UN ANNO A FROSOLONE IN TEMPO DI GUERRA

di Giuseppe De Rita.

(Pubblicato come Prefazione al libro "Un Paese Racconta, La Scoperta di Frosolone, Comune Molisano", Edizioni Pro-Loco, Frosolone, IS, 1995.)

Ho passato a Frosolone l'anno forse piu' significativo della mia vita, certo quello che mi e' rimasto piu' vividamente impresso nella memoria.

Ci arrivai a luglio 43 per passarvi un po' di vacanze, come negli anni precedenti, insieme agli zii ed ai cugini Ruberto. Ci arrivai con un viaggio di 20 ore da Roma a Caianello ed a Cantalupo in treno, poi in corriera a Macchiagodena ed infine Frosolone. Dovevo restarci un mese, ci restai un anno: prima l'8 settembre ci sconsiglio' il ritorno a Roma, poi l'arresto del fronte di guerra a Cassino ce lo rese impossibile. Tornammo a casa, a luglio 44, con un ansimante motofurgone e con un viaggio di tre giorni, per strade inesistenti e fiumi da attraversare spingendo il furgone, dormendo la prima notte nella canonica di Venafro e la seconda in una casa diroccata ad Arce. Quando racconto la cosa ai figli li sento propensi a pensare che sto raccontando una fiaba, non un viaggio reale.

Un anno a Frosolone, in casa Giancola, quasi meta' del "mercato", in un autunno di guerra ed un inverno a ridosso del fronte, con un gelo rigido che non ho mai piu' conosciuto. E di quell'anno conservo sprazzi lucidissimi di ricordi. Ricordi drammatici, come le sventagliate di mitra della motocarrozzetta tedesca che abbandonava la postazione, uccidendo un pover'uomo per la strada e sforacchiando i vetri delle case (ho ancora negli occhi il foro netto nel vetro della mia stanza). Ricordi di paura, quando gli alleati si fermarono a qualche chilometro, nella convinzione che in paese ci fossero ancora i tedeschi e ci sottoposero a due giorni di cannoneggiamento; ho ancora nelle orecchie quei fischi lancinanti prima dell'esplosione, mentre mia madre e Donna Mariannina (la nostra padrona di casa) recitavano preghiere a velocita' supersonica. Ricordi di preoccupazioni trepidanti, come quando tutto il paese si convinse a proteggere due ufficiali inglesi fuggiaschi, nascondendoli nelle cantine di casa Scacciavillani; o come quando qualcuno dei giovani del paese ando' a far saltare il ponte della strada di sotto, alla prima curva; o come quando vedemmo entrare sui due lati del "mercato" i fanti neozelandesi a doppia fila indiana, in tuta mimetica (ed ulteriormente mimetizzata da frasche) e con i fucili a scrutare i tetti per scovare eventuali franchi tiratori. Ricordi di grandi e non usuali affetti, come quello che lego' noi tre (mia madre, mio fratello e me) ad un giovane soldato polacco un po' malinconico, che ho poi ricercato (trovandolo, purtroppo) nel grande cimitero accanto a Montecassino. Ricordi di ansioso ed incosciente stupore nel guardare le formazioni di duecento-trecento bombardieri americani che passavano compatte, "oscurando il sole", per andare a scaricare bombe su Cassino e dintorni, a poco piu' di venti chilometri in linea d'aria. Ricordi di fame nera, con sonni difficili da avviare per lo stomaco vuoto e per la spiacevole sensazione di veder cerchietti gialli nel buio della stanza.

