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Letteratura triestina come letteratura della crisi d’identità

 

 

Afrodita  Carmen  Cionchin,

Università degli Studi di Padova

 

Nell’ambito della letteratura italiana del Novecento, la letteratura triestina si distingue per la problematica che questa zona ispira, soprattutto sul piano dell’identità e della crisi d’identità. Fulvio Tomizza viene a confermare l’idea: “Era naturale che qui [a Trieste, n. n.] si fosse creato un gruppo di scrittori intonati tra loro, la cui esperienza non era quella dei loro colleghi italiani, ma che avevano l’urgenza di affrontare ed esprimere dei problemi assillanti, come quello della loro nascita diversa o della loro origine addirittura incerta”[1]. Per spiegarsi, lo scrittore aggiunge: “Erano mezzi boemi come Slataper, mezzi ebrei come Saba o interamente ebrei come Italo Svevo, che si sentiva ugualmente partecipe del mondo italico e di quello germanico. Dovevano soprattutto registrare l’interno dissidio di chi – studiando a Vienna, ad Amburgo e a Praga – era irredentista, manifestava per la creazione dell’università italiana a Trieste e invocava l’intervento armato contro l’Austria, ma prima di partire volontario sul Carso (da dove Slataper non sarebbe più tornato), trovandosi finalmente unito ai fratelli e colleghi italiani a Firenze, avvertiva una sottile, incolmabile distanza. Saba ebbe a confessare, sul suo soggiorno tra i vociani: «Era tra loro di un’altra specie»”[2]. Interessato all’argomento, il Tomizza lo riprende mettendo in risalto altri aspetti, tra i quali il più notevole riguarda il rapporto con l’Altro, cioè la convivenza negli spazi segnati dal multi- (etnicità, lingua, cultura, confessione) e, implicitamente, dall’inter-: “Ho sempre pensato che i problemi di Trieste non sono quelli delle altre città italiane. Qui spicca il problema della convivenza, nella lontananza e nell’inappartenenza”[3]. Nello stesso tempo, lo scrittore istriano illustra in maniera concludente l’assillo intimo del fenomeno in discussione: “Si dice che conta solo come ci si dichiara, quale cultura, lingua, patria si è scelto. Ma è un’operazione mentale, che porta con sé dubbi, inquietudini, insicurezza. Si è creata un’identità voluta, di testa, la quale per rassicurarsi si accende, si esalta e si inasprisce. L’italiano delle Puglie non sente il bisogno di dimostrare continuamente di essere italiano: lo è e basta. Il triestino no”[4]. Con la sua condizione storico-geografica e culturale specifica, Trieste dimostra perfettamente un’idea espressa da Leon Wieseltier, secondo la quale “l’identità in tempi difficili non è la stessa cosa dell’identità in tempi fasti”[5].

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In tale prospettiva, “l’espressione vigorosa dell’identità di fronte all’oppressione non è un esercizio di narcisismo, ma un esercizio di eroismo. Quei tratti dell’identità che sembrano offendenti e pregiudizievoli in tempi fasti – lo schieramento e l’ossessione della solidarietà, il rinuncio allo sviluppo individuale in nome dello sviluppo collettivo, la messa sull’azione simbolica, la credenza nella crudeltà del mondo e nell’eternità della lotta – sono proprio le caratteristiche che assicurano la base sociale e psicologica della resistenza”[6]. Si troverebbe in queste parole una possibile definizione dell’irredentismo triestino. In ciò che segue cercheremo di realizzare un’incursione nella letteratura triestina del Novecento attraverso un approccio “crisologico” avente quale sopporto di ricerca l’opera letteraria. Dato che ci troviamo all’interno del fenomeno letterario, dobbiamo ammettere che possono esistere anche qui, come nella vita, delle crisi “artificiali, retoriche”, che però non sono meno pericolose, come lo dimostra Carlo Stuparich in una pagina suggestiva sull’“arcadia della drammaticità e della crisi”, un’arcadia “di nuovo stampo”, come viene considerata dallo scrittore. Riportiamo questa pagina analitica e plastica allo stesso tempo:

 

“Che dopo tante arcadie ci sia l’ora anche di un’arcadia della drammaticità e della crisi? Un arcadia di nuovo stampo.

          Venti volte al mese vi giunge la crisi, momento decisivo che modificherà totalmente la vostra esistenza, sussulti angosce. Superati i venti passi (la crisi va superata in fatti; non è una corda che ti lascia spazio di sotto) guardatevi un poco indietro: siete quegli stessi di prima.

          Perché quelle crisi sono artificiali, esterne, retoriche: dimeni per nascondere la vostra vuotezza e che non vi fanno fare neppure un centimetro di strada. Alzate la gamba sì: ma l’ostacolo è di aria.

          Perché non sapete cos’è la crisi: un parto che se felice dà una nuova creatura, infelice, uccide.

          E quelle crisi là invece danno tutt’al più una bambola di gomma.

          Ma non bisogna scherzare troppo nemmeno colle crisi artificiali: sono come falsi segnali di guerra che possono riuscire pericolosi.

A forza di gridare al lupo, il lupo viene e non certo per guidarvi in paradiso”[7].

 

Il principio della crisi sta nella nervosità oppure, nello spazio che stiamo studiando, nella famosa “nevrosi triestina”. Si tratta sostanzialmente di soggetti – persone reali e personaggi letterari – angosciati, instabili, di una fragilità estrema.

