi del 2° comma, art. 116 c.p.c.»;
e) per aversi non contestazione è necessario che la parte abbia ammesso i fatti costitutivi oppure abbia assunto una posizione logicamente incompatibile con il loro disconoscimento.
La contestazione o la non contestazione incide sull'onere della prova, in quanto la non contestazione esclude la necessità i provare il fatto non controverso e la successiva contestazione determina all'opposto la necessità di provarlo.
Ne consegue, con tutta evidenza, una situazione oltremodo delicata, soprattutto con riferimento ad un processo nel quale operano preclusioni in ordine all'attività probatoria. Infatti, la contestazione successiva può intervenire in un momento nel quale si è ormai maturata a carico della parte onerata la decadenza in ordine alla prova del fatto oggetto di tardiva contestazione.
Tale conseguenza non può peraltro portare, a mio avviso, ad affermare l'esistenza di preclusioni in ordine alle mere difese, alle contestazioni, come pure è stato sostenuto con riferimento sia al processo del lavoro, sia al nuovo processo ordinario, anche se con riferimento alla udienza di trattazione.
L'art. 167 non solo non dispone la decadenza, come invece fa nel 2° comma a proposito della domanda riconvenzionale e nell'art. 269 con riguardo alla chiamata di un terzo, ma utilizza una espressione meno rigorosa di quella usata nell'art. 416, relativamente alla quale si esclude, da parte della giurisprudenza e della maggioranza della dottrina, l'esistenza di preclusioni, in un modello di processo peraltro più rigoroso proprio sotto il profilo delle preclusioni in tema di indicazione dei mezzi probatori.
Di fronte a siffatta situazione, si tratta di assicurare all'attore la possibilità di provare quei fatti in precedenza non contestati. Orbene, la soluzione del problema può essere indicata nell'art. 184-bis, così come riformato dall'art. 6 del d.l. 21 giugno 1995, n. 238, modifica conservata nei successiva decreti, per il quale la parte, che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile, può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini.
Non sembra peraltro che la rimessione in termini possa «ritenersi invocabile non solo e non tanto quando una parte si vedesse tardivamente (rectius: successivamente) contestare taluni fatti che l'avversario aveva inizialmente ammesso, implicitamente o esplicitamente ..., ma anche (e direi soprattutto) quando, essendo mancata qualunque "presa di posizione" (sia pure implicita o successiva) di una parte circa i fatti allegati dall'altra ..., quest'ultima si rendesse semplicemente conto (dopo il momento in cui scattano le preclusioni istruttorie) di dovere ancora fornire la prova dei fatti medesimi», in quanto non avere preso posizione sui fatti non può significare non contestazione degli stessi fatti: per aversi non contestazione è necessario che la parte o abbia ammesso i fatti affermati dalla controparte oppure abbia assunto una posizione logicamente incompatibile con il loro disconoscimento.
Fatta questa precisazione la soluzione che individua
nell'art. 184-bis la norma che consente di risolvere i
problemi determinati da una successiva contestazione si presenta
come quella che più di ogni altra riesce a conciliare l'esigenza
di non conferire al sistema una pericolosa rigidità (con
la previsione di decadenze a carico del convenuto circa la contestazione
di fatti costitutivi) con l'esigenza di assicurare all'attore
il diritto di provare quei fatti che, non contestati entro l'udienza
di cui all'art. 184, in cui vengono richiesti i mezzi istruttori,
lo siano successivamente. Dato il sistema di preclusioni in materia
di prove adottato dal legislatore del 1990, infatti, non si può
pretendere che l'attore chieda di fornire la prova anche di quei
fatti costitutivi sui quali non vi è stata contestazione.
7. Il secondo comma: la domanda riconvenzionale. Ai sensi del 2° comma dell'art. 167 c.p.c. il convenuto «a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali». Va subito detto che il legislatore del 1990 non ha ritenuto di introdurre lo stesso meccanismo che è previsto nel processo del lavoro, dove il convenuto ai sensi dell'art. 418 c.p.c. deve, con apposita istanza contenuta nella memoria difensiva, chiedere al giudice, a pena di decadenza, la fissazione di una nuova udienza. Sicché sarà sufficiente, ma necessario, che nella comparsa di risposta venga proposta la domanda riconvenzionale. Questa dovrà essere notificata soltanto alla controparte rimasta contumace, ai sensi dell'art. 292 c.p.c. (ad esempio all'attore che non si sia costituito entro la prima udienza oppure ad un altro convenuto che non si sia costituito e nei cui confronti venga proposta la domanda riconvenzionale). Al riguardo va in ogni caso considerato che, poiché ai sensi del 2° comma dell'art. 171 è possibile che una parte si costituisca alla prima udienza, se l'altra si è costituita entro il termine assegnatole, la notifica della domanda riconvenzionale andrà effettuata dopo la prima udienza, una volta che il giudice, sulla base anche della nuova formula dell'art. 180 c.p.c., abbia dichiarato la contumacia. Più precisamente alla prima udienza di comparizione il giudice istruttore, dichiarata la contumacia, dovrà fissare con ordinanza il termine entro cui la domanda riconvenzionale dovrà essere notificata (art. 292, 1° comma, c.p.c.).
Per quanto concerne la domanda riconvenzionale va ricordato che ai sensi dell'art. 36 sono ammissibili solo le domande «che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione». Tale disciplina rigorosa viene attenuata dalla giurisprudenza che ha ammesso la domanda riconvenzionale anche quando la stessa non dipende dal titolo dedotto dall'attore o da altro titolo dedotto con un'eccezione, purché non vi sia alcuno spostamento di competenza e vi sia un collegamento obiettivo con la domanda principale, al punto che viene giustificata l'opportunità del simultaneus processus.
L'espressa previsione della decadenza dovrebbe comportare che l'inammissibilità della domanda riconvenzionale, per essere stata proposta tardivamente, debba essere rilevata di ufficio, indipendentemente dall'eccezione di parte, diventando così irrilevante un'eventuale accettazione implicita del contraddittorio per mancata tempestiva eccezione.
E' comunque evidente che il convenuto, se non rispetta il termine indicato, potrà proporre autonomamente la domanda e chiedere la riunione dei due giudizi.
L'art. 3 del d.l. 21 giugno 1995, n. 238, ribadito nei dd.ll. successivi, ha aggiunto, riguardo alla domanda riconvenzionale, una particolare disciplina in tema di nullità della stessa e più precisamente di vizi attinenti alla editio actionis, statuendo che «se è omesso o risulta assolutamente incerto l'oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla. Restano ferma le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente alla integrazione».
Tale novità induce ad alcune riflessioni. In primo luogo, con tale previsione la domanda riconvenzionale nulla non è più inammissibile, ma impone al giudice di ordinare l'integrazione con efficacia ex nunc, ossia dalla avvenuta integrazione. Eventuali decadenze maturatesi ed eventuali diritti acquisiti medio tempore restano fermi ed impregiudicati.
Il rischio che il convenuto proponga domande riconvenzionali volutamente nulle, allo scopo di "guadagnare" tempo, probabilmente non sarà corso, atteso che la previsione dell'udienza di prima comparizione, nella quale deve essere disposta l'integrazione della domanda riconvenzionale nulla, determina di per sé, come si è visto, uno slittamento dei tempi del processo. Ne deriva che a provocare un ritardo nell'inizio del processo non sarà la proposizione della domanda riconvenzionale nulla ed il relativo ordine di integrazione, bensì la previsione di una prima udienza di comparizione.
In secondo luogo, il legislatore, come per la nullità della citazione per vizi attinenti alla editio actionis, nulla ha disposto in ordine alle conseguenze del mancato rispetto del termine perentorio. In dottrina, riguardo all'analoga carenza nell'art. 164, sono state prospettate differenti soluzioni, da quella che ricollega all'omissione la cancellazione della causa dal ruolo e l'estinzione del processo a quella che afferma che il giudice deve rigettare la domanda in rito. Nel nostro caso, vanno escluse ovviamente la cancellazione della causa dal ruolo e l'estinzione del processo, atteso che la nullità colpisce la domanda riconvenzionale e non anche quella principale. Ne consegue che la soluzione preferibile è quella secondo cui il giudice, in caso di inottemperanza all'ordine di integrazione, deve rigettare, sia pure in rito, la domanda riconvenzionale con sentenza.
Tali considerazioni vanno estese alla domanda riconvenzionale proposta dall'attore, ai sensi dell'art. 183, 4° comma.
In terzo luogo, l'art. 167, 2° comma, a differenza dell'art. 164, 5° comma, contempla l'ipotesi della nullità allorché «è omesso o risulta assolutamente incerto ... il titolo della domanda riconvenzionale» e non semplicemente «se manca l'esposizione dei fatti .. ». Ne deriva che si potrebbe, sulla base della lettera della legge, sostenere che la domanda riconvenzionale è nulla anche quando non risultano indicate le ragioni di diritto.
