storia dell'inquisizione     Storia :Indice Generale
 
Quanto segue e' l'introduzione scritta da Valerio Evangelisti al volume "il manuale dell'inquisitore" di Nicolas Eymerich a cura del Prof.  Louis Sala-Molins  editore Fanucci,  viene riproposto per diffondere conoscenza e verità, e come omaggio personale a Valerio Evangelisti ed al Prof. Sala-Molins.

Valerio Evangelisti e' sicuramente l'autore italiano piu' acclamato del momento, forse di tutti i momenti che la fantascienza italiana abbia mai vissuto, autore della mirabile saga di Eymerich, e della saga della vita di Michel de Nostredame, e' anche autorevole autore di innumerevoli saggi storici.


 
 

Valerio Evangelisti




I VOLONTEROSI CARNEFICI DEL PAPA

Il fatto di essere stato scelto per presentare Louis Sala-Molins al pubblico italiano costituisce per me motivo di orgoglio e di piacere. Per almeno tre motivi. Il primo è che devo ai suoi libri – primo tra tutti questo Directorium Inquisitorum, da lui riscoperto e offerto agli studiosi in una versione che ha fatto testo – l’incontro col terribile domenicano Nicolau (Nicolás in castigliano, Nicolas in francese) Eymerich, che poi ho fatto oggetto di una serie di romanzi apprezzati dal pubblico.
Il secondo motivo è apparentemente meno personale. Proprio per questa mia gratitudine, non mi davo pace del fatto che, dopo l’edizione francese e spagnola del Directorium, citata da legioni di studiosi di tutto il mondo, proprio in Italia il lavoro di Sala-Molins fosse diventato oggetto di un atto vergognoso di pirateria editoriale, attuato da chi si illudeva che l’Europa avesse ancora le frontiere rigide di un tempo. Ma di ciò rende conto lo stesso Sala-Molins nella breve nota che precede la sua introduzione al testo. Da parte mia, posso solo dirmi rammaricato che un episodio tanto squallido abbia avuto luogo in questo paese.
Il terzo motivo riguarda la personalità stessa del professor Sala-Molins, luminosa come poche. Catalano, nato alla vigilia della guerra civile spagnola, trascorre l’adolescenza sotto la cappa opprimente del franchismo. Insofferente di quel clima bigotto e reazionario, a 19 anni prende a vagabondare per l’Europa. Si reca in Germania, in Italia, in Francia, dove metterà radici. Sono viaggi di studio. Si accosta alla storia, soprattutto medioevale, alla filosofia, alle scienze politiche.
Sulle prime si dedica al pensiero di un suo illustre conterraneo, Raimondo Lullo, poi passa a occuparsi del funzionamento dell’Inquisizione. Ciò lo spinge a condurre ricerche sui rapporti aberranti tra filosofia e teologia (ai suoi occhi spesso coincidenti) da una parte, e tra il diritto e la nozione di giustizia dall’altra. Gli è naturale imbattersi, lungo questa strada, nelle moderne codificazioni della schiavitù e della tratta dei neri, scandalosamente tollerate o appoggiate dagli Illuministi.
A tutti questi temi dedica una serie di studi. Circa l’Inquisizione pubblica, dopo la propria versione del Directorium di Eymerich con le note di Fernando Peña (Le Manuel des Inquisiteurs, Mouton, Parigi, 1974), il Repertorium Inquisitorum, un prontuario a uso del Santo Uffizio compilato nel 1494 da un anonimo domenicano di Valenza (Le Dictionnaire des Inquisiteurs, Galilée, Parigi, 1981). Scrive la prefazione alla riedizione francese di un’opera classica di H. Ch. Lea (Histoire de l’Inquisition au Moyen Age, Millon, Grenoble, 1986 e 1997) e vi inserisce in appendice la propria traduzione di un altro testo di Eymerich, il Tractatus brevis super iurisdictione inquisitorum contra infideles fidem catholicam agitantes.
Mi limiterò a citare solo i titoli e le date dei testi di Louis Sala-Molins riguardanti le sue altre sfere di interesse: La philosophie de l’amour chez Raymond Lulle (1974), La loi, de quel droit? (1977), Amérique Latine: philosophie de la conquête (1977), Sodome. Exargue à la philosophie du droit (1991), L’Afrique aux Amériques. Le Code noir espagnol (1992), Les misères des Lumières. Sous la raison l’outrage (1992) ; Le Code noir, ou le calvaire de Canaan (1998).