C’è poi un’altra categoria di crisi dell’identità individuale, determinata dallo statuto sociale della persona, della sua definizione quale “io collettivo”, la cui struttura si costruisce (e si disaggrega) soprattutto in relazione all’Altro o agli Altri. Una delle crisi manifestate con più intensità nella zona triestina e nell’Europa Centrale è la crisi dell’identità etnica e religiosa, dalla quale prendono lo spunto alcune forme della crisi dell’identità culturale. In una storia estremamente tesa che ha fatto fluttuare i confini, che ha fatto aggregare e disaggregare imperi, che ha fatto scomporre e ricomporre drammaticamente gli stati

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nazionali, gli abitanti dell’Europa Centrale si sono trovati tante volte nella situazione in cui la loro identità etnica e culturale fosse seriamente minacciata. Questa loro identità si è costituita in uno spazio multietnico, multilingue, multiconfessionale, multiculturale e, in tal caso, c’è da notare che l’incontro con l’alterità può essere allo stesso tempo fonte per consolidare la propria identità, ma anche causa della sua fragilità. Un simbolo di questa civiltà mitteleuropea in tutta la complessa varietà dei suoi popoli e delle sue culture è il Danubio, il vecchio fiume e allo stesso tempo il libro di Claudio Magris, che l’autore stesso considera “un libro di frontiera, un viaggio alla ricerca di superare e valicare i confini, non soltanto nazionali, bensì pure culturali, linguistici, psicologici; frontiere nella realtà esterna, ma anche all’interno di un individuo, frontiere che separano le zone recondite e oscure della personalità e che devono anch’esse venire varcate, se si vogliono conoscere e accettare pure le componenti più inquietanti e difficili dell’arcipelago che compone l’identità”[8].

Lo scrittore aggiunge: “Si tratta di un viaggio difficile, che conosce approdi felici ma anche naufragi e fallimenti; il viaggiatore danubiano talora è capace di superare la frontiera, di vincere quel timore e quel rifiuto dell’altro – premessa della violenza contro l’altro – e di incontrarlo, altre volte invece non è capace di compiere questo passo e si rinchiude in se stesso, vittima dei propri pregiudizi, delle proprie fobie e insicurezze”[9].

Altri aspetti della crisi d’identità riguardano il sentimento dell’emarginazione, della svalutazione, che attira sia forme aggressive, di fervore etnocentrico, sia, al contrario, delle reazioni difensive (dall’isolamento alla fuga – emigrazione, esilio e, quale forma radicale, il suicidio) oppure delle reazioni di bloccaggio – chiusura nella propria tradizione, in un esoterismo protettivo, generatore di miti ed utopie compensatorie. Con riferimento allo spazio triestino e alla sua letteratura, accenniamo qui alla soprammentovata questione della frontiera, alla questione del suicidio (in quanto “per molti anni Trieste tenne purtroppo il primato su tutte le altre città d’Europa nella cronaca dei suicidi”[10]), a quella che venne chiamata “letteratura dell’esilio”, nonché al “mito absburgico” quale età dell’oro perduta.

Un problema del tutto particolare concerne il tema dell’identità ebraica, che nello spazio triestino ha uno statuto sensibilmente diverso rispetto a quello presente negli altri spazi dell’Europa Centrale dove, per forza delle circostanze storiche, esso diventa un tema ossessivo di riflessione e di trasfigurazione artistica. Notevoli sono, in questo senso, gli studi di massima applicazione di Jacques Le Rider[11] e di Michael Pollak[12]. Secondo Emmanuel Lèvinas, “interrogarsi sull’identità ebraica significa averla già perduta. Ma

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significa lo stesso che le si vuole ancora bene, altrimenti si eviterebbero le domande su di essa. Tra questo già e questo ancora si viene a configurare il limite, teso come un filo irrigidito, sul quale si avventura e si espone il giudaismo degli ebrei occidentali”[13].

Si può, quindi, notare la scissione drammatica, a volte tragica, dell’intellettuale e dell’artista ebreo, tra la possibilità dell’assimilazione e l’ossessione dell’identità giudaica. La propagazione dell’antisemitismo oppure la comparsa – come forma di risposta – di movimenti ebraici specialmente nell’ambiente viennese, generano sia uno sforzo di ricostruire il senso del giudaismo (in Sigmund Freud, Theodor Herzl, Martin Buber, Richard Beer–Hofmann), sia, al contrario, “l’odio ebraico di sé stesso” (in Otto Weininger o Karl Kraus). Il fatto che essi offrono delle risposte tanto diverse alla stessa domanda è sicuramente un segno della crisi.

Tale crisi vi si manifesta anche perché nella situazione storica e culturale della modernità viennese non si può parlare che di un “ebreo immaginario”; l’identità ebraica viene formulata, per ognuno, sotto forma della finzione, di un grande racconto, dove la storia intima e l’inconscio personale hanno la stessa importanza della Storia del popolo ebreo e dei testi della tradizione religiosa. Il “vuoto” doloroso, sentito da questi intellettuali ebrei nel momento in cui constatano il fallimento della strategia d’assimilazione in conformità ai principi del liberalismo e si trovano spinti verso un’identità ebraica per loro ancora da scoprire, li determina a cercare, nei prossimi decenni, delle risposte inedite al “problema ebraico”[14].

Nello spazio triestino, tale problema conosce un risvolto sensibilmente diverso, come abbiamo già menzionato. Si tratta del cosiddetto “ruolo sovranazionale” – integratore e unificatore – dell’elemento ebraico nella Trieste cosmopolita. Alcuni dei maggiori scrittori triestini sono di origine ebraica, fatto che ha segnato in maniera inconfondibile lo spirito della loro opera e della letteratura triestina in generale. È suggestiva, a questo proposito, la seguente osservazione di Stuparich in riguardo a Saba: “Quel tanto di passività orientale che Saba ereditò dalla madre [che era ebrea] e che, in contrasto all’attivismo europeo di un grande porto di mare ottocentesco, forma la “triestinità” di Saba”[15].

È allo stesso tempo necessario precisare che il rilievo del problema dell’identità (dell’origine soprattutto) e del culto della memoria nella letteratura triestina (e mitteleuropea in generale) si deve a una sottile influenza di ciò che Clara Lévy chiamava, negli ebrei, “le culte de l’origine” e “le devoir de mémoire”[16]. La stessa autrice aveva notato a ragione che gli scrittori di origine ebraica sono degli scrittori-sociologi per eccellenza, come li potremmo ritrovare anche nella letteratura triestina.