Le osservazioni fino ad ora svolte relativamente alla domanda riconvenzionale valgono, con le dovute precisazione, anche per le domande di accertamento incidentale proposte ai sensi dell'art. 34 c.p.c., con le quali il convenuto -o anche l'attore- chiede che su una questione pregiudiziale il giudice decida con efficacia di giudicato. Se il giudice originariamente adito è competente anche sulla questione trasformatasi in controversia pregiudiziale, allora conoscerà e deciderà entrambe le domande; in caso contrario, qualora la competenza sulla controversia pregiudiziale spetti ad un giudice superiore, il giudice originariamente adito dovrà trasmettergli tutta la causa, sia la controversia principale sia quella pregiudiziale, sempre che non vi ostino ragioni di competenza, di rito o di grado.
Infatti, anche in tale situazione il convenuto propone
una nuova domanda, che non può non essere assoggettata
agli stessi limiti temporali previsti dalla domanda riconvenzionale.
Se il convenuto non rispetta il termine fissato, la questione
pregiudiziale sarà decisa incidenter tantum nel
corso del processo, senza efficacia di giudicato.
8. Il terzo comma: la chiamata del terzo in causa. Ai sensi del 3° comma dell'art. 167 il convenuto «se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi dell'articolo 269». Aggiunge, poi, l'art. 269, 2° comma, che «il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'art. 163-bis. Il giudice istruttore, entro cinque giorni dalla richiesta, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del convenuto».
Il meccanismo adottato dal legislatore risponde alla duplice esigenza di consentire al terzo di prendere parte al processo fin dall'inizio, senza così correre il rischio di subire limitazioni di sorta derivanti da eventuali attività già compiute dalle parti, e di permettere alle parti di conoscere la posizione del terzo, prima dell'udienza di trattazione, onde evitare conseguenze negative in ordine al loro diritto di difesa.
Ciò posto, e concentrando l'attenzione sul convenuto (le modalità e i tempi per la chiamata del terzo da parte del convenuto sono differenti da quelli che contrassegnano la chiamata del terzo da parte dell'attore), va detto che la lettura delle due norme richiamate mostra con tutta evidenza come la decadenza non sia prevista nell'art. 167, bensì nell'art. 269. Ciò peraltro non comporta alcuna conseguenza in ordine all'individuazione del momento in cui opera la preclusione, dal momento che l'art. 167, 3° comma, rinvia esplicitamente all'art. 269, il quale non lascia alcun dubbio: la dichiarazione di volere chiamare un terzo in causa deve essere contenuta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, comparsa che, ai sensi dell'art. 166, deve essere depositata venti giorni prima dell'udienza di comparizione.
Il meccanismo adottato dal legislatore del 1990 è particolare, in quanto il convenuto non solo deve dichiarare di volere chiamare un terzo in causa, ma deve altresì chiedere al giudice istruttore, nella comparsa di risposta, lo spostamento della prima udienza. La lettera della legge porta a ritenere che anche tale richiesta contestuale debba essere fatta a pena di decadenza, al pari di quello che avviene nel processo del lavoro a proposito della domanda riconvenzionale.
Alla chiamata del terzo poi provvede la parte che ne ha fatto richiesta, mediante citazione a comparire nell'udienza fissata dal giudice istruttore, osservati i termini dell'articolo 163-bis (art. 269, 1° comma).
In base all'originaria formula del 1° comma dell'art. 269 il convenuto poteva citare il terzo direttamente alla prima udienza, senza dovere attendere l'autorizzazione del giudice. Oggi, il 1° comma non contempla più espressamente tale facoltà, ma non sembra che vi siano valide ragioni per escludere che il convenuto citi il terzo a comparire alla prima udienza, dando conto nella comparsa di risposta di tale citazione, onde consentire all'attore (ed al giudice) di esaminare le difese del terzo. Quel che bisogna far presente è che il nuovo sistema e soprattutto i nuovi termini minimi a comparire renderanno praticamente impossibile la citazione del terzo a comparire alla prima udienza, da parte del convenuto.
D'altra parte va anche detto il convenuto non ha più interesse a siffatta citazione, dal momento che il legislatore del 1990 ha eliminato il potere discrezionale del giudice di autorizzare la chiamata del terzo. Il 2° comma dell'art. 269 prima della riforma del 1990 disponeva che «il giudice istruttore ... può concedere un termine per la chiamata del terzo ...»; e nella prassi accadeva a volte che il giudice istruttore non concedesse l'autorizzazione. Sicché per evitare un siffatto rischio, il convenuto si attivava fin dal primo momento e citava il terzo a comparire alla prima udienza, agevolato anche da termini a comparire più brevi.
Oggi il giudice non ha più il potere discrezionale di autorizzare la chiamata del terzo, ma deve, a seguito di richiesta del convenuto, soltanto verificare la tempestività della stessa richiesta e la sua completezza e fissare una nuova prima udienza di comparizione, senza dovere neppure sentire l'attore. Non si può ritenere, peraltro, che il giudice possa conservare l'originaria udienza di comparizione, in quanto difficilmente sarebbe possibile rispettare i termini minimi a comparire per il terzo.
La conferma che il giudice non ha più il potere discrezionale di autorizzare la chiamata del terzo si ricava non solo dal raffronto fra l'attuale testo dell'art. 269 e l'originaria formulazione, ma anche dall'esame dell'art. 269, 2° comma, del 3° comma dello stesso art. 269 e dell'art. 183, che prevedono la richiesta di chiamata di un terzo da parte dell'attore, allorché l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto, e dell'art. 271, che contempla la richiesta da parte del terzo chiamato in giudizio.
Nell'art. 183, 4° comma, c.p.c., infatti, si legge che l'attore può chiedere di essere autorizzato, e nel 3° comma dell'art. 269 si precisa che «il giudice istruttore, se concede l'autorizzazione»; con ciò rimettendo al giudice il potere di concedere o negare l'autorizzazione, come si vedrà meglio successivamente.
Nulla si prevede per l'ipotesi in cui il convenuto non notifichi la citazione al terzo o non rispetti il termine minimo a comparire. Nel secondo caso, si è in presenza di una nullità per vizi della vocatio in ius, che dovrebbe comportare per il giudice, all'udienza di comparizione, di ordinare la rinnovazione della notificazione in un termine perentorio.
Nel primo caso l'omissione risulta ancor più evidente se si considera che nel 3° comma, a proposito della domanda riconvenzionale proposta dall'attore, si dispone che la notifica deve avvenire nel termine perentorio stabilito dal giudice.
Pur potendo essere d'accordo con chi afferma che l'omissione è frutto di una «svista» del legislatore, non sembra tuttavia possibile concludere nel senso che anche il termine per la notifica della citazione del terzo da parte del convenuto ha natura perentoria, atteso che il termine può «essere stabilito dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente» (art. 152, 1° comma, c.p.c.) e che «i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori» (art. 152, 2° comma). Sicché la mancata previsione di un termine perentorio non consente al giudice, che alla prima udienza di comparizione abbia accertato l'omessa notifica, di dichiarare la parte decaduta dalla chiamata del terzo in causa, tanto più che l'udienza di cui all'art. 180 è diretta solo a verificare la regolarità formale del contraddittorio e degli atti processuali. La preclusione scatta con l'udienza di trattazione, atteso che fra le attività in essa previste la possibilità di chiamare un terzo in causa è limitata al solo attore e che le attività consentite al convenuto son soltanto quelle di precisazione e modificazione delle domande (riconvenzionali), delle eccezioni e delle conclusioni già formulate e quelle di replica alle domande ed eccezioni nuove o modificate dall'attore e di proposizione di nuove eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime (art. 183, 5° comma, così come modificato dal D.L. 21 giugno 1995, n. 238). Sicché il convenuto dovrà citare per quest'udienza il terzo, rispettando i termini minimi a comparire e consentendo al terzo, comunque, di costituirsi nel termine fissato dal giudice istruttore nell'udienza di comparizione.
Infine, il convenuto dovrà depositare la citazione
notificata al terzo entro il termine di dieci giorni, previsto
nell'art. 165. Tale termine, come ha affermato la giurisprudenza
vigente la precedente formulazione, non ha natura perentoria (non
essendo espressamente previsto dalla legge), ma meramente ordinatorio,
la cui inosservanza non determina improcedibilità della
domanda proposta nei confronti del terzo.
9. La prima udienza di comparizione. Il d.l. 21 giugno 1995, n. 238, come più volte detto, ha introdotto una nuova udienza, l'udienza di prima comparizione, recependo così le indicazioni provenienti da parte della dottrina. In questa prima udienza il giudice istruttore «verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti dall'articolo 102, 2° comma, dall'art. 164, dall'art. 167, dall'art. 182 e dall'art. 291, 1° comma».