Sala-Molins viene chiamato a insegnare alla Sorbona, e succede nella cattedra al grande filosofo Vladimir Jankélévic, di cui era stato allievo, assistente e grande amico, e col quale si era laureato. Alcuni anni dopo passa all’università di Tolosa, per essere più vicino alla propria Catalogna natale, e anche per continuare un’antica battaglia contro la monarchia spagnola.
Mi fermo qui, ma questo è l’uomo che qualcuno, in Italia, ha cercato di derubare. Confidando in un’incomunicabilità culturale tra nazioni che, grazie al cielo, non esiste più.

Ciò che dirò ora mi imbarazza un poco. Non è naturale che un romanziere molto marginale sollevi critiche su storici di professione. Il fatto è che il mio lavoro, e il tema della mia narrativa, mi inducono a leggere tutto quanto riesco a reperire sull’Inquisizione. Non essendo un lettore imbecille, è ovvio che io mi formi un giudizio.
Bene, eccolo. In quel campo di studi sta avvenendo un fenomeno curioso e, per molti versi, inquietante. Quasi tutte le ricerche sull’Inquisizione che escono oggi oscillano tra la riabilitazione e l’apologia dichiarata del Santo Uffizio. Quasi tutte si aprono con la solenne dichiarazione che la “leggenda nera” dell’Inquisizione è definitivamente sfatata. Seguono le argomentazioni, che provo a sintetizzare: le vittime degli inquisitori furono meno numerose di quanto si è finora creduto; l’Inquisizione era molto meno crudele della coeva giustizia civile, e offriva all’imputato maggiori garanzie; i sovrani perseguitavano gli eretici o le cosiddette streghe con severità maggiore di quella dispiegata dal Santo Uffizio; i manuali procedurali restavano per lo più lettera morta; gli inquisitori erano gente dabbene, sinceramente preoccupata della conversione degli imputati; il ricorso alla tortura era occasionale, e riguardava solo adulti maschi in buone condizioni fisiche; e così via.
Elencare gli autori che sostengono queste posizioni – l’una, l’altra o tutte - sarebbe lunghissimo: Tedeschi, Monter, Benassar, Henningsen, Prosperi, Kamen, Dedieu, Cardini, ecc., fino a una serie di pamphlettisti che, in Italia o in Spagna, traducono la stessa visione in scritti divulgativi di chiara matrice cattolico-integralista (1) e, talora, persino di tono antisemita.
Alcuni autori, come Henry Kamen, parlano apertamente di “revisione storica” (2), agganciandosi alle correnti che, un po’ in tutto il mondo, muovono all’attacco della Rivoluzione francese, dell’antifascismo italiano ed europeo, della Spagna repubblicana ecc:; in poche parole, di ogni evento storico che abbia visto manifestarsi idee più o meno egualitarie. Altri, o perché più intelligenti, o perché più cauti, evitano di adottare il termine “revisionismo”, ben sapendo le insidie che nasconde. E l’insidia è una soprattutto: quella del “negazionismo”. Termine applicato a chi, per motivi squisitamente ideologici, nega, basandosi su una congerie di dettagli, che il nazismo si sia mai proposto l’eliminazione in massa degli ebrei (3).
Naturalmente mi guardo bene dall’assimilare studiosi di tutto rispetto e di assoluta serietà, come quelli che ho citato, alla melma dei Faurisson, dei Rassinier e degli Irving. Eppure l’operazione che i primi conducono presenta a volte talune pericolose analogie, che rischiano di condurre a risultati perversi. Lo si è visto in occasione della recente ricorrenza del quattrocentesimo anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno. Qualche storico di valore non ha esitato a dire che in fondo Bruno non era altro che uno stregone, bruciato per via della sua testardaggine. Se si fosse pentito, si sarebbe risparmiato una fine tanto crudele, e avrebbe risparmiato ai suoi aguzzini il dolore per la sua sorte. Argomentazione, mi sia consentito dirlo, che lascia senza fiato.