Per quanto riguarda l’antisemitismo[17] nello spazio in discussione, Umberto Saba sottolinea con fermezza una realtà di fatto che viene subito ad argomentare. Si tratta, infatti,

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dell’uguaglianza degli ebrei con gli altri cittadini di Trieste: “Le persecuzioni (contro gli ebrei) non erano mai esistite nell’unico grande porto mercantile dell’Austria, dove la popolazione aveva un carattere già troppo meridionale perché la malattia nordica dell’antisemitismo vi potesse attecchire”[18]. In un’altra parte, il Saba riprende l’idea affermando che “non c’è mai stato in Italia – tolti gli anni dell’agonia del fascismo – il bisogno di difendersi, sul serio, da queste cose”[19]. Nell’evocazione col titolo Il ghetto di Trieste nel 1860, lo scrittore aggiunge: “Fu così che, schiuse appena le porte del Ghetto, i migliori ebrei, quelli liberi dal pregiudizio e dalla paura, seppero, con la potenza del denaro accumulato, o in virtù della praticità propria alla razza che ha forse più idealismo nel commercio e più commercio nell’idealismo, collocarsi d’un balzo nei seggi più autorevoli e lucrosi”[20].

Nella prefazione al ciclo di racconti Gli Ebrei, il Saba sostiene le seguenti: “I cinque racconti furono scritti quando l’antisemitismo pareva un gioco; ed io potevo, senza rimorso, abbandonarmi alla comprensiva ironia, venata di nascosta tenerezza, verso persone e cose (vere le une e le altre) che conobbi e vidi, o di cui, più spesso, ho sentito parlare, al tempo della mia fanciulezza. Mia madre – come si sa – era ebrea, ed ebrea era tutta la sua famiglia”[21].

In Giorgio Voghera, un altro scrittore triestino di origine ebraica, troviamo: “L’antisemitismo non era molto sentito allora a Trieste, nemmeno fra il popolo, dove qualche pregiudizio sopravviveva però qua e là”[22]. Ci sono però anche nella storia triestina dei momenti in cui l’antisemitismo comincia a prender vigore. Si tratta soprattutto della legge antiebraica del 1938, sulla quale dà testimonianza il già citato Saba, in parole piene di condanna: “Venne intanto, col suo corteggio di guai, il 1938. L’anno per sempre infausto portò con sé, fra altre assurdità, l’assurdo di un campagna razziale in Italia”[23].

La realtà ha dimostrato, anche in un periodo del genere, che le cose non sono arrivate al limite estremo. Lo scrittore confessa dalla propria biografia: “Era quello il tempo dei primi «provvedimenti razziali»; Saba, misto e non battezzato, fu da quei «provvedimenti» relegato fra i paria della società. Egli, che così profondamente, sebbene senza retorica, aveva amata e continuava ad amare l’Italia, non era più, o appena, un cittadino italiano. (In nessun caso – come si affrettò a chiarire in una pubblicazione apposita un eminente giurista – un cittadino de optimo iure.) Pensò di emigrare in Francia; di rifarsi, già vecchio, una vita a Parigi. Ma, come Marcel di Ungaretti, “non era francese”; la nostalgia della patria lo vinse, e ritornò, dopo alcuni mesi, in Italia, dove nessuno – sia detto ad onore dei suoi concittadini – gli fece del male; tutti, fascisti compresi, cercarono di aiutarlo e di consolarlo. (Si può perfino dire che Saba incominciò ad esser letto e ricercato proprio in quel periodo)”[24].

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Nella biografia di un amico del Saba, Federico Almansi, si può trovare uno stato di fatto identico: “Nessuno dei suoi amici «ariani» l’avevano abbandonato; tutti anzi gli dimostravano un’affezione perfino maggiore”[25]. Memorabile rimane anche un altro episodio delle Scorciatoie, in cui si viene a sapere “come si svolse da noi, in questa nostra povera adorata Italia, un processo “razziale”“. Si può notare lo stesso atteggiamento privo di estremismo che alla fine riceve una spiegazione in chiave simbolica: “E se il mio raccontino vuole, malgrado tutto, dimostrare qualcosa, dice che noi italiani siamo ancora – con eccezioni tanto più vergognose quanto più eccezioni – uno dei popoli migliori della terra”[26].

L’approccio “crisologico” al problema dell’identità nella letteratura triestina, come lo proponiamo nella seconda parte della presente trattazione, seguirà due delle tipologie principali dell’identità: quella individuale e quella di gruppo.

 

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Per affrontare la problematica dell’identità individuale nella letteratura triestina sono necessari alcuni accenni teorici. Un primo aspetto riguarda il ”nucleo dell’identità individuale”, rappresentato dal sistema cognitivo che sarebbe il corrispondente del sistema culturale e della mentalità al livello della società o di un gruppo.

Le attività cognitive definiscono i processi interni attraverso i quali lo psichico organizza in un insieme coerente tutte le informazioni che riceve. Si tratta di informazioni interne (sensazioni fisiche, sentimenti ed emozioni, pensieri) ed esterne (varie sensazioni e percezioni). Una parte della cognizione dell’universo viene però rapportata a sé, e tale conoscenza di sé stesso sta alla base del sentimento dell’identità personale[27]. Fonte di valutazione e di giudizio, il sistema cognitivo individuale, che nel suo funzionamento si manifesta quale nucleo dell’identità individuale, aiuta l’individuo a conoscersi, essendo così la fonte della coscienza di sé, con tutte le sue componenti: il sentimento dell’unità, dell’appartenenza, della differenza, del valore, dell’autonomia e dell’autovalutazione. Con i principi, i valori e gli orientamenti che comporta, il sistema cognitivo individuale è causa delle tensioni teleologiche che costituiscono l’essenza di tutti gli esseri e, di conseguenza, la fonte stessa del sentimento dell’esistenza. In fine, esso sostiene tutta la gamma d’espressione di ciascun soggetto umano, marcandogli quindi l’identità profonda, interiore.

In una correlazione prevedibile, l’identità interiore si sviluppa assieme all’identità sociale, la quale rappresenta l’insieme dei criteri che permettono la definizione sociale dell’individuo (o del gruppo), cioè la sua collocazione nella società. L’identità sociale è, quindi, per definizione legata all’identità attribuita dall’esterno (e si differenzia dall’identità soggettiva, autoattribuita), con la menzione che viene accettata volontariamente

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dal soggetto. Allo stesso tempo, l’identità sociale è la somma di tutte le relazioni di inclusione e di esclusione in rapporto ai vari gruppi costitutivi di una società. Alla base dell’identità sociale sta l’identità comunitaria, manifestata soprattutto quale partecipazione affettiva ad un’entità collettiva. Essa viene a fondamentare il sentimento dell’identità, attraverso i sentimenti di appartenenza, di valore e di fiducia, ed è una costante di tutte le altre identità. Gli psicologi affermano inoltre che l’identità individuale è preceduta, ontogeneticamente e storicamente, dall’identità collettiva.