Bisogna ritenere che si tratti non di un'elencazione tassativa di compiti attribuiti al giudice, ma di una mera esemplificazione di attività, nel senso che il giudice istruttore potrebbe, se ne ricorrono le ragioni, ordinare altre incombenze, come ad esempio la notifica della domanda riconvenzionale all'attore rimasto contumace o ad altro convenuto rimasto anch'egli contumace, ai sensi dell'art. 292 c.p.c.
Ma nel corso di tale udienza il giudice istruttore può concedere, ai sensi dell'art. 648 c.p.c., l'esecuzione provvisoria di un decreto ingiuntivo opposto o può disporre, ai sensi dell'art. 649 c.p.c., la sospensione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto? La risposta dipende dal carattere tassativo o esemplificativo che si ritiene di attribuire all'elencazione di cui all'art. 180 c.p.c. In altri termini, se si ritiene, come sembra più corretto, che il legislatore del 1995 non abbia inteso imporre al giudice all'udienza di comparizione soltanto alcune verifiche, ma abbia voluto scindere le attività che in precedenza dovevano essere svolte in un'unica udienza in due differenti momenti, riservando all'udienza di trattazione le attività e gli atti che possono contribuire alla determinazione del thema decidendum, allora non dovrebbero sussistere validi motivi per negare, in caso di opposizione al decreto ingiuntivo, al giudice istruttore il potere di concedere o di sospendere, a seconda dei casi, l'esecutività del decreto, tanto più che a proporre l'opposizione è il debitore, ossia il convenuto sostanziale. In caso contrario bisognerebbe riconoscere che il legislatore del 1995 ha dato al debitore un grossissimo aiuto: ha raddoppiato il termine per fare opposizione (da venti a quaranta giorni); ha ampliato il termine per iniziare il processo (sessanta giorni, anche nelle cause di competenza del pretore); ha evitato che il giudice possa concedere la provvisoria esecuzione alla prima udienza.
Problema differente è se, sull'accordo delle parti in questa prima udienza il giudice possa o debba anticipare attività, quali ad esempio l'interrogatorio libero delle parti o il tentativo di conciliarle, che sono previste dalla legge nell'udienza successiva (art. 183). Interrogativo che diventa ancor più delicato se si considera l'art. 80-bis disp. att. c.p.c., ove si dispone che «la rimessione al collegio, a norma dell'art. 187 del codice, può essere disposta dal giudice istruttore anche nell'udienza destinata esclusivamente alla prima comparizione delle parti», articolo sul quale il legislatore non è affatto intervenuto.
Se vi è l'accordo delle parti, non sembra esservi alcun ostacolo perché il giudice disponga in conformità a quello che viene richiesto: il processo è pur sempre delle parti. Analogamente, se le parti chiedono al giudice fin dalla prima udienza di comparizione che la causa venga decisa in base all'art. 80-bis disp. att., il giudice ben può subito invitare le parti a precisare le conclusioni.
Diversamente in caso di mancanza di accordo delle parti ed anche in caso di contumacia di una parte. La separazione in due udienze di attività che precedentemente erano riunite in una, comporta l'impossibilità, nei casi predetti, di anticipare alcune attività previste nella seconda udienza alla prima e, soprattutto, di far precisare le conclusioni fin dalla prima udienza in base all'art. 80-bis disp. att. Possibilità che, al contrario, doveva riconoscersi in base alla riforma del 1990. In questo senso l'inciso «in ogni caso» sembra non lasciare spazio a differenti interpretazioni.
Il 2° comma della stessa norma dispone che «se richiesto, il giudice istruttore può autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell'ultimo comma dell'art. 170». Ne consegue, in primo luogo, che tale autorizzazione presuppone sempre la richiesta di parte, dovendosi comunque ritenere sufficiente la richiesta anche di una sola, e, in secondo luogo, che si tratta di un potere discrezionale del giudice, il quale potrebbe anche non autorizzare siffatta comunicazione.
Sempre ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 170 il giudice istruttore può prescrivere le modalità di tale comunicazione (deposito in cancelleria, notificazione, scambio con apposizione di visto di ricezione). Ne deriva che la comunicazione in parola avverrà fuori udienza, fra l'udienza di prima comparizione (art. 180) e quella di trattazione (art. 183). In ogni caso, il giudice istruttore «può stabilire quale delle parti deve comunicare per prima la propria comparsa, ed il termine entro il quale l'altra parte deve rispondere« (art. 83-bis disp. att. c.p.c.).
Quindi, il convenuto, che si sia costituito venti
giorni prima dell'udienza di comparizione (avendo proposto domanda
riconvenzionale o avendo chiesto di chiamare un terzo in causa)
oppure che si sia costituito poco prima o direttamente all'udienza
di prima comparizione (non avendo da proporre alcuna domanda riconvenzionale
o non dovendo chiamare in causa alcun terzo), può richiedere
al giudice di essere autorizzato a comunicare all'attore una comparsa.
10. La memoria contenente le eccezioni di merito e processuali non rilevabili di ufficio. La seconda parte del nuovo art. 180 dispone che «in ogni caso fissa a data successiva la prima udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio».
Come si è in precedenza già rilevato, le modifiche introdotte all'originario testo comportano essenzialmente una scissione delle preclusioni e lo spostamento di alcune di esse. Preclusioni che, comunque, rimangono ferme, nel senso che il convenuto deve proporre quelle eccezioni entro il termine indicato a pena di decadenza. E se si considera che fra la notifica dell'atto di citazione e la scadenza del termine dei venti giorni l'attore potrebbe anche non aggiungere alcunché alla propria difesa, risulta evidente come l'intervento legislativo del 1995 si sia tradotto in un semplice rinvio del termine ultimo per proporre le difese.
Prima di passare ad esaminare le eccezioni, è il caso di segnalare un problema preliminare: il termine perentorio non inferiore a venti giorni (ma potrebbe allora essere superiore, ad esempio trenta o quaranta giorni) prima dell'udienza di trattazione può essere assegnato anche al convenuto contumace?
La soluzione affermativa si rende obbligata se si vuole cercare di dare un minimo di coerenza ad un sistema al quale sono stati peraltro già inferti non indifferenti colpi. In primo luogo, perché il contumace «può costituirsi in ogni momento del procedimento fino all'udienza in cui la causa è rimessa al collegio a norma dell'art. 189» (art. 293 c.p.c.) ovvero fino a quando il giudice istruttore non dispone lo scambio delle comparse conclusionali (art. 190-bis), depositando una comparsa in cancelleria. In secondo luogo perché la preclusione in ordine alle eccezioni opera non all'udienza di prima comparizione (e tanto meno prima di tale udienza), bensì in un momento successivo, che non è peraltro stabilito a priori dal legislatore, ma è rimesso alla decisione del giudice istruttore, sia pure con il limite di rispettare il termine minimo di venti giorni con riferimento all'udienza di trattazione. Ne consegue che il giudice istruttore non può esimersi dal provvedere ad assegnare un siffatto termine («in ogni caso») e che «il convenuto ha sempre diritto, senza bisogno di autorizzazione, di proporre per iscritto le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio». In terzo luogo, perché il legislatore non specifica che deve trattarsi di convenuto costituito, discorrendo genericamente di convenuto.
La soluzione negativa, comportando che per il convenuto contumace le preclusioni in ordine alle eccezioni operano con l'udienza di prima comparizione, dà vita ad una disparità di trattamento che non trova fondamento in alcuna norma di legge e che contrasta in ogni caso con principi costituzionali.
Tanto premesso e passando ad esaminare le eccezioni, va rilevato che il legislatore distingue le eccezioni in rilevabili di ufficio e non rilevabili di ufficio, nonché in eccezioni di merito e processuali.
In ordine a queste ultime, va detto che esse non possono che riguardare gli atti introduttivi o le questioni pregiudiziali, quali la giurisdizione, la competenza o altre di rito (art. 279, n. 1 e 2, c.p.c.). Un discorso a sé merita l'eccezione di incompetenza per territorio derogabile, che non rientra sicuramente fra quelle rilevabili d'ufficio. Infatti, ai sensi dell'art. 38, 2° comma, c.p.c., l'incompetenza per territorio derogabile deve essere «eccepita a pena di decadenza nella comparsa di risposta». Orbene, con la riforma del 1990 si prevedeva che l'eccezione dovesse essere sollevata nella comparsa da depositare venti giorni prima l'udienza; il sistema aveva una sua coerenza e l'art. 38, 2° comma, trovava il suo riscontro negli artt. 166 e 167 c.p.c. I dd.ll. che hanno modificato la l. n. 353 del 1990 sono intervenuti sul regime delle preclusioni, senza minimamente porsi il problema di assicurare un sistema coerente ed armonico. Ed infatti, da un lato è stato conservato intatto l'art. 38, 2° comma, che però non contempla più la possibilità di eccepire l'incompetenza per territorio derogabile, «in generale, nel primo atto difensivo del giudizio di primo grado», e, dall'altro, si è modificato l'art. 167, nel senso che nella comparsa di risposta devono essere proposte a pena di decadenza la domanda riconvenzionale e la chiamata di un terzo in causa.