Ma procediamo con ordine. Quasi nessuno dei “revisionisti” odierni tenta di mettere mano a una storia complessiva dell’Inquisizione. La base sono ricerche locali e circoscritte sul piano temporale. Invece, il bersaglio sono due opere che hanno il carattere della generalità: la già menzionata History of the Inquisition in the Middle-Age e la History of the Inquisition of Spain di Henry-Charles Lea (non viene più presa in considerazione l’antica bestia nera, la Historia critica de la Inquisición en España di Juan Antonio Llorente, che già Lea si era incaricato di emendare). Un’obiezione ricorrente mossa a Lea è quanto meno bizzarra. Il grande storico statunitense non avrebbe condotto tutte le proprie ricerche in prima persona, ma avrebbe sguinzagliato per la Spagna e per l’Europa un manipolo di aiutanti. La bizzarria dell’accusa sta nel fatto che la maggior parte degli accademici che ho citato ha seguito lo stesso metodo, peraltro conforme alle modalità attuali della ricerca universitaria. Semmai, avrebbero dovuto riconoscere a Lea la palma della modernità.
Vediamo ora gli elementi che mi inducono a ravvicinare, sia pure con cautela, la riscrittura in corso della storia dell’Inquisizione ai risvolti più spiacevoli del “revisionismo”:
1) La conta arbitraria delle vittime. La storiografia detta “quantitativa” ha molte responsabilità in questo misfatto, se così vogliamo chiamarlo. L’Inquisizione ha avuto periodi di virulenza e altri di quiete, in cui ha quasi cessato di esistere. Basta scegliere un lasso temporale abbastanza lungo per dimostrare che i condannati furono una percentuale esigua dei processati. Fissati i primi in un 1-1,5% si potrà dire che il Santo Uffizio era portato all’indulgenza.
E’ un geniale ma palese travisamento. Cercherò di dimostrarlo. Prendiamo una pagina dell’introduzione di un’autorità nel campo, Franco Cardini, alla riedizione del Manuale dell’inquisitore di Bernard Gui (4). Il noto medievalista snocciola dati raccolti da varie ricerche, per accreditare la tesi secondo la quale la repressione dei tribunali ecclesiastici “fu meno pesante in essi che non in quelli laici”. Tra la successione delle cifre, tutte parziali e riferite a periodi circoscritti (o addirittura a organi estranei al Santo Uffizio, come la cosiddetta “Inquisizione veneziana”), ma idonee a colpire il lettore, l’ultima sembra particolarmente eloquente: “In Sicilia si tennero 2.000 processi tra il 1537 e il 1618, ma i condannati a morte furono 29” (5). Un’inezia, evidentemente.
Però – caso rarissimo – dell’Inquisizione siciliana (appendice di quella spagnola) ci sono giunti quasi integralmente i registri delle condanne riferiti al periodo che va dal 1487 al 1732 (6) . Conosciamo i nomi dei condannati, la colpa loro attribuita (si trattava nella maggior parte dei casi di neofiti, cioè di ebrei sospettati di praticare la religione di origine, malgrado la conversione forzata al cristianesimo) e i dettagli dell’esecuzione, talora in effigie, talaltra sul rogo.
Bene, è facilissimo notare che, dal 1534 in poi, le condanne capitali calano drasticamente di numero. Ma ciò non è affatto vero per gli anni precedenti. Tra il 1511 e il 1533, salvo anni isolati, le condanne sono numerosissime. Prendiamo il 1527, anno di caccia grossa, ma nemmeno il peggiore. Vengono bruciati vivi, in fastose cerimonie di piazza, Angelo da Sassari, Agatuzza Vanarco, Antonio da Alagona, Andrea Certa, Cristoforo Pellegrino, Gracia moglie di Nicolò Golisano, Pietro di Polizzi, Pace di Xurtino, Petrucchio de Amico. Si tratta di nove persone (a cui se ne dovrebbero aggiungere altre 27, condannate a morte ma bruciate in effigie perché latitanti). Se fosse valida la percentuale dell’1%, ci sarebbe da supporre che l’Inquisizione siciliana abbia celebrato, quell’anno, 900 processi. Cifra destituita di ogni credibilità.
Insomma, basta prendere a riferimento l’anno giusto per dimostrare ciò che si vuole. Ma ha un senso un’operazione contabile del genere? Le persone citate erano uomini e donne in carne e ossa, bruciati vivi, dopo una serie interminabile di umiliazioni e di tormenti, perché erano o erano stati ebrei. Però questo dato di fatto, alla storiografia “quantitativa”, sembra importare poco o nulla. L’importante è sfatare la “leggenda nera”.