Un altro accenno riguarda l’identità di facciata, proposta e manipolata da un individuo oppure da un gruppo di fronte agli altri. È destinata a farsi definire in una certa maniera più o meno lontana dall’identità reale, quindi non può essere che una parte dell’identità reale. È poi un’identità sociale, cioè destinata ai partner della vita sociale. Di conseguenza, ci si possono avere più identità di facciata, una per ciascuno dei vari gruppi di appartenenza.

Aggiungiamo l’identità differenziale, la quale rappresenta il risultato del paragone tra identità simili, culturali, sociali, gruppali o individuali. Ogni individuo ha una coscienza immediata della sua identità differenziale, in quanto la coscienza dell’identità individuale si crea in un permanente processo di rapportare all’Altro / agli Altri.

Claudio Magris colloca il discorso dell’identità triestina in un contesto più vasto, sottolineando il fatto che la Mitteleuropa evoca l’immagine di più nazionalità mischiate, uno scambio continuo di identità, un processo di arricchimento e di perdita dell’identità. La complessità di questa identità è sicuramente la più importante caratteristica dell’Europa Centrale; è una delle cause per le quali essa ha prodotto tante grandi opere che esplorano il tema universale dell’identità individuale, culturale e nazionale. La difficoltà di definirsi porta a volte alla grande letteratura[28], conclude l’autore.

Tale difficoltà del definirsi che invoca Magris è legata alla condizione geografico-storica e culturale specifica di Trieste, “la città più cosmopolita dell’Europa, all’incrocio delle lingue romanze, germaniche e slave”[29] e, di conseguenza, “una città profondamente diversa da altre città italiane”[30]. Il miscuglio delle etnie, delle nazionalità determinò la fisionomia stessa degli abitanti di questo spazio, come viene a notare Enzo Bettiza nel romanzo Il fantasma di Trieste: “Come spesso accade a Trieste, il miscuglio di stirpi troppo diverse aveva prodotto una fisionomia neutra e sfuggente: una specie di limbo, al di qua dell’espressione somatica vera e propria, dal quale, a volta a volta, in un’alternativa simultanea, velocissima, balenavano lampi misti d’astuzia e di timore, d’intelligenza e di fatuità, di sensualità e di freddezza”[31].

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Umberto Saba mostra che perfino la cucina triestina risente fortemente dell’influenza del miscuglio etnico: “La cucina triestina è – o almeno era – un compendio di tutte le razze confluite a Trieste agli esordi della città e che la donna triestina, frutto essa medesima di queste mescolanze, armonizzava e conciliava nel segreto della sua cucinetta”[32].

Nella letteratura triestina, un primo aspetto riguarda il legame tra l’identità artistica e quella etnica (italiana, triestina), un legame che si rivela molto fragile e diventa una sorta di posta conflittuale che separa e unisce allo stesso tempo. Una testimonianza a questo proposito si potrebbe trovare nello stesso Saba, in Storia e cronistoria del canzoniere: “Per lui (Saba), per la sua particolare poetica, la letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità. (E un uomo simile doveva nascere proprio in Italia, proprio nel paese dei letterati!) “Ero fra lor di un’altra specie” dice egli stesso a proposito di un cenacolo di letterati (La Voce) del quale, per ragioni contingenti, fece un tempo parte”[33].

Questo punto di vista ha una spiegazione basata su ciò che sarebbe la condizione umana e artistica dello scrittore triestino. Saba la esprime in maniera esplicita: “La situazione di un triestino che scriveva per l’Italia da Trieste (la grande maggioranza delle poesie del Canzoniere fu composta a Trieste; “laggiù”, come dicevano gli italiani) era difficile. Non tanto, nel caso di Saba, per ragioni formali (il suo senso innato della lingua e della forma italiana fu notato dal Borgese e da altri già a proposito del suo primo – sbagliatissimo – libro di versi: Poesie), quanto perché il cielo che sta sopra la sua poesia, che tutta la compenetra, quel cielo anche, ma non solo, materiale, che alcuni nostri predecessori, fra i quali il De Robertis, dissero “inconfondibile”, è proprio il cielo di Trieste, quello cioè dell’ “altra sponda”. Saba fu insomma, malgrado la sua italianità formale (maggiore in lui che nei suoi contemporanei) e la sua universalità umana, un “periferico”. E questo spiega molti equivoci”[34].

A sua volta, Italo Svevo osservava argutamente, in una lettera al Crémieux del 16 maggio 1928, di essere stato “messo” dal critico francese “nella letteratura italiana come un pezzo d’aglio nella cucina di persone che non possono soffrirlo”[35]. Scipio Slataper provava la stessa sensazione della “differenza” rispetto ai “vociani”, scrivendo in una lettera a Gigetta del 17 agosto 1911: “Io credo davvero d’aver un sangue meno raffinato dai miei amici di Firenze, d’essere più grossolano, più tagliato a scure, più barbaro”[36]. In una pagina di diario ritornava sullo stesso motivo, dove compare l’idea “vichiana” e romantica della “barbarie” creatrice, dell’energia fresca e prorompente, intesa come la condizione stessa dell’arte: “[Prezzolini] non è forte. Io sono molto più sano di lui. In generale anche ora mi sento molto giovane qui fra gli amici della “Voce”. È in me qualche brutalità fresca

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che loro non hanno”[37]. La condizione umana e artistica dello scrittore triestino rivela la presenza di un profondo e intrinseco “problematismo”, manifestato come indispensabile e vigile gusto analitico e introspettivo in grado di esprimere i tormentosi drammi di una sottile e complicata psicologia e legato alla difficile o impossibile ricerca di un equilibrio interiore, di un sicuro approdo di certezza esistenziale.

 

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La problematica profonda e marcante dell’identità individuale nella letteratura triestina ha un punto di partenza in Scipio Slataper, nei famosi quattro paragrafi con i quali apre il suo capolavoro – Il mio Carso. Essi cominciano suggestivamente con un condizionale – Vorrei dirvi (i primi tre paragrafi) e Vorrei ingannarvi (il quarto) – condizionale che, ripetuto, viene a potenziare il sentimento espresso: “Vorrei dirvi: Sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalla piove e dal fumo. C’era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghiate sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.

Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D’inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m’infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male.

Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni”[38]. Le parole di Slataper fanno pensare a Erik Erikson, uno dei più competenti teoretici dell’identità nella modernità, il quale affermava che “la formazione dell’identità comincia dove finisce l’utilità dell’identificazione multipla”[39]. In seguito, la sincerità della confessione slataperiana rivela il pensiero intimo dello scrittore, il suo tormento: “È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v’ascolto disinteressato e contento, e non m’accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell’angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà; ai veri amici miei

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che m’amano e mi riconoscono in una stretta di mano, in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni”[40].

Questa citazione potrebbe illustrare ciò che un altro teoretico dell’identità, Leon Wieseltier, sintetizzava così: “Ci consideriamo ciò che siamo, ma anche ciò che desideriamo essere. Perché l’ambiguità ci consente di vedere, in uno, l’altro, di ritenere, in modo sbagliato, ciò che vorremmo essere quale ciò che siamo”[41]. La spiegazione di tale incertezza esistenziale o, in linguaggio specialistico, delle perturbazioni della sicurezza ontologica, appare subito ed è suggestiva per la sua forza d’espressione: “Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti l’interminabile campo con lo spaccaterra tirato da quattro cavalloni pezzati, o curvi nel grembialone di cuoio davanti alle caldaie del vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala a Trieste all’epoca del portofranco; alla grande casa verdognola dove sono nato, dove vive, indurita dal dolore, la nostra nonna”[42].

Il discorso slataperiano viene ad illustrare la teoria di Paul Ricoeur dello studio intitolato Individu et identité personnelle, in conformità alla quale l’identità è un lungo processo di costruzione, con stadi successivi (individualizzazione, identificazione, imputazione), alla cui fine appare quel soggetto responsabile, un ipse, un sul quale, nelle fasi di crisi, ci sarà da interrogarsi[43]. Umberto Saba, parlando di stesso in terza persona, nella Storia e cronistoria del Canzoniere, affermava: “Il male del quale aveva sofferto la sua giovinezza era stato quello di sentirsi diverso dagli altri, irremediabilmente diverso e disperatamente solo”[44]. In un’altra parte, in prima persona, lo scrittore confessa: “Ero insomma “misto”. E – ancora peggio – periferico (triestino). Sono le circostanze che mi hanno fatto più soffrire; ma anche capire (amare) più degli uni e degli altri”[45]. Giorgio Voghera, di origine ebraica, come Saba, confessava a sua volta: “L’esperienza col Talmùd-Torà mi fece comprendere per la prima volta che non è senza importanza, e non è facile, essere ebreo”[46].

Un altro segno della crisi d’identità è l’angoscia che Carlo Stuparich descrive così: “È parecchio tempo che sento un disagio penoso nella relazione tanto con me che con gli altri, che a volte è arrivato a un’angoscia.[...] Quell’angoscia, quell’angoscia che ho detto, è opaca e monotona e all’occhio non lascia veder colori, all’orecchio non udir suoni, all’anima non respirar serenità, e in me c’è qualcosa che prega che pretende colori suoni e serenità”[47]. Quel interrogarsi al quale faceva riferimento Paul Ricoeur si presenta sotto la forma dell’“esame esistenziale”, che Carlo Stuparich chiama esame di esistenza:

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“Esame di esistenza” meglio che di coscienza, perché “coscienza” è concetto troppo puro, troppo semplicistico, che ci illude su una nostra libera potenza sempre dilatabile, ci fa esser giudici ingiusti, che insomma ci fa trascurare massimi fattori determinanti. Poi il mio esame voglio che sia un tessere non un disfare o fare liste di peccati o di meriti. Io sono un uomo piccolo, i miei fatti son piccoli fatti, ma se da essi faccio procedere un’armonia esistenziale, cresco davanti ai miei occhi e mi chiamo buon compositore di vita”[48].

Nella stessa prospettiva dell’“esame esistenziale”, Giulio Caprin, lo scrittore che trascorse la maggior parte della sua vita a Firenze, lontano dalla città natale, Trieste, confessa con emozione ed affetto, in Reviviscenze, la sua identità triestina: “Anno 1900. Rivedeva, a vent’anni, Trieste uno che non aveva più diritto di dirsi triestino. Col padre e con la madre, a otto anni era emigrato a Firenze. [...] Ma dopo appena un anno suo padre appena sui quarant’anni moriva, anche lui di tifo. [...] Ed ora, mentre compiva il ventesimo anno, anche sua madre era morta. Solo nella città, che era ormai sua, ma non c’era nessuno del suo sangue. Fu invitato a passare quei primi giorni di lutto a Trieste, dove erano quelli che potevano piangere con lui la sua morta. Estraniato dalla sua città nativa non si era mai. I ricordi dolenti di sua madre lo riportavano a Trieste”[49].

Enzo Bettiza, nato da una famiglia dalmata, rivela – nel libro autobiografico intitolato Esilio – la peculiarità della sua condizione intimamente legata alla specificità della Mitteleuropa: “Se parlo così, con una certa brutale freschezza, e perché ricordo e so per ragioni d’anagrafe molte cose che tanti europei non possono ovviamente ricordare né sapere. Il mio non è un privilegio, è soltanto una triste fatalità natia. So per forza naturale come stavano una volta le cose nella Jugoslavia monarchica, come stavano poi nella Jugoslavia titoista, e sempre per forza naturale so e intuisco come stanno, o possono stare, nella Jugoslavia disgregata di adesso. Conservo anche i ricordi di famiglia su come si viveva, si commerciava, si facevano le scuole, i matrimoni, le mobilitazioni, le guerre e io funerali ai tempi dell’Austria. Sono io stesso, per tanti aspetti intimi, formativi, radicati nei primi due decenni della mia vita, un erede disperso di quella singolare Mitteleuropa mediterranea ch’era la Dalmazia; sono, quindi, anche un figlio quasi legittimo delle molte vicende balcaniche che da sempre hanno gravato sulla Dalmazia”[50]. Nelle pagine di Bettiza compare inoltre un ritratto emblematico del mondo imperiale absburgico, il ritratto del cosiddetto “homo austriacus”, impersonato dal padre dello scrittore: “Mio padre era, per umori e consuetudini di vita, per studi universitari, per l’eleganza molto viennese dei modi e degli abiti, un’incarnazione a suo modo esemplare di quella rara creatura cosmopolita, ormai estinta, che si chiamava una volta “homo austriacus”. Ma nei territori austriaci, divenuti poi jugoslavi, le cose erano sempre un po’ più complicate di come apparivano al primo colpo d’occhio. La definizione “homo austriacus”, che poteva estendersi da Vienna a Cracovia per scendere fino a Spalato, implicava un marchio di civiltà, di costume, di elastica mentalità imperiale; non implicava però il connotato della nazionalità, che restava, in qualche modo strano e parallelo, separato più che assimilato al marchio di civiltà. Un