Alla luce di quanto rilevato, ne deriva che l'eccezione di incompetenza territoriale derogabile va eccepita a pena di decadenza sempre nella comparsa di risposta, allorché il convenuto si costituisce in giudizio, indipendentemente dal momento in cui ciò avviene, con la precisazione che il dies ad quem è comunque rappresentato, al più tardi, dal termine perentorio fissato dal giudice ai sensi dell'art. 180 c.p.c. In diverse parole, il convenuto deve eccepire, a pena di decadenza, l'incompetenza territoriale derogabile, ai sensi dell'art. 38, 2° comma, nella comparsa di risposta
- o allorché si costituisce venti giorni prima l'udienza di comparizione, in quanto deve proporre la domanda riconvenzionale o deve chiamare un terzo in causa o per altra ragione;
- o allorché si costituisce prima o nel corso della prima udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c;
- o allorché si costituisce, dopo l'udienza di comparizione, nel termine perentorio indicato dal giudice ex art. 180 c.p.c. per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio.
Ad ogni buon conto va detto che, come esattamente rilevato in dottrina, «le questioni processuali non pongono soverchi problemi, poiché il legislatore, di solito, non manca di disciplinare specificamente il rilievo dell'eccezione (v. ad es. gli artt. 37 e 38 c.p.c.)». Così, a mero titolo di esempio, sono eccezioni processuali non rilevabili di ufficio, oltre all'eccezione di incompetenza per territorio derogabile (art. 38); quella di giurisdizione del giudice italiano nei confronti dello straniero, sempre che lo straniero non sia contumace e la domanda non riguardi beni immobili situati all'estero (art. 37, 2° comma); quella di nullità della citazione per inosservanza dei termini minimi a comparire o per la mancanza dell'avvertimento di cui al n. 7 dell'art. 163, sempre che il convenuto si sia costituito (art. 164, 3° comma), quella di esistenza di un compromesso per arbitrato rituale; sono invece eccezioni rilevabili di ufficio quella di competenza per territorio funzionale, per materia e per valore, che devono comunque essere rilevate od eccepite entro l'udienza di trattazione (art. 38, 1° comma); la litispendenza (art. 39, 1° comma), la continenza (art. 39, 2° comma); il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, dei giudici speciali, dello straniero contumace (art. 37); la connessione, che deve peraltro essere eccepita o rilevata entro la prima udienza.
Diverso discorso va fatto per le eccezioni di merito, per le quali la separazione fra eccezioni rilevabili su istanza di parte o di ufficio si presenta in modo più delicata e più complessa. In generale si può dire, recependo un orientamento dottrinale e giurisprudenziale che si può definire maggioritario, che , «a meno che la legge non disponga diversamente e non si rientri nell'ambito delle cosiddette azioni costitutive ... , il giudice può rilevare di ufficio tutti i fatti estintivi, modificativi, impeditivi, siano essi semplici fatti giuridici o effetti di una fattispecie». La condizione è che il fatto sia comunque allegato al processo, non potendo come è noto il giudice utilizzare proprie conoscenze, ad eccezione dei c.d. fatti notori.
A voler indicare alcune ipotesi, senza pretesa di esaustività, si può ricordare che sono rilevabili di ufficio: il pagamento, la novazione (art. 1230 c.c.), la rinuncia al diritto, la risoluzione consensuale del contratto (art. 1372 c.c.), la simulazione (art. 1414 c.c.), la condizione (art. 1353), il termine, la presupposizione, la rimessione (art. 1236 c.c.), la nullità del contratto (art. 1421 c.c.), la legittima difesa (art. 2044 c.c.).
Saranno, invece, suscettibili solo di eccezione
di parte o quei fatti che la legge riserva appunto alla parte,
come ad esempio la prescrizione (art. 2938 c.c.), la decadenza
(art. 2969 c.c.), la nullità del brevetto nel giudizio
di contraffazione del marchio, l'eccezione di compensazione (art.
1242 c.c.), oppure quelle situazioni con le quali si fa valere
un diritto potestativo, ove la manifestazione di volontà
della parte è necessaria perché si produca l'effetto
giuridico previsto dalla norma, come accade ad esempio per l'eccezione
di annullamento (art. 1442 c.c.), di rescissione (art. 1449 c.c.),
di inadempimento (art. 1460 c.c.), di vizi della cosa compravenduta
(art. 1495 c.c.), di vizio di difformità dell'opera nell'appalto
(art. 1667 c.c.). In tali ipotesi il convenuto non solo dovrà
allegare il fatto, ma dovrà altresì dedurre la relativa
eccezione.
11. L'udienza di trattazione. Alcune velocissime considerazioni è opportuno svolgere riguardo all'udienza di trattazione, con esclusivo riferimento al convenuto, anche perché tale udienza è oggetto di altra relazione.
I dd.ll. del 1995 hanno introdotto alcune modifiche nel 3° e 4° comma, concernenti le attività dirette a fissare definitivamente il thema decidendum.
Nel 3° comma si sono eliminati sia il richiamo alla comparsa di risposta, visto che le eccezioni possono essere proposte dal convenuto anche in un atto diverso e successivo dalla comparsa, sia la preventiva autorizzazione del giudice per potere modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni. Sicché, in base a tale disposizione, alla prima udienza di trattazione il convenuto, al pari dell'attore, può sempre «precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate», anche se non ricorrono gravi motivi, come previsto nel processo del lavoro (art. 420, 1° comma, c.p.c.).
Il 4° comma è stato oggetto di modifiche più profonde, in quanto si è generalizzata una previsione che era originariamente prevista solo per il convenuto, peraltro con riferimento a nuove attività poste in essere dall'attore.
In particolare, nella prima parte è stato cancellato l'inciso «ove ricorrano giusti motivi», sicché sarà sufficiente che all'udienza di trattazione una delle parti (non è necessaria la richiesta di tutte le parti) chieda di depositare memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande ed eccezioni proposte, perché il giudice debba fissare un termine perentorio. Con la conseguenza che deve escludersi che la causa possa essere rinviata ad altra udienza solo per lo scambio ed il deposito di memorie.
Nella seconda parte dell'originaria formulazione era previsto che il solo convenuto potesse chiedere la concessione di un termine (perentorio non superiore a trenta giorni) per replicare alle domande ed eccezioni dell'attore proposte nella stessa udienza di trattazione e per proporre le eccezioni (ma non quindi nuove domande) che fossero conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime. Tale disposizione è stata modificata, non solo nel senso che è stato eliminato il riferimento al convenuto, ma soprattutto nel senso che tale previsione è ora ricollegata alla prima parte dell'ultimo comma dell'art. 183 e non più alla prima parte del 4° comma. Si legge infatti oggi che il giudice istruttore «concede altresì alle parti un successivo termine perentorio non superiore a trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell'altra parte e per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime».
Quindi, dopo la prima udienza di trattazione si potrà
avere un doppio termine perentorio, sempre non superiore a trenta
giorni: un primo per il deposito di memorie contenenti precisazioni
o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni
già proposte negli atti introduttivi o nell'udienza di
trattazione; un secondo per replicare alle domande ed eccezioni
nuove o modificate dell'altra parte e per proporre le eccezioni
che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime.
12. La rimessione in termini. Ogni sistema processuale che preveda delle preclusioni a carico delle parti non può non contemplare che in alcuni casi la parte che sia incorsa in una decadenza possa porre in essere quell'attività. Nel nostro codice di procedura civile manca una norma di carattere generale e ricorrono specifiche fattispecie, come ad esempio in caso di contumacia involontaria (art. 294 e 327, 2° comma, c.p.c.), di decadenza dall'assunzione della prova (artt. 208 e 104 disp. att. c.p.c.), di prosecuzione del processo a seguito della sentenza della Corte di Cassazione sul regolamento di competenza (art. 49, 2° comma, c.p.c.), di opposizione tardiva a decreto ingiuntivo (art. 650 c.p.c.), di opposizione tardiva dopo la convalida della licenza o dello sfratto (art. 668 c.p.c.).
Il legislatore del 1990 ha introdotto nel codice di rito una nuova disposizione, l'art. 184-bis, ove ha stabilito che «la parte che dimostra di essere incorsa nella decadenze previste negli articoli 183 e 184 per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini». Tale disposizione, dettata per evitare che la decadenza finisca per colpire la parte che senza sua colpa vi sia incorsa, faceva riferimento ai soli artt. 183 e 184 e non considerava le decadenze di cui all'art. 167, 2° e 3° comma. Questa limitazione aveva fatto sorgere in dottrina non poche perplessità e la norma in esame era stata oggetto di interpretazioni differenti: così mentre alcuni autori avevano sostenuto un'interpretazione estensiva, tale da abbracciare anche le decadenze di cui all'art. 167, 2° comma, altri l'avevano negata, sul presupposto dell'eccezionalità dell'istituto della rimessione in termini, ed altri ancora avevano avanzato dubbi di legittimità costituzionale riguardo alla limitazione operata nell'art. 184-bis.
