Unità 1 Quintiliano
I

Il progetto educativo. L' "Institutio oratoria" si delinea, dunque, come un programma complessivo di formazione culturale e morale, scolastica ed intellettuale, che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente, dall’infanzia fino al momento in cui avrà acquistato qualità e mezzi per affrontare un uditorio (il termine "institutio" sta ad indicare, propriamente, "insegnamento, educazione, istruzione", tal che potremmo renderlo anche col profondo termine greco di "paidèia"): e ciò, in risposta alla corruzione contemporanea dell’eloquenza, che Q. vede in temi moralistici, e per la quale addita come rimedi il risanamento dei costumi e la rifondazione delle scuole. Ma, soprattutto, propugnò il criterio di ritornare all'antico, alle fonti della grande eloquenza romana, i cui onesti principi erano stati sanciti dall'oratoria di Catone e la cui perfezione era stata toccata da Cicerone. Le fonti dell'opera furono, quasi certamente, la "Retorica" d'Aristotele e proprio gli scritti retorici dell'Arpinate, anche se, a differenza di quest'ultimo, egli intende formare non tanto l'uomo di stato, guida del popolo, ma semplicemente e principalmente l' "uomo"; e, di conseguenza, mentre le analisi di quello s'incentravano nell'ambito strettamente letterario e larvatamente "politico", egli affronta le varie questioni con un'ampiezza tale di orizzonti culturali e di motivazioni "pedagogiche" - da proporsi decisamente come un unicum nella storia letteraria latina.
L'utopia dell'oratore "totale". Pur nella nuova situazione politica, in un impero unitario e pacificato, Q. ripropone così il modello di oratore di età repubblicana, di stampo catoniano-ciceroniano; è nel recupero dell’oratoria per un nuovo spazio di missione civile il vero scopo di Q., in cui si risolve la problematica dei rapporti fra oratore e principe tracciata nel XII libro e tacciata – così ingiustamente – di servilismo: ma non si dimentichi, a tal proposito, che egli doveva effettivamente molto alla dinastia Flavia (in particolare a Domiziano, addirittura osannato come sommo poeta) e che poi apparteneva a quel mondo di "provinciali" che avevano un vero e proprio culto per l'imperatore, simbolo per loro dell'ordine e del benessere.
Insomma, l'oratore perfetto deve avere, secondo il nostro autore, una conoscenza a dir poco "enciclopedica" (filosofia, scienza, diritto, storia), ma dev'essere - oltre che un "tuttologo" - anche un uomo onesto, "optima sentiens optimeque dicens" [XII, 1, 25], o - come disse già Catone - "vir bonus dicendi peritus".
Tuttavia, nel predicare questo ritorno a Cicerone, Q. non realizzava che ciò esigeva anche il ritorno alle condizioni di libertà politica di quel tempo: in ciò, sta il segno più evidente del carattere antistorico (se non "utopistico") del classicismo vagheggiato dal nostro.
Stile. Nel suo tentativo particolare di "recupero formale" della retorica, poi, Q. si oppone da un lato agli eccessi del "Nuovo Stile", cioè della nuova prosa di tipo senecano (Seneca è uno dei suoi bersagli preferiti) e allo stile acceso delle declamazioni (che mirano a "movere" più che a "docere"), dall’altro al troppo scarno gusto arcaico: e propone anche qui - come altrove - il modello di Cicerone (modello di sanità di espressione ch’è insieme sintomo di saldezza di costumi), reinterpretato ai fini di un’ideale equidistanza appunto fra asciuttezza e ampollosità, ovvero di un equilibrato contemperamento dei tre stili "subtile", "medium" e "grande". L’autore, però, sia in teoria, sia soprattutto nella pratica della sua prosa, testimonia concessioni al nuovo gusto per l’irregolarità e per il colore vivace.
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