2) La disomogeneità di tempo e di luogo. Questo elemento era già emerso nell’argomentazione precedente, ma qui mi riferisco a qualcosa di diverso. I “negazionisti” dell’Olocausto hanno buon gioco nel dimostrare che in questo o in quel campo di concentramento nazista non esistevano camere a gas, e nel trarne la deduzione arbitraria che le camere a gas non sono mai esistite in nessun campo. Ora, sempre senza voler fare paragoni offensivi, mi sembra che quando alcuni storici (per esempio H. Kamen e G. Henningsen) fanno leva sul fatto che l’Inquisizione spagnola non si sia data alla caccia alle streghe per trarne conclusioni di portata generale, si accostino, consapevoli o meno, alla metodologia “negazionista”. Sì, gli inquisitori spagnoli del Rinascimento trascurano le streghe, ma si dedicano agli ebrei; quelli romani non si accaniscono (troppo) sugli ebrei, e perseguitano invece i luterani e gli omosessuali; quelli dei Paesi Bassi ignorano gli omosessuali e infieriscono invece sulle streghe; e così via.
Ma il problema non è giudicare questa o quella filiale del Santo Uffizio per ciò che non ha commesso. A meno che il fine inespresso della ricerca non sia la semplice assoluzione complessiva dell’Inquisizione, e non si ritenga il gioco delle tre carte il metodo più adatto allo scopo.
3) L’assoluzione del mandante. Certo “negazionismo” (David Irving e altri) non mette troppo in discussione la realtà dell’Olocausto; si limita a negare che si trattasse di un piano di sterminio, e soprattutto che Hitler ne fosse al corrente.
E’ preoccupante l’analogia con chi, nel campo infinitamente più nobile degli studiosi dell’Inquisizione, cerca di scindere tra loro le varie realtà locali, fino a negare la responsabilità dei papi in ciò che avveniva alla periferia della Chiesa. Per esempio, presentando l’Inquisizione spagnola come un fenomeno totalmente indipendente dalla volontà dei pontefici.
Su questo non mi dilungo troppo, dato che proprio Sala-Molins, nelle pagine a dir poco brillanti che precedono il Repertorium Inquisitorum (7), ha abbondantemente dimostrato l’infondatezza della tesi. Del resto, se i contrasti tra Inquisizione spagnola e Inquisizione romana furono relativamente frequenti, nessun papa si preoccupò mai di censurare l’operato della prima. Anzi, con lettere datate 3 aprile 1487, Innocenzo VIII invitò i principi d’Europa ad assecondare la creatura di Torquemada anche entro le loro frontiere (8) . Se la prescrizione rimase in gran parte lettera morta, fu per la riluttanza dei principi, e non di quel pontefice e dei suoi successori.
Nella stessa categoria di giochi di prestigio rientra la costante contrapposizione tra giustizia ecclesiastica, moderata, e giustizia civile, incline agli eccessi e alle crudeltà. Ora, se parliamo di Santo Uffizio, non è il caso, come fanno alcuni, di citare la cosiddetta “Inquisizione veneziana” quale esempio di clemenza, visto che con la macchina allestita dai papi per la repressione della dissidenza non c’entrava nulla. Se invece parliamo di giustizia ecclesiastica, è più onesto ricordare che molto spesso, nei tribunali civili, sedevano religiosi e prelati, obbedienti alle direttive provenienti dal pontefice (9) .
Esiste una figura di cattolico realmente prossima alla santità, che si trovò a vivere un’esperienza del genere e che, per fortuna nostra e della Chiesa stessa, ce ne ha lasciato testimonianza. Si tratta del padre gesuita Friedrich Von Spee (1591-1635). Non era un inquisitore, bensì un religioso membro dei tribunali “civili” allestiti dai principi tedeschi per reprimere la stregoneria, nel corso della cosiddetta “Riconquista cattolica” della Germania. Disgustato dalle atrocità di cui fu testimone, le denunciò in un testo, la Cautio Criminalis, mirabile per lucidità e coraggio (10) . Da esso apprendiamo, intanto, che i più feroci persecutori di donne innocenti erano sì principi, ma principi-vescovi. Ecclesiastici, insomma. Ma vi apprendiamo anche che i giudizi erano ispirati ai manuali che altri ecclesiastici avevano scritto (Binsfeld, Del Rio, Institor e Sprenger, ecc.), diffusi in tutta Europa con pieno benestare del papato.