Sta di fatto che i più volte citati dd.ll. del 1995 hanno modificato l'art. 184-bis, escludendo il riferimento agli artt. 183 e 184; la norma oggi discorre genericamente di decadenze, sì da potere affermare che con essa si è introdotto nel processo civile un meccanismo generale di rimessione in termini, che comprende tutte quelle ipotesi, che non sono già espressamente previste da specifiche norme, nelle quali le parti siano incorse in decadenze per cause a loro non imputabili. Intervento questo senz'altro opportuno perché elimina tutte quelle discussioni che erano sorte in dottrina in ordine alla reale portata dell'art. 184-bis, risolvendo tutti i problemi che potevano sorgere seguendo un'interpretazione letterale della norma nel suo originario testo.
Pertanto, mentre l'art. 294 c.p.c. disciplina l'ipotesi della parte che è rimasta contumace e che chiede di essere rimessa in termini, adducendo e dimostrando che la nullità della citazione o della sua notificazione le ha impedito di avere conoscenza del processo, l'art. 184-bis concerne le preclusioni che operano, nei confronti di tutte le parti che risultano costituite in giudizio (attore, convenuto ed eventuali terzi), con riferimento a) alla domanda riconvenzionale o di accertamento incidentale (art. 167); b) alla chiamata di un terzo in causa (art. 167 e 183, 4° comma); c) alle eccezione non rilevabili di ufficio (artt. 38 e 180); d) alla precisazione o alla modificazione delle domande e delle eccezioni già proposte (art. 183 4° e 5° comma); e) alla proposizione di nuove domande ed eccezioni (che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto) (artt. 183, 4° comma); f) alla proposizione di nuove eccezioni conseguenza delle nuove domande ed eccezioni (art. 183, 5° comma); g) all'indicazione di nuove prove e alla produzione di nuovi documenti (art. 184).
Ne consegue che tale disposizione assume notevole rilievo nel processo previsto dal legislatore del 1990, in quanto rappresenta la «valvola di sicurezza» rispetto al sistema di preclusioni che caratterizzato il nostro processo civile.
Per quanto concerne l'evento che consente la rimessione in termini, il legislatore del 1990 ha ripetuto la formula usata nell'art. 294, ossia «per causa ad essa non imputabile», non accogliendo così le indicazioni contenute in alcuni progetti precedenti, ove si proponeva di subordinare la rimessione «a gravi motivi sopravvenuti» oppure a «forza maggiore o fatto dell'avversario». Ciò per far sì che «nell'applicazione della disposizione, la giurisprudenza possa far tesoro dell'esperienza maturata nell'applicazione di tale disposizione, piuttosto che disperdersi nella definizione di nuove categorie». Al riguardo, peraltro, è stato osservato che nella prassi rari sono stati i casi di applicazione dell'art. 294, sicché l'interprete non potrà trovare particolare giovamento, tanto più che le fattispecie considerate dall'art. 294 e dall'art. 184-bis sono differenti.
In dottrina, al fine di determinare la portata della disposizione legislativa, si è prospettata un'interpretazione che individua nell'art. 184-bis lo strumento per rimediare non solo «a decadenze derivanti da impedimenti di natura strettamente materiale o comunque obiettiva, riportabili al concetto di forza maggiore», ma anche «per ammettere ... i nova che comunque possano reputarsi giustificati da eventi o da esigenze difensive realmente sopravvenute ..., magari in conseguenza di (consentite) variazioni nel complesso apparato difensivo dell'altra parte» e «per fondare l'ammissibilità di nuove (tardive) allegazioni e/o deduzioni istruttorie aventi ad oggetto fatti (principali) sopravvenuti nel corso del giudizio, oppure fatti preesistenti, traenti nuova rilevanza dallo ius superveniens, che eventualmente implichino (anche) modificazioni delle domande originariamente formulate». Certamente non sarà possibile la rimessione in termini quando il fatto è da addebitare a negligenza del difensore o della parte o a loro inattività
Relativamente all'istituto in esame, va detto, per completezza, che sono state manifestate talune perplessità proprio in merito alla scelta operata dal legislatore di rimettere al giudice ed al suo potere discrezionale «il compito di adeguare il regolamento processuale rigido alle esigenze del singolo processo», atteso che un uso distorto «rischia di scardinare l'intero sistema fondato sull'attuazione del principio di preclusione».
Il 2° comma dell' art. 184-bis richiama l'art. 294, 2° e 3° comma. Ne consegue che una volta che il giudice ritenga «verosimili i fatti allegati», «ammette, quando occorre, la prova dell'impedimento, e quindi provvede sulla rimessione in termini delle parti» (art. 294, 2° comma), con ordinanza (art. 294, 3° comma), che è sempre modificabile e revocabile ai sensi dell'art. 177, 2° comma, c.p.c. L'istruttoria è pertanto meramente eventuale.
Giustamente si è sottolineato che, una volta
rimessa in termini una parte, è inevitabile, se non si
vuole violare il principio del contraddittorio e di uguaglianza,
consentire alle altre parti di porre in essere quelle attività,
aventi ad oggetto sia l'allegazione di fatti sia la richiesta
di nuovi mezzi probatori, che sono conseguenza, non solo necessaria,
ma anche opportuna, della attività esperita dalla parte
che era incorsa in decadenze.
13. Considerazioni riassuntive. Dall'analisi svolta si può ricavare una prima considerazione. Il sistema disegnato nella legge n. 353 del 1990 per quanto concerneva gli atti introduttivi poteva convincere oppure no in ordine alle scelte operate, ma sicuramente si presentava organico. I dd.ll. intervenuti a partire da giugno 1995 hanno introdotto modificazioni anche sostanziali, ma soprattutto hanno inserito in quel sistema elementi di incongruenza, sicché l'opera dell'interprete è più ardua, dovendo coordinare disposizioni di legge ispirate a logiche differenti.
Una seconda osservazione riguarda più in particolare il convenuto, il quale, in base alla legge del 1990, concentrava tutta la sua difesa ed il suo eventuale contrattacco nella comparsa di risposta, potendo al più precisare e modificare le eccezioni, le domande e le conclusioni già formulate nell'udienza di trattazione o in apposite memorie da depositare in un termine perentorio fissato dal giudice, nonché replicare alle domande ed eccezioni proposte dall'attore nell'udienza di trattazione.
Oggi, con la "controriforma" l'attività difensiva o di attacco del convenuto si frantuma in più atti, in quanto il convenuto può costituirsi venti giorni prima la udienza di comparizione, proponendo eventuali domande riconvenzionali o richieste di chiamata di un terzo in causa; può chiedere al giudice all'udienza di comparizione di comunicare una comparsa all'attore; può depositare nel termine fissato dal giudice istruttore, non inferiore a venti giorni prima dell'udienza di trattazione, una memoria contenente eccezioni processuali e di merito; può precisare e modificare per iscritto le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate; può replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell'altra parte e proporre eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni.
Con ciò non si vuole esprimere un giudizio negativo sulla pluralità di scritti difensivi, posto che in tal modo si può conseguire una migliore precisazione del thema decidendum, ma solo porre in evidenza come tutta questa attività ben potrebbe svolgersi fuori dell'udienza (rectius della prima udienza), evitando il condizionamento negativo dei tempi inevitabilmente lunghi del processo.
Al contrario con i dd.ll. del 1995 si è arrivati
a prevedere una nuova udienza, quella di comparizione, che inserendosi
fra l'atto di citazione e la prima udienza di trattazione comporterà
un inutile allungamento dei tempi del processo, inutile in quanto
in tale udienza si dovrebbero svolgere attività che nella
maggioranza dei processi non si hanno e che ben potevano continuare
a prevedersi nell'udienza di trattazione.
14. L'intervento dei terzi. L'intervento volontario. Dopo avere esaminato la posizione del convenuto, possiamo ora analizzare la figura del terzo. Come abbiamo posto in evidenza all'inizio, il legislatore del 1990 è intervenuto esclusivamente sugli aspetti processuali, modificando gli artt. 268, 269 e 271 c.p.c. e lasciando inalterati gli artt. 105, 106 e 107, oltre agli artt. 267, 270 e 272 c.p.c.
In particolare, il legislatore del 1990 ha adeguato, anche se, come si vedrà, non con buoni risultati, la disciplina riguardante l'intervento del terzo alla nuova struttura del processo civile di cognizione e soprattutto della fase iniziale, così come prevista nella legge di riforma. Ciò che peraltro va ancora una volta sottolineato è che i dd.ll. emanati nel 1995 hanno lasciato immutata la disciplina dettata nel 1990, nonostante le significative modifiche apportate proprio alla fase introduttiva.