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cittadino dell’impero poteva agire e comportarsi in società, in maniera affatto naturale, da perfetto “homo austriacus” e contemporaneamente sentirsi sloveno, boemo, polacco, ebreo, croato o italiano”[51].

In seguito viene descritto un type identitaire specifico, quello di un “homo austriacus” italiano: “Era questo il caso di mio padre. Il suo tollerante stile di vita era austriaco, mentre i suoi misurati ma persistenti sentimenti nazionali erano italiani. La sua prima lingua, la sua lingua materna, accanto al croato e al tedesco, era il veneziano coloniale che già da diversi secoli veniva parlato dalle famiglie del patriziato mercantile in tutte le principali città della Dalmazia. Le sue letture preferite erano state in gioventù Dante, Boccaccio, curiosamente Metastasio, poi Alfieri, Leopardi, Manzoni, Carducci. Non aveva mai frequentato una scuola italiana, eppure sapeva scrivere ed esprimersi in un italiano piuttosto corretto. [...] Si trattava, come si vede, di un’italianità quasi misteriosa, periferica, forse più culturale che etnica, profondamente radicata in una famiglia i cui figli, ai tempi dell’Austria, non potevano avere alcun contatto formativo diretto con l’Italia vera e propria. La condizione storica e geografica in cui erano nati li obbligava infatti, per forza maggiore, a seguire un percorso inderogabile: prima le “reali” o il ginnasio di lingua serbocroata a Spalato, poi l’università di lingua tedesca a Graz o a Vienna. Era questo, nella Dalmazia imperiale dell’epoca, l’iter scolastico tradizionale cui dovevano assoggettarsi i giovani della borghesia spalatina, quindi anche mio padre e i suoi fratelli, nonostante i tratti culturali latini che li differenziavano dalle famiglie borghesi croate già allora in forte ascesa”[52].

In un’altra prospettiva, si potrebbe considerare che lo stesso Bettiza trasferisce le proprie interrogazioni sull’identità nel personaggio Daniele Solospin del romanzo Il fantasma di Trieste, personaggio che confessa: “In fondo, sia pure indirettamente, e con una delicatezza encomiabile perché contrastante alla scontrosa sincerità della sua natura, egli m’aveva sgombrato la strada per farmi arrivare da solo alla vera, impura, bastarda sorgente del mio sangue. Cos’ero dunque io, da dove venivo, dove affondavo le mie radici? Egli, con quel suo italiano puntuto e libresco, m’aveva press’a poco risposto così: “Tu vieni da una città carica d’uno storico fardello di fichi secchi e di carrube”. Ma ora so, con certezza, che attraverso a quella scorciatoia egli appunto voleva sospingermi cautamente al fondo di me stesso. Purtroppo, con altrettanta precisione io oggi so che è molto pericoloso avviare un ragazzo, un adolescente, a un precoce contatto con il mistero delle proprie origini, specie se queste sono aggrovigliate e oscure”[53].

Sul piano dell’identità individuale e soprattutto collettiva, la scorciatoia mette in risalto un’altra coordinata – la storia – tanto più importante quando si tratta di una città con un passato sinuoso come Trieste. “L’identità di un gruppo è radicata in una storia propria, ricomposta in modo appropriato”[54], sottolinea Alex Mucchielli. In Carolus Cergoly, l’identità viene affermata nella sua complessità legata al cosmopolitismo della città natale: “L’autore è triestino di nascita ma di spirito e d’umori cosmopoliti”[55].

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Il discorso riguardante l’identità negli autori citati viene ad illustrare, in questo spazio come in quello mitteleuropeo, una certa ascensione dell’individualismo, determinando un’espansione dello spirito soggettivo che mette in crisi tutti i punti tradizionali di riferimento, tutto un sistema di valori, relativizzandoli. Con l’osservazione che, paradossalmente, tale orientamento dell’Io su sé stesso, in un certo modo tale sua “iperinflazione”, non porta al consolidamento della propria identità, ma, al contrario, alla sua permanente interrogazione, agendo a volte perfino come fattore dissolutivo, disintegrante.

 

*

*  *

 

“Non si possono capire gli uni che attraverso gli altri” – affermava a ragione Michel Lhéritier, aggiungendo: “E per quanto si possa volere che si sostituissero e si distruggessero, la loro sorte rimane indissolubilmente legata”[56]. Per definire l’identità di gruppo sono necessarie alcune referenze basilari, rilevate da Alex Mucchielli. La prima concerne lambiente con le sue caratteristiche che rappresentano la somma delle condizioni in cui il rispettivo gruppo svolge la sua attività: delimitazione, sito, collocazione geografica, geologia, rilievo, clima, idrografia, pedologia, flora e fauna, modo di costruire, struttura del habitat, il tessuto (in senso architettonico) urbano o rurale, arredamento, vie di comunicazione e poi una delle cause delle perturbazioni dell’identità, cioè le trasformazioni visibili, talmente brutali, effettuate in un ambiente dato. Esso è, nel suo equilibrio e squilibrio, la fonte di una suite di soddisfazioni, ma anche di frustrazioni, della capacità o dell’incapacità di configurare un progetto comunitario; esso genera gli elementi di organizzazione sociale, i riti, le condotte, le mentalità e le relazioni tipiche di gruppo.