La comoda favoletta del capo (il papa o Stalin, Mussolini o Hitler) che ignora l’operato di esecutori troppo zelanti torna di continuo nella divulgazione storica più scadente. Storici consapevoli della dignità del loro lavoro dovrebbero sapervi rinunciare, anche quando il risultato sembra ledere l’ideologia o la religione che professano.
4) La comprensione per i carnefici, il disprezzo per le vittime. Leggiamo in Benassar, che peraltro è studioso di alto livello e indulge meno dei suoi colleghi al giustificazionismo, che non pochi inquisitori “potevano amare la musica, la danza, la poesia e citare Gongora. E se fra di essi vi erano dei sadici, altri erano accessibili alla pietà, capaci di generosità”(11).  Pare di capire che i sadici fossero minoranza. Del resto, tutti i recenti interventi giornalistici di Adriano Prosperi, meno prudenti della sua saggistica, tendono ad accreditare l’immagine dell’inquisitore come uomo pio e mite, sinceramente angosciato del mancato pentimento dell’indiziato che ha tra le mani.
Permettetemi qui di ricorrere alla fiction, che poi è il mio mestiere. Immaginiamoci la tortura di una di quelle donne ebree che ho citato in precedenza, per esempio Pace di Xurtino. Viene dal carcere duro (il murus arctus), è provata dalle sofferenze, parla a fatica. L’inquisitore la trova reticente e decide di sottoporla alla quaestio. Per prima cosa la fa denudare completamente, perché così, senz’altro motivo che non sia l’umiliazione della vittima, prescrive la procedura. Poi le fa legare i polsi e la fa sollevare dal suolo per mezzo di una carrucola. Le braccia iniziano a slogarsi. La donna urla, piange, si contorce. L’inquisitore ammonisce quel miserabile fagotto umano a dirgli la verità. Più passa il tempo, meno il dolore è sostenibile, le grida aumentano d’intensità. A quel punto il religioso la fa calare a terra e riportare nelle segrete. Si ricomincerà più tardi, o il giorno dopo.
Credo che nessuno psicologo (lascio perdere gli psichiatri, ormai divenuti quasi tutti dei chimici) si azzarderebbe a sostenere che un uomo potrebbe abbandonarsi ad azioni del genere se non recasse in sé una qualche patologia mentale, probabilmente schizoide. Diagnosi tanto più certa se, tra una sessione e l’altra, si abbandonasse alla danza o alla poesia.
D’altra parte, vediamo come il domenicano Bernard Gui, in un’appendice al suo manuale che non figura nell’edizione italiana, descrive l’esecuzione dell’eretico Dolcino e della sua compagna, Margherita: “Detta Margherita fu tagliata a pezzi sotto gli occhi di Dolcino; poi costui fu a sua volta tagliato a pezzi. Le ossa e le membra dei due suppliziati furono gettati tra le fiamme, assieme ad alcuni dei complici: era il meritato castigo per i loro crimini” (12). Il compiacimento è evidente. Un compiacimento che mal si accorda con la mitezza attribuita agli inquisitori dalla storiografia “revisionista”.
Di contro, abbiamo già visto il disprezzo riservato a Giordano Bruno e alla sua inspiegabile ostinazione nel difendere le proprie idee. In generale, però, le vittime dell’Inquisizione non sono tanto disprezzate, quanto oscurate nella loro personalità, mutilate della loro natura di uomini e donne in carne e ossa. Henningsen ci ha spiegato con abbondanza di dati e riferimenti come le “streghe” godessero di garanzie moderne, a partire dall’avvocato difensore, e spesso – anzi, nella maggioranza dei casi da lui studiati - se la cavassero con un po’ di carcere e qualche rara seduta di tortura (13). Così va completamente perduto il dato centrale, ben presente in Von Spee, che le streghe, intese quali adoratrici del demonio, non sono mai esistite. E’ questo il perno obbligatorio di ogni discorso. Le poverette trascinate in prigione, sottoposte a processo, tormentate in varie forme, non erano affatto “streghe”: erano donne e basta, che non avevano commesso nulla. Che poi godessero di un difensore non attenua affatto la colpa originaria dei giudici, intenti a processare crimini di fantasia esistenti solo nella mente di Martin del Rio e di frate Guaccio.