Un anno di guerra e' inevitabilmente un anno di ricordi spiacevoli. Ma avevo 12 anni e per fortuna avevo le mie occasioni (ed ho i miei ricordi) di allegria. Le corse nella campagna ai Cappuccini ed addirittura a Sant'Anna; le lezioni private (le scuole erano chiuse) con un arciprete burbero e sempre scherzoso; la gioia di suonar le campane a San Rocco, sollevato in alto dalla fune nella risalita; l'attrazione per gli occhi di una ragazza (si chiamava Lavinia, figlia del farmacista, se non ricordo male); la gioia del pane e cioccolato dei soldati polacchi; la scoperta per la vita (lo uso ancora oggi) del sapone Lifebuoy dalla tanta schiuma rossastra e dall'odore gradevolmente forte (eravamo abituati al sapone fatto bollendo il grasso animale, rigorosamente puzzolente e senza schiuma); le corse nella neve altissima con ai piedi gli zoccoli di legno e dei calzettoni ruvidi e freddi (erano fatti di fibra di ginestra, per doveri di autarchia); le lunghe accalorate partite di tressette con i cugini; la cordialita' dignitosa delle contadine che frequentavano la casa degli zii (ricordo benissimo il profilo di un'Angelina, davvero antico e straordinario); la soddisfazione di aver sottratto un pezzo di prosciutto alla perquisizione tedesca, nascondendolo sotto il mio aquilone; la gioia della liberazione alleata ed il divertimento di veder l'attendente del generale "frullare" dalla finestra, perche' non aveva voglia di lavarli, i piatti del servizio buono della casa di fronte (" la casa di Donna Bambina", se non ricordo male) adibita a comando; la soddisfazione, meschina ma grande, di far da distributore del rancio presso il campo dei polacchi, e di poter domandare ai ragazzi frosolonesi in fila "mi cimenti piu'?", comprando con il mestolo di rancio la promessa di non essere piu' provocato o preso in giro; la grande felicita' e commozione di veder improvvisamente li', sulla "rampa" sotto casa, mio padre che arrivava da Roma in bicicletta (quattro giorni di bici, subito, il 6 giugno, due giorni dopo l'arrivo degli americani).

Di tutti i ricordi, drammatici o lieti, il paese era la scena continua, specie per noi ragazzi sempre fuori di casa; la campagna di sotto (il cimitero e Sant'Anna); o di sopra (il Calvario); la "loggia" proprio sotto I balconi degli zii; il "mercato" che mi sembrava larghissimo e sempre popolato, lo spiazzo della Selva, in cima al paese, dove si faceva la trebbiatura con I cavalli, i vicoli interni bui, stretti e sempre ghiacciati, luoghi di scivoloni incredibili; le donne con le "tine" prender l'acqua alla fontana sotto la rampa di casa; i fondaci in cui si ammazzavano i maiali, con rumori raccapriccianti, le poche botteghe artigiane (quasi tutte da coltellinaio); il piccolo ma misterioso giardino pensile di casa Vago, l'arrivo del banditore comunale con il corno ed il grido rituale "e' uscito il bando..." (unico medium di comunicazione per lunghi mesi), l'odore del fumo dei camini e della polenta con cipolle che rappresento' per lungo tempo il nostro pasto base, tutti i giorni ma una sola volta al giorno. Per me cittadino senza paese natale, Frosolone e' rimasto, per quell'anno straordinario ed inatteso, la mia unica esperienza di paese.

Non ci sono piu' tornato, dal luglio del 44. Credo di non aver voluto, tante sono state le volte che sono stato li' vicino, le volte che sono andato oltre i cartelli per le deviazioni. Non sopporterei i cambiamenti, che mi dicono molti e significativi; e per fortuna, aggiungo, visto quant'era povero il paese in quegli anni. Ma i loci della memoria e' giusto che rimangano fissi nel cuore, immutabili per come li si e' vissuti. Andrei alla ricerca di angoli, di odori, di facce, di atmosfere che non troverei; razionalmente dovrei accettare la differenza concreta dei miei ricordi, irrazionalmente preferisco tenermi i ricordi, senza prender atto del cambiamento.

Credo certo di conservare qualcosa di quell'anno oltre ai ricordi (che pure sono i piu' intensi della mia vita); conservo, forse ricordando la fame, un forte senso di austerita'; conservo, forse ricordando la fatica di quei paesani, un forte senso del dovere e di fedelta' al lavoro; conservo, forse ricordando il profilo di Angelina, una grande compartecipazione per lo sviluppo che viene dal popolo, dalla sua civilta' occulta. Se la mia personalita' e' tutta romana, c'e' in me un pezzo d'anima che e' di "gente di montagna"; la parte che e' rigorosa e fedele, quella che ha radici umane in quel paese di pietre in cui feci lo "sfollamento" bellico ed in cui non ho mai voluto tornare.
Il prossimo capitolo: L'Ultima Transumanza