Un elemento altrettanto importante è la storia, in quanto l’identità di un gruppo trova le sue radici nella propria storia. Con la menzione che nella zona triestina e in tutta la Mitteleuropa la storia ha un’intensità specifica, molto più notevole. Qui si tratta di elementi quali: l’inserimento nella storia culturale della società inglobante, le tracce del passato conservate nell’ambiente, scritti riguardanti la storia del gruppo (documenti, archivi), tradizioni perpetuate, racconti elaborati in base alla tradizione, vicende collettive o individuali del passato, immagini consacrate degli eroi storici del gruppo; la storia dei rapporti con i gruppi vicini, dati sulle vicende più importanti.

Ad un altro livello si aggiungono lo studio della vita politica del gruppo e delle tracce che esso lasciò, la valutazione del peso della storia collettiva nell’organizzazione dell’ambiente, la struttura demografica, le attività presenti, l’organizzazione sociale e la struttura attuale del nucleo dell’identità di gruppo, l’espressione della mentalità (sentimenti collettivi, opinioni, atteggiamenti, norme e condotte provenienti dal passato). Segue il fattore demografico, che comprende tutta una serie di elementi riguardanti la ripartizione del gruppo a seconda dell’età, del sesso, del tipo di attività svolta, le categorie socioprofessionali, la parentela, la distribuzione in sottogruppi e il tipo di scolarizzazione

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della popolazione. Una grande rilevanza ce l’hanno le fluttuazioni del regime demografico, molto frequenti nella zona triestina e nell’Europa Centrale, nonché i rapporti con la società inglobante (immigrazione, emigrazione, statuto ed integrazione degli stranieri, fenomeni di endo- ed esogamia).

Un’altra categoria di referenze dell’identità di gruppo è costituita dalle attività, soprattutto economiche, con la loro ripartizione in segmenti di popolazione. Si possono quindi analizzare gli indicatori economici specifici e il grado di prosperità o di dipendenza economica, di modernità, di orientamento verso il nuovo. Ci sarebbero poi le attività religiose e quelle festivi che permettono lo studio del modo di vita, dei componenti tipici dei sottogruppi, degli eventi marcanti della vita collettiva, delle forme di “effervescenza collettiva”, della lingua e del vocabolario (con espressioni specifiche, nome e soprannomi, creazioni artistiche). Si arriva all’organizzazione sociale, soprattutto ufficiale (che riguarda la definizione degli incarichi, delle regolamentazioni e delle procedure, delle gerarchie), alla quale si aggiunge il sistema della valutazione e compenso / punizione, la rete di circolazione delle informazioni, il sistema del potere, la natura dei vari contatti interumani, il sistema dei ruoli (variazione, ambivalenza, effetti della strutturazione reciproca dei ruoli). L’analisi di tali aspetti permette lo studio dei conflitti, degli incidenti tipici, delle relazioni affinità-rigetto, delle alleanze, della rete di cooperazione e gerarchizzazione interna.

Al più alto livello della valutazione c’è la mentalità, le cui caratteristiche sono nella maggior parte deducibili dall’insieme delle informazioni anteriori. Solo un’analisi del contenuto di tutte le espressioni collettive porta a stabilire i principi costitutivi della mentalità. Essa si presenta quale sistema di codici e norme di comportamento, quale rete di modelli e contromodelli, di rappresentazioni collettive, quale sistema di opinioni e credenze, di atteggiamenti di fronte agli oggetti o agli eventi nodali e, infine, quale modalità di valutazione soggettiva delle proprie potenzialità (le immagini di sé stesso), ma anche delle potenzialità degli altri gruppi. Con tutte queste componenti si potrà elaborare l’universo mentale di un gruppo, il quale viene ad organizzare coerentemente le sue attività e a conferire un significato alla sua esistenza.

Sistema logico, referenziale e di rappresentazioni, fonte per l’interpretazione del mondo, per le modalità di espressione specifica del gruppo, la mentalità costituisce ciò che gli specialisti chiamano il “nucleo dell’identità di gruppo (oppure collettiva)”. Si deve però precisare che l’inventario presentato definisce una “realtà sociale totale” e sarebbe difficile completarlo in tutti i suoi elementi con i dati della realtà. Normalmente la vita dei gruppi viene organizzata intorno alle attività predominanti, alle problematiche essenziali, alle immagini chiave e al modus vivendi specifico, cioè attorno ad alcune delle referenze soprammentovate. Tale “specificità” di ogni gruppo, osservabile in realtà, sarà poi trasposta, quale marchio distintivo, nella cultura e nella letteratura. In ciò che segue cercheremo di analizzare il modo in cui l’identità di gruppo venne riflessa nelle opere degli scrittori triestini.

Apriamo la nostra ricerca sull’identità di gruppo con Il mio Carso di Scipio Slataper in cui, accanto al problema dell’identità individuale dell’autore, esaminato prima, compare anche il problema dell’identità collettiva dei triestini. Sul piano di un’identità tributaria al “carattere composito” della città di Trieste, lo scrittore afferma: “E anche noi

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ubbidiremo alla nostra legge. Viaggeremo incerti e nostalgici, spinti da desiderosi ricordi che non troveremo nostri in nessun posto. Di dove venimmo? Lontana è la patria e il nido disfatto. Ma commossi d’amore torneremo alla patria nostra Trieste, e di qui cominceremo”[57].

Uno degli aspetti più importanti dell’identità di gruppo nello spazio triestino, reale e letterario, è costituito dal rapporto con il mondo slavo. “Il fatto è che la storia di Trieste è stata costruita anche dalla gente di fuori, in prevalenza slava”[58]. A questo proposito, Angelo Vivante nota che nel Territorio triestino, che comprendeva anche l’Istria, si stabilirono nel XIX secolo circa seicentomila slavi[59]. Molti anni dopo, un autore triestino di lingua slovena, Alojz Rebula, scriverà che intere moltitudini si sono riversate dall’entroterra sloveno a Trieste che per cento anni si è abbeverata di sangue fresco. E cosa ne era rimasto? Soltanto i cognomi “come rottami dopo un naufragio”[60].