Credo che Adorno abbia scritto da qualche parte che nessuno studio storico renderà mai l’orrore indescrivibile dei campi di concentramento nazisti, non possedendo la storiografia strumenti disciplinari atti a rappresentarlo. Molto peggio avviene, a mio avviso, quando l’occultamento dell’orrore è così radicale da sembrare deliberato, oppure discende dalla fredda chirurgia della storia “quantitativa”.
5) La svalutazione delle testimonianze e delle fonti. Naturalmente, non di tutte le testimonianze e di tutte le fonti, ma solo di quelle che contrastano con la tesi “revisionista”. Le storie documentate e imponenti di Lea sono state denigrate con tale foga che ormai sembrano l’opera di un collezionista di leggende, e non del maggiore storico che gli Stati Uniti abbiano finora prodotto. Le ricerche locali non conformi vengono sistematicamente ignorate. Ma l’operazione più sottile e ardua è stato asserire e propagare l’idea che i manuali a uso degli inquisitori restassero per lo più lettera morta.
Si deve considerare che tanti registri dell’Inquisizione sono andati perduti (quando non furono volutamente distrutti), e che, per ovvi motivi, le testimonianze delle vittime raramente sono dirette, salvo un pugno di casi (14): possono essere desunte solo dai verbali dei loro giudici, dunque filtrate dall’angolo visuale di questi ultimi. Importanza primaria, per conoscere non solo le procedure, ma anche la prassi quotidiana e i presupposti teorici del Santo Uffizio, assumono quindi i manuali - il più importante dei quali è tra le mani di chi mi sta leggendo.
Ed ecco i benigni storici dell’Inquisizione asserire, con categorica certezza, che le indicazioni della manualistica non venivano quasi mai applicate, almeno nelle loro parti più truci; per cui chi ha preteso giudicare il tribunale ecclesiastico sulla base di quei testi (come Italo Mereu, in uno studio di raro vigore (15)) avrebbe preso una solenne cantonata. Se ciò fosse vero, non si capirebbe poi come mai tanti verbali di processi (tra cui quello, completo ed eloquente, a “Gostanza, la strega di San Miniato”, restituitoci da Franco Cardini in una bellissima edizione (16) ) rispecchino fedelmente le indicazioni di Eymerich e degli altri giuristi; come mai gli autori ripetano nei secoli le stesse prescrizioni, e il Malleus maleficarum copi il Directorium, questo a sua volta riprenda interi capitoli della Practica Inquisitionis di Gui, e così via; come mai Eymerich sia stato tante volte ristampato. Sterile esercizio intellettuale, nascita di un genere letterario bizzarro senza ricadute concrete? Ne dubito molto; anzi, sono convinto che la ricaduta concreta ci fosse: quei libri uccidevano.

Ci sarebbe molto altro da dire, ma mi fermo qui. Certamente uno storico ha il dovere di rivedere anche tesi consolidate, se si imbatte in elementi atti a confutarle. Se però dimostra troppo accanimento, suscita il sospetto di essere mosso da pregiudizio ideologico. Quale, nel nostro caso? Quello dell’anticomunismo, come accade in altre forme di “revisionismo”? Be’, se l’intendimento è quello di diminuire le responsabilità passate della Chiesa cattolica per presentare come più sanguinosi i crimini del cosiddetto “socialismo reale”, il terreno dell’Inquisizione è il peggiore che si potesse scegliere: Vishinskij deriva in linea diretta da Torquemada, i tribunali sovietici che spedivano i dissidenti nelle cliniche psichiatriche erano “tribunali della coscienza” (per usare la felice espressione di Adriano Prosperi) quanto quelli del Santo Uffizio. Entrambi avevano al centro la triste nozione di “rieducazione” forzata del detenuto, fino all’eliminazione fisica o pratica in caso di insuccesso.
Se poi l’obiettivo fosse quello di “riabilitare” la Chiesa cattolica da colpe del passato (non è l’intento della maggior parte degli storici che ho citato, ma di alcuni sì), mi sembra superfluo. La Chiesa cattolica odierna non è la stessa del Medioevo o del Rinascimento, e la Congregazione per la dottrina della fede del cardinale Ratzinger ha poco a che vedere con la vecchia Inquisizione. Non occorreva attendere la richiesta di perdono di Giovanni Paolo II per capire che, comunque si giudichi l’operato odierno della Chiesa di Roma, il giudizio non può fondarsi su fenomeni remoti ormai espulsi dalla vita ecclesiale. Del resto, personalità nobili come Friedrich von Spee, ma anche come Juan Antonio Llorrente, preoccupato a ogni pagina di non infangare il cattolicesimo, appartenevano alla stessa Chiesa in cui militavano i Del Rio, i Nider e i Krämer.