La prima figura da considerare è quella dell'intervento volontario di cui all'art. 105 c.p.c., che è poi la figura che pone i maggiori problemi.
Ai sensi dell'art. 267 c.p.c. «per intervenire nel processo a norma dell'articolo 105, il terzo deve costituirsi presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa formata a norma dell'articolo 167 con le copie per le altre parti, i documenti e la procura». Tale disposizione non è stata interessata dalla riforma, che ha invece modificato l'art. 268, nel senso che «l'intervento può avere luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni» e non più, come prevedeva la precedente formula, «finché la causa non sia rimessa dal giudice istruttore al collegio». Inoltre, il 2° comma, dispone oggi che «il terzo non può compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, salvo che comparisca volontariamente per l'integrazione necessaria del contraddittorio». E' pertanto scomparso il riferimento alla prima udienza, causa evidentemente il sistema di preclusioni introdotto con la riforma del 1990, che tuttora prevede che alcune decadenze possano anche verificarsi in un momento precedente alla prima udienza.
La nuova formulazione dell'art. 268 induce ad una prima riflessione. Il legislatore del 1990, pur avendo introdotto un sistema di preclusioni al fine di evitare che le parti possano proporre nuove domande ed eccezioni, allegare nuovi fatti e chiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova nel corso del processo, non ha ritenuto di fare propria la disciplina dettata dal legislatore del 1973 riguardo all'intervento del terzo nel processo del lavoro. Nel rito speciale, infatti, «salvo che sia effettuato per l'integrazione necessaria del contraddittorio, l'intervento del terzo ai sensi dell'art. 105 non può aver luogo oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto, con le modalità previste dagli articoli 414 e 416 in quanto applicabili» (art. 419 c.p.c.). Questa norma, come è noto, è stata in seguito integrata dalla decisione della Corte Costituzionale del 29 giugno 1983, n. 193, con cui è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 419 «nella parte in cui ... non attribuisce al giudice il potere-dovere di fissare, con il rispetto del termine di cui all'art. 4155 ...- una nuova udienza, non meno di dieci giorni prima della quale potranno le parti originarie depositare memorie, e di disporre che, entro cinque giorni, siano notificati alle parti originarie il provvedimento di fissazione e la memoria dell'interveniente, e che sia notificato a quest'ultimo il provvedimento di fissazione della nuova udienza».
Il legislatore del 1990, invece, consente al terzo di intervenire nel processo ordinario di cognizione «sino a che non vengano precisate le conclusioni», senza preoccuparsi di operare una distinzione fra i vari tipi di intervento volontario.
L'introduzione del giudice unico in primo grado ha indotto chiaramente il legislatore ad eliminare il riferimento alla rimessione della causa al collegio e ad individuare un altro momento, presente sia nelle ipotesi normali in cui la causa è assegnata al giudice istruttore in funzione di giudice unico, sia nelle ipotesi eccezionali previste dall'art. 48, 2° comma, r.d. 20 gennaio 1941, n. 12, sull'ordinamento giudiziario, ove è conservata la figura del collegio e quindi la dicotomia fra l'istruttore ed il collegio. Questo momento è stato indicato nella precisazione delle conclusioni, momento che cadeva in realtà immediatamente prima della rimessione al collegio e che ritroviamo anche nel giudizio dinanzi al pretore, allorché la decisione è a seguito di trattazione scritta (art. 314 c.p.c.), e al giudice di pace (art. 321 c.p.c.). La precisazione delle conclusioni non è contemplata espressamente nell'art. 315 c.p.c., dettato a proposito della decisione a seguito di trattazione orale sempre dinanzi al pretore, ove si dispone che «il pretore ... può ordinare l'immediata discussione orale della causa», al termine della quale pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Peraltro, poiché ai sensi dell'art.62 disp. att., il pretore, dichiarata chiusa l'istruzione, invita le parti, prima di discutere la causa «a formulare le conclusioni», bisogna ritenere che anche in quest'ultima ipotesi il termine ultimo per l'intervento sia rappresentato dalla precisazione delle conclusioni dinanzi al pretore.
Avere previsto che l'intervento possa avere luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni in un processo caratterizzato da preclusioni che operano a carico delle parti fin dai primi atti ha fatto sorgere numerosi interrogativi in ordine sia agli effettivi poteri del terzo, anche alla luce della previsione del 2° comma dell'art. 268, sia ai poteri delle parti originarie.
Bisogna subito fare presente che in dottrina sono state prospettate differenti interpretazioni con riferimento soprattutto alla possibilità da parte del terzo di proporre una domanda nuova, destinata ad ampliare l'oggetto del processo. Infatti, se si fa eccezione per il terzo che interviene volontariamente, senza far valere un proprio diritto, ma soltanto sostenendo le ragioni di una parte nei confronti dell'altra (c.d. intervento adesivo dipendente: art. 105, 2° comma), il terzo allorché interviene propone una domanda nuova nei confronti di tutte le parti (c.d. intervento principale) o di una sola (c.d. intervento litisconsortile o adesivo autonomo).
Orbene secondo un primo orientamento il terzo, che interviene dopo la scadenza del termine di cui all'art. 166 c.p.c. per la costituzione del convenuto non può proporre nuove domande, essendo queste precluse alle parti, sicché «l'ammissibilità dell'intervento fino alla precisazione delle conclusioni non può essere quindi che riferita al solo intervento adesivo ... nel quale -come è noto- il terzo non propone una domanda «nuova», ma si limita a chiedere l'accoglimento della domanda «vecchia» già formulata da una delle altre parti». In tal modo, secondo i sostenitori di questa tesi, si evita che «un intervento "tardivo" (rispetto alla fase preparatoria ex art. 167, 183 3 184) del terzo stravolga il regime delle preclusioni previste per le parti (e la rivalutazione del giudizio di primo grado che tramite esse la l. 353/1990 mira a realizzare)».
Per una seconda tesi, il terzo può, invece, proporre la domanda, in qualsiasi momento del processo in primo grado, con il limite rappresentato dalla precisazione delle conclusioni; «la dizione dell'art. 268 non può essere presa alla lettera, perché altrimenti un intervento ex art. 105, comma 1, non potrebbe essere effettuato dopo la prima udienza, che è il termine ultimo entro il quale le parti ... possono proporre domande nuove. Esclusa così la prima e principale preclusione (quella relativa alla proposizione di domande nuove in corso di causa) ne discende pianamente che anche le preclusioni relative alle allegazioni ed alle prove non potranno valere ai danni dell'interveniente». Soltanto il terzo che interviene in via adesiva dipendente, pertanto, deve accettare il processo in statu ed terminis.
Una terza tesi, infine, cerca di conciliare i due commi dell'art. 268 tenendo distinta l'attività di proposizione della domanda da quella diretta a fornire la prova dei fatti costitutivi, con la conseguenza di ammettere che il terzo possa intervenire fino alla precisazione delle conclusioni, proponendo la relativa domanda, ma di negare allo stesso terzo, che «intervenga dopo il maturare delle barriere preclusive, atti istruttori non più consentiti alle altre parti, sulla scorta del divieto, posto nei suoi confronti, proprio dalla norma positiva (art. 268, comma 2°, c.p.c.)».
Tutte e tre le interpretazioni indicate lasciano insoddisfatti, in quanto ognuna di esse presenta dei limiti. La prima finisce per circoscrivere l'istituto dell'intervento del terzo di cui all'art. 105, 1° comma, c.p.c., negando ingresso al terzo dopo la scadenza delle preclusioni a carico delle parti, nonostante la lettera del 1° comma dell'art. 268; la seconda comporta invece una sostanziale abrogazione del 2° comma dell'art. 268 e una equiparazione contra legem fra il terzo interventore volontario titolare di un diritto (art. 105, 1° comma) ed il terzo che interviene per l'integrazione necessaria del contraddittorio; la terza, infine, comprime il diritto di azione e di difesa del terzo che, pur potendo proporre la domanda, non può tuttavia fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere, allorché intervenga dopo che si sono verificate per le parti le preclusioni istruttorie, terzo che non sempre, nel momento in cui interviene, è nelle condizioni di valutare appieno i vantaggi e gli svantaggi che provoca il suo ingresso nel processo; inoltre, la seconda e la terza tesi, consentendo al terzo di intervenire nel corso del processo in primo grado, introducono nel giudizio una causa di ritardo e comunque un elemento di possibile complicazione, a danno delle parti originarie che sono costrette a subire un allungamento dei tempi del processo.