Ovviamente anche uno storico può avere propri, rispettabili moventi. Quello che è inaccettabile è che dalla sua opera scaturisca la banalizzazione di un crimine. Distorsione peggiore della negazione e dell’apologia, perché nega personalità a chi l’ha subito.
E’ uscita di recente una raccolta dei graffiti incisi dai prigionieri dell’Inquisizione siciliana sulle pareti delle loro celle (17). Sono frasi e disegni strazianti, che mettono angoscia. Non è lecito cercare di spegnere nuovamente quelle voci. Il Directorium di Eymerich, nell’edizione di Louis Sala-Molins, aiuterà il lettore a capire quale logica spaventosa sia stata all’origini di quelle sofferenze inaudite. E a comprendere che l’espressione “leggenda nera” è in effetti impropria. Il colore era quello, ma non si trattò affatto di una leggenda. 
(1)   In uno dei libri più demenziali dell’ultimo cinquantennio, è dato leggere che “al contrario di quanto vuol far crederci la ‘leggenda nera’, l’Inquisizione godeva dell’appoggio pieno e convinto di ogni classe sociale, a cominciare dal popolo, che vi aveva visto un riparo contro i temuti moriscos e marranos”. M. Messori, Il miracolo. Spagna, 1640: indagine sul più sconvolgente prodigio mariano, Milano, 1999 (una spietata e minuziosa demolizione del volume, a firma del chimico Luigi Garlaschelli, è nel n. 29 di “Scienza & Paranormale”, gennaio-febbraio 2000). (^)
(2)  Cfr. H. Kamen, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, Yale, 1999.(^)
(3)  Per una disamina dei caratteri essenziali del negazionismo rimando a due testi soprattutto: V. Pisanty, L’irritante que-stione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, 1998; V. Igounet, Histoire du négationnisme en France, Parigi, 2000.  (^)
(4)  B. Gui, Manuale dell’inquisitore, con commento di F. Cardini, Milano, 1998.(^)
(5)Ivi, pp. XXI-XXII.(^)
(6)Cfr. V. La Mantia, Origini e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo, 1977.(^)
(7) L. Sala-Molins, Sodome c’est Noël, in “Le Dictionnaire des Inquisiteurs”, Parigi, 1981. (^)
(8) H.C. Lea, History of the Inquisition of Spain, vol. I, New York, 1988, p. 253.(^)
(9) Cfr. G. Bechtel, Les quatre fennes de Dieu: La putain, la sorcière, la sainte & Bécassine, Parigi, 2000, pp. 159-163.(^)
(10) F. Von Spee, Cautio Criminalis, ovvero dei processi alle streghe, Roma, 1986.(^)
(11) B. Bennassar (a cura di), Storia dell’Inquisizione spagnola, Milano, 1994, p. 83.(^)
(12) B. Gui, Manuel de l’Inquisiteur, a cura di G. Mollat, vol. II, Parigi, 1964, p. 107.(^)
(13) Cfr. in particolare G. Henningsen, L’avvocato delle streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, Milano, 1990.(^)
(14) Un’antologia delle poche testimonianze tramandateci è in F. Max, Prisonniers de l’Inquisition, Parigi, 1989. Lo stesso curatore mette in guardia dall’autenticità di alcuni di questi resoconti, che spesso gli autori, ad anni di distanza dalla loro esperienza nelle mani del Santo Uffizio, tendevano a colorire un po’ troppo.(^)
(15) I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, Milano, 1988.(^)
(16) F. Cardini (a cura di), Gostanza, la strega di San Miniato, Bari, 1989).(^)
(17) G. Pitré, L. Sciascia, Urla senza suono. Graffiti e disegni dei prigionieri dell’Inquisizione, Palermo, 1999.(^)

 


Informazioni, chiarimenti, discussioni at Contact point  Giovanni.Secondulfo@inwind.it 
 
 
storia dell'inquisizione     Storia :Indice Generale


This page hosted by GeoCities