Tanto premesso, la tesi, che pur con i limiti indicati, sembra lasciarsi preferire è la prima, sia pure con talune precisazioni, atteso che essa appare quella più aderente alla struttura del processo civile di cognizione e segnatamente al sistema di preclusioni che caratterizza il nuovo processo. E' vero che il legislatore del 1990 non ha ritenuto di seguire la soluzione fatta propria dal legislatore del 1973, relativamente al processo del lavoro, ove come si è visto si dispone che il terzo possa intervenire soltanto dieci giorni prima dell'udienza; ed è altrettanto vero che il 1° comma dell'art. 268 riconosce al terzo il diritto di intervenire nel corso del processo fino all'udienza di precisazione delle conclusioni; ma è anche vero che il 1° comma dell'art. 268 deve essere letto unitamente al 2° comma, che per indicare i poteri del terzo fa riferimento al sistema di preclusioni che opera nei confronti delle parti originarie. Con la conseguenza che la soluzione da dare al problema indicato non può che essere conforme al sistema di preclusioni adottato dal legislatore del 1990, che esclude che dopo l'udienza di trattazione possano essere proposte nuove domande. Rilevava ANDRIOLI che sarebbe «superfluo creare un complesso meccanismo di termini di preclusione e permettere poi ad un terzo di scompigliare la delicata trama e di riprendere il processo da un punto che le parti avevano già irremissibilmente superato».
Una immediata conferma di tale considerazione deriva dall'avere il legislatore del 1990 eliminato il riferimento alla prima udienza previsto nel 2° comma dell'art. 268 c.p.c., proprio in quanto esistono atti che devono essere compiuti ancor prima della prima udienza.
Inoltre, non può non considerarsi che il terzo che propone una domanda nel corso del processo amplia l'oggetto del giudizio, finendo per rendere più gravoso il processo, per ritardarne la sua conclusione e per «interferire con l'autonomia delle parti nell'esercizio dei loro diritti e poteri processuali». Ne consegue che è inevitabile, anche per non danneggiare le parti, porre dei limiti temporali alla possibilità di intervento del terzo.
Né si può ritenere che limitare temporalmente l'intervento del terzo che intende proporre una nuova domanda comporti la violazione di norme o principi costituzionali, in quanto in tal modo non si vieta al terzo di agire in giudizio, dal momento che questi può benissimo proporre autonoma domanda, senza incorrere in alcuna preclusione. Al contrario a fare sorgere dubbi di legittimità costituzionale è, come si è detto, l'interpretazione che tende a riconoscere l'ammissibilità della nuova domanda, con il limite temporale della precisazione delle conclusioni, nel momento in cui non si consente al terzo intervenuto oltre l'udienza di cui all'art. 184 c.p.c. di fornire la prova dei fatti costitutivi.
Si è detto che l'interpretazione qui condivisa finirebbe per abrogare sostanzialmente il 1° comma dell'art. 268. Non pare di potere condividere tale assunto, dal momento che la disposizione in esame disciplina la fattispecie del terzo che interviene volontariamente, ma senza far valere un proprio diritto e, dunque, senza proporre una nuova domanda (c.d. intervento adesivo dipendente).
A voler esaminare le possibili situazione che possono verificarsi, è possibile svolgere le seguenti precisazioni:
a) riguardo al c.d. interveniente adesivo dipendente, che non propone una domanda, ma si limita a sostenere le ragioni di una parte, si può affermare che il terzo può intervenire in qualsiasi momento, ma subisce le limitazioni alla propria attività processuale previste nel 2° comma dell'art. 268 c.p.c.;
b) riguardo al c.d. interveniente principale o litisconsortile, che propone una domanda nei confronti di tutte le parti o di una di esse, il terzo deve intervenire b1) nel termine fissato dall'art. 166 c.p.c., se il suo interesse sorge dalla domanda attrice; b2) entro l'udienza di trattazione, se il suo interesse deriva dalla domanda riconvenzionale o dalle eccezioni del convenuto. Dopo tale udienza, non potendo le parti originarie proporre nuove domande, il terzo non può proporre domande nuove.
c) riguardo al terzo che interviene volontariamente per l'integrazione necessaria del contraddittorio, l'ultima parte del 2° comma dell'art. 268 esclude qualsiasi limitazione. Pertanto il terzo può intervenire in qualsiasi momento, senza subire alcuna limitazione anche in ordine all'attività probatoria e compiere tutte quelle attività che ritiene utili ed opportune alla tutela della propria posizione giuridica.
d) riguardo alle parti originarie, nulla prevede
la legge in merito alla possibilità di proporre domande
od eccezioni che siano conseguenza della domanda o delle eccezioni
sollevate dal terzo oppure di chiedere l'ammissione di mezzi di
prova, anch'essi conseguenza diretta dell'attività del
terzo. Il sistema offre oggi gli strumenti per colmare la lacuna
legislativa; in particolare l'art. 184-bis, nella sua odierna
formulazione, consente di affermare che, a seguito dell'intervento
del terzo, il giudice deve concedere un termine alle parti per
il deposito di memorie. Ciò trova una sua conferma nell'ultimo
comma dell'art. 269, dettato a proposito della chiamata di un
terzo in causa dal parte dell'attore, ove si prevede che nell'udienza
di comparizione del terzo il giudice deve fissare il termine di
cui all'ultimo comma dell'art. 183 (in verità si tratta
ora di un doppio termine, uno per il deposito di memorie contenenti
precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e
delle conclusioni già proposte ed uno successivo per replicare
alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell'altra parte
e per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande
e delle eccezioni medesime). In altri termini, allorché
nel corso di causa interviene un terzo, alle parti non può
non essere concesso un termine per potere replicare al terzo.
15. La chiamata del terzo su richiesta del convenuto. Rinvio. L'art. 269 prevede la chiamata di un terzo in causa, disciplinando in maniera differente l'ipotesi in cui la richiesta di chiamata del terzo provenga dal convenuto oppure dall'attore. Si tratta di una novità rispetto al passato, atteso che il precedente testo dell'art. 269 discorreva indifferentemente di parte, contemplando un'unica regolamentazione.
Per quanto concerne il convenuto, si è avuto
modo di trattare in precedenza la relativa problematica, sicché
si rinvia a quanto già rilevato.
16. La chiamata del terzo su richiesta dell'attore. Il legislatore riconosce all'attore la possibilità di modificare la propria condotta processuale in seguito alle difese ed alle iniziative del convenuto, tanto da consentirgli anche di chiamare in causa un terzo. Il 3° comma dell'art. 269 dispone che, «ove, a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, sia sorto l'interesse dell'attore a chiamare in causa un terzo, l'attore deve, a pena di decadenza, chiederne l'autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza. Il giudice istruttore, se concede l'autorizzazione, fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis. La citazione è notificata al terzo a cura dell'attore entro il termine perentorio stabilito dal giudice».
La disposizione ricordata induce ad alcune riflessioni.
L'attore può chiedere di chiamare un terzo solo nel caso in cui l'interesse sia sorto dalle eccezioni o dalle domande o più in generale dalle difese proposte dal convenuto nella comparsa di risposta o negli eventuali atti successivi, presentati dal convenuto. In dottrina si ritiene che tale interesse possa derivare non solo dalla domanda riconvenzionale o dalla chiamata di un terzo in causa, che vanno proposte dal convenuto prima dell'udienza di comparizione, o dalle eccezioni in senso stretto, che vanno proposte sempre dal convenuto, a pena di decadenza, prima dell'udienza di trattazione di cui all'art. 183 c.p.c., ma altresì dalle mere difese, che possono essere formulate nel corso del processo. La conseguenza di questa lettura dell'art. 269 è che la preclusione non può che essere data dalla «prima udienza» successiva a siffatte difese. D'altra parte l'art. 269, 3° comma, parla genericamente di prima udienza.
Se ciò è esatto ne deriva altresì che se l'interesse dell'attore a proporre la domanda riconvenzionale è dato dalla domanda riconvenzionale o dalla chiamata di un terzo in causa, la preclusione opera fin dall'udienza di comparizione di cui all'art. 180 c.p.c., essendo la prima udienza, e non con l'udienza di trattazione di cui all'art. 183 c.p.c..
Inoltre va sottolineato che, mentre il convenuto chiede di chiamare in causa un terzo ed il giudice deve provvedere a fissare la nuova udienza, senza potere valutare la richiesta ed eventualmente rigettarla, l'attore deve chiedere l'autorizzazione al giudice istruttore, il quale è pertanto titolare di un potere discrezionale di accordarla oppure no dopo avere valutato la sussistenza della comunanza di causa e la dipendenza dell'interesse a chiamare in causa il terzo dalle difese del convenuto.
Per quanto concerne il potere del giudice di autorizzare la chiamata in causa del terzo si deve richiamare quell'orientamento giurisprudenziale secondo cui la chiamata di un terzo in causa è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di primo grado, sottratta al controllo del giudice dell'impugnazione.
Come si è detto, perché l'attore possa chiamare un terzo in causa, è necessario che il suo interesse sia sorto dalle difese del convenuto. Orbene, si è autorevolmente affermato in dottrina che tale interesse deve ricollegarsi «ad una circostanza che il convenuto stesso abbia dedotta a fondamento di una sua eccezione nei confronti della domanda dell'attore; e non sarà sufficiente che si tratti di circostanza alla quale sia fatto riferimento nella comparsa di risposta ma che non abbia rilievo, in sé, per l'accoglimento o il rigetto della domanda stessa».
Per quanto concerne la dipendenza dell'interesse dalle difese del convenuto, va precisato che tale dipendenza deve ritenersi sussistere «a) nei casi di connessione per l'oggetto e/o per il titolo, b) nei casi di contestazione della titolarità del rapporto giuridico controverso, c) nei casi di pregiudizialità, dipendenza». La possibilità di chiamare in causa il terzo troverà peraltro un ostacolo nella diversità dei criteri di giurisdizione o di competenza inderogabile tra la controversia esistente fra le parti originarie e quella che interessa il terzo.
L'espressa previsione dell'autorizzazione porta ad escludere che l'attore possa, di sua iniziativa, citare direttamente per l'udienza di trattazione il terzo, anche se vi è l'interesse alla sua chiamata e se vi è comunque rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis (ad esempio perché l'interesse è sorto a seguito della proposizione di domanda riconvenzionale o di richiesta di chiamare un terzo in causa).
Il provvedimento di autorizzazione (che avrà forma di ordinanza) dovrà essere emesso nell'udienza di trattazione (art. 184) e dovrà contenere la fissazione di una nuova udienza affinché il terzo possa essere citato, nel rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis. E' importante ricordare che il termine indicato dal giudice ha carattere perentorio, mentre uguale carattere non è stato espressamente attribuito al termine previsto per la citazione del terzo ad opera del convenuto.
All'udienza così fissata il giudice istruttore dovrà concedere alle parti il doppio termine previsto nell'art. 183, ultimo comma, c.p.c. e dovrà rinviare la causa ad altra udienza per i provvedimenti di cui all'art. 184, in tema di istruzione.
Anche l'attore, come il convenuto, deve depositare
la citazione notificata nel termine di dieci giorni dall'avvenuta
notifica; come detto si tratta comunque di un termine non perentorio,
la cui inosservanza non comporta alcuna conseguenza.
17. La chiamata del terzo su ordine del giudice. Il legislatore del 1990 non ha apportato alcuna modifica all'art. 270 c.p.c., che disciplina la chiamata di un terzo per ordine del giudice. Pertanto può essere sufficiente ricordare che
a) il presupposto perché il giudice ordini alle parti di citare il terzo è che egli ritenga «opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune» (art. 107 c.p.c.);
b) l'ordine del giudice può avvenire in qualsiasi momento in primo grado (art. 270, 1° comma, c.p.c.) e risponde ad un potere discrezionale, il cui esercizio si sottrae al controllo in sede di impugnazione;
c) il giudice deve fissare una nuova udienza, affinché il terzo venga citato;
d) se nessuna delle parti provvede a citare il terzo,
il giudice istruttore dispone la cancellazione della causa dal
ruolo (art. 207, 2° comma).
18. La costituzione del terzo chiamato. I poteri del terzo e delle parti originarie. Per quanto concerne il terzo chiamato in causa da una delle pari o per ordine del giudice, va detto che la disciplina in ordine ai poteri ed alle facoltà del terzo risulta oltremodo scarna e lacunosa. Infatti, il 4° comma dell'art. 269 si limita a disporre che «il terzo deve costituirsi a norma dell'articolo 166» e l'art. 271, così come riformato, stabilisce che «al terzo si applicano, con riferimento all'udienza per la quale è citato, le disposizioni degli articoli 166 e 167, 1° comma. Se intende chiamare a sua volta in causa un terzo, deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta ed essere poi autorizzato dal giudice ai sensi del terzo comma dell'articolo 269».
Dalla lettura di queste norme risalta subito l'omesso riferimento al 2° comma dell'art. 167 (che prevedeva la proposizione di domande riconvenzionali e di eccezioni processuali e di merito), nonché il mancato coordinamento dei dd.ll. del 1995 con la disciplina dell'intervento dei terzi, atteso che la proposizione delle eccezioni è oggi contemplata dall'art. 180.
Tanto premesso, sembra certo che non si possa negare al terzo - chiamato in causa o da una delle parti o su ordine del giudice - il potere di proporre domande riconvenzionali, domande di accertamento incidentale, eccezioni processuali e di merito; in caso contrario la lesione del suo diritto di difesa è tanto evidente da non richiedere nessun altro commento. Ma ugualmente non sembra che si possa consentire al terzo di potere proporre tali domande riconvenzionali o di accertamento incidentale ed eccezioni di merito o processuali in qualsiasi momento del processo, senza che si verifichi alcuna decadenza, oppure di potere mutare o modificare la propria posizione processuale in qualsiasi momento del giudizio, atteso che il terzo, con la citazione, è divenuto parte a tutti gli effetti; sicché un siffatto riconoscimento darebbe vita ad una irragionevole disparità di trattamento di analoghe situazioni, sicuramente incostituzionale.
In dottrina si è sostenuto che al terzo, divenuto parte nel processo, non possono non applicarsi, con riferimento all'udienza per la quale è citato, gli artt. 183, 189, 1° comma, e 190-bis, 1° comma, dai quali si ricavano, sia pure indirettamente le stesse preclusioni previste nell'art. 167, 2° comma. Tale interpretazione, ispirata all'evidente scopo di assoggettare situazione analoghe ad uno stesso trattamento processuale, sembra forzare il dato normativo, visto che l'art. 271 richiama solamente ed espressamente il 1° comma dell'art. 167 c.p.c.
Ne consegue che la disciplina dettata a proposito dei poteri del terzo si presenta incostituzionale nella parte in cui non prevede che anche per il terzo, al pari dell'attore e del convenuto, operino le decadenze in ordine alle domande ed alle eccezioni con riferimento all'udienza per la quale è citato, tanto più che la decadenza è prevista soltanto per la chiamata di un terzo da parte del terzo citato in giudizio.
L'art. 271 prevede la decadenza solo per la richiesta di chiamare in causa un altro terzo. In tal ipotesi, peraltro, il terzo deve essere autorizzato dal giudice, al pari di quanto abbiamo visto per la richiesta che proviene dall'attore, anche se non si dispone che l'interesse a chiamare il terzo debba sorgere dalle difese del convenuto o dell'attore. Va sottolineato che in dottrina si discute se il giudice debba solo prendere atto della volontà del terzo, senza potere valutare la richiesta, oppure se l'autorizzazione comporti comunque un potere discrezionale da parte del giudice.
Per quanto concerne la costituzione del terzo, questi dovrà costituirsi depositando una comparsa ai sensi dell'art. 166 c.p.c., venti giorni prima dell'udienza per la quale è stato citato, sia che si tratti di chiamata ad istanza di parte sia che si tratti di citazione per ordine del giudice. Nulla, peraltro, esclude che il terzo decida di costituirsi successivamente o in corso di giudizio, subendo in tal caso, tuttavia le relative preclusioni.
Infine, per quanto concerne i poteri delle parti
originarie, si deve distinguere a seconda che l'attività
difensiva (nuove eccezioni, modificazione o precisazione delle
domande e delle eccezioni) sia oppure no conseguenza della difesa
del terzo. Mentre nel secondo caso, restano ferme le decadenze,
non potendo la chiamata del terzo «costituire motivo per
rimettere in termini le parti rispetto alle decadenze in cui siano
incorse», nel primo non si può non riconoscere alle
parti originarie il diritto di replicare alle difese del terzo.
L'art. 184-bis certamente offre la base normativa per consentire
alle parti di porre in essere tutte quelle attività, sia
di allegazione di nuovi fatti sia di richiesta di nuovi mezzi
probatori, che sono conseguenza delle allegazioni o delle prove
che il terzo ha introdotto nel processo.
19. Le questioni sull'intervento. La legge n. 353 del 1990 ed i decreti emessi nel 1995 non hanno apportato alcuna modifica all'art. 272 c.p.c., che regola eventuali questioni che possono sorgere a seguito dell'intervento. La riforma ha comunque un'influenza indiretta su tale disposizione.
In primo luogo, vi è da dire che tra le questioni di cui all'art. 272, e che sono quelle concernenti la legittimazione all'intervento e gli altri presupposti di cui agli artt. 105, 106 e 107 c.p.c., rientrano sicuramente le contestazioni derivanti dalla concessione o dalla mancata concessione dell'autorizzazione nei casi di richiesta di chiamata del terzo da parte o dell'attore (art. 183, 4° comma) o del terzo chiamato in giudizio (art. 271).
In secondo luogo, la decisione di tali questioni,
che ai sensi dell'art. 272 deve avvenire con il merito con sentenza;
deve essere ovviamente assunta dal giudice istruttore in funzione
di giudice unico, a meno che la causa non rientri fra quelle contemplate
nell'art. 48, 2° comma, ord. giud., nel qual caso sarà
il collegio a decidere.
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