Scipio Slataper, nato da madre italiana e padre slavo, è lo scrittore che si avvicina per primo agli sloveni, aprendo la via della convivenza tra le nazionalità in uno spazio di massima interferenza come Trieste – crogiuolo di razze[61]: “Siamo in contatto con altre civiltà, ma gli ignavi non vogliono cercare di trasformare in vantaggio il danno di questo contatto... Ci dobbiamo difendere dagli sloveni: e se ci fortificassimo del genio e dell’entusiasmo slavi?”[62]. Memorabili sono, a questo proposito, le formulazioni di Il mio Carso: “S’ciavo, vuoi venire con me? Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra pianura, ma il mare è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone”[63]. Tale atteggiamento di apertura verso l’Altro (individuale, gruppale o culturale) viene motivato ampiamente in due paragrafi la cui prima proposizione è quasi identica e allo stesso tempo suggestiva per il messaggio che comprende: “Perché tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. Tu sei costante e parco. Sei forte e paziente. Per lunghi lunghi anni ti sputarono in viso la tua schiavitù; ma anche la tua ora è venuta. È tempo che tu sia padrone.

Perché tu sei slavo, figliolo della grande razza futura. Tu sei fratello del contadino russo che presto verrà nelle città sfinite a predicare il nuovo vangelo di Cristo; e sei fratello dell’aiduco montenegrino che liberò la patria dagli osmani; e tua è la forza che armò le galere di Venezia, e la grande, la prosperosa, la ricca Boemia è tua. Fratello di Marco Kraglievich tu sei, sloveno bifolco. Molti secoli giacque Marko nella sua tomba sul colle, e molti di noi lo credettero morto, per sempre morto. Ma la sua spada è ribalzata ora fuor

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dal mare e Marko è risorto. Trieste deve esserti la nuova Venezia. Brucia i boschi e vieni con me”[64].

Alla fine di un simile discorso si potrebbe affermare che l’identità si forma non solo in sé, ma anche, o soprattutto come risultato dell’incontro con il Diverso. Il rapportarsi all’Altro attraverso la differenziazione (cognitiva) e l’opposizione (affettiva) si dimostra, quindi, vitale nella costruzione dell’identità.

Tale rapportarsi avviene attraverso il comparativismo, nozione definita da Daniel–Henri Pageaux, secondo il quale il discorso comparativo riguarda la meditazione verso l’Altro, la dimensione dell’estraneità, il sentimento dell’alterità, cioè dell’identità, dell’individualità, nonché le relazioni di implicazione, integrazione e quelle di opposizione, di esclusione[65]. Indubbiamente, come afferma Paul Ricoeur, “la via più breve da sé a sé stesso rimane la parola dell’Altro”[66].

Aggiungiamo che il metodo comparativo, essenziale nella sociologia, si basa, secondo A. Loria, su due tipi di comparazione: analogica e antitetica[67]. La prima cerca di evidenziare e di paragonare soprattutto le somiglianze, mentre la seconda tende ad accentuare le differenze e le opposizioni, com’è successo anche nel caso di Slataper. Un altro scrittore che mette in discussione il rapporto triestini-slavi è l’istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini: “Queste poche centinaia di vecchi e di donne, reclutati nei villaggi sloveni dell’altipiano, portati qui giù coi camion e comandati a marciare ordinatamente a rilento (e a due a due, e radi, per fare più lunga la fila), dovrebbero apparire – ai nostri occhi non certo, ma forse a quelli degli anglo-americani, o soltanto nelle fotografie assunte dai propagandisti di Tito – come triestini di nazionalità slava che vogliono l’unione della città alla Iugoslavia.

La gente che formicola sbandata per le strade, al loro apparire si stringe sui marciapiedi, procede svelta come se ognuno avesse qualcosa di urgente, ed evita di guardarli. Succede ad essi lo stesso che alle formazioni slave armate: dovunque appaiano tutti si scostano, passano rapidamente via, e resta il vuoto”[68].

La visione dello scrittore rivela la percezione triestina del mondo slavo, mettendo in risalto, con fine spirito d’osservazione, le differenze tra le due etnie. Si tratta delle referenze fisiche elencate nella prima parte della presente sezione, quali elementi componenti di quella che venne definita “identità di riferimento”: le apparenze fisiche (secondo la definizione di Alex Mucchielli), di cui fanno parte i tratti morfologici e i segni distintivi, come si può trovare in Quarantotti Gambini: “Sono piccoli, in genere, questi sloveni; notevolmente più bassi di quella che è la statura media dei triestini e degli istriani.

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Osservo loro e poi i cittadini che mi passano accanto; sì, c’è una differenza di statura, oltre che somatica e di costituzione, che sorprende. Ho sempre avuto l’impressione che gli iugoslavi fossero più alti; ma quelli che avevo presenti dovevano essere quasi tutti croati o dalmati o intellettuali. Questi sloveni della campagna – e qui posso constatarlo perché ne ho, per la prima volta, alcune centinaia sotto gli occhi: uniformemente bassi e ossuti, biondicci e scabri – sembrano non cresciuti qui vicino ma di tutt’altri paesi, a paragone dei triestini che sono alti e baldi (baldi anche ora – son fatti così – nonostante le angosce di questi giorni impresse su tutti i volti).

Questa differenza risalta più ancora nelle ragazze. Le slovene, di corporatura corta e muscolosa (il fisico di tante servotte, pulitissime, oneste e formidabili lavoratrici, e delle cosiddette “donne del latte”), sono esattamente l’opposto delle triestine, dai torsi slanciati e dalle gambe lunghe”[69]. Nell’ampia descrizione che realizza, lo scrittore ricorre anche ad un’altra categoria di referenze dell’identità – quelle psicoculturali, evidenziando le espressioni culturali diverse dei triestini e degli sloveni, come risulta dal seguente brano: “Penso come sarebbe un’autentica manifestazione triestina. Si procederebbe – reggendo il tricolore – quasi di corsa, e un inno proromperebbe da tutti i petti. E le ragazze, irruenti, infuocate, sarebbero in testa.

Questi sloveni, invece, continuano sempre a sfilare con la stessa lentezza pacata, che sembra quasi triste; e non cantano.

Perché? Non hanno inni?

Rammento, per averle udite alla radio, certe loro canzoni dalla dolce e lieve malinconia, cantate un po’ in sordina, come un piano trascorrere d’acque; e cerco di penetrarli, di capirli, e mi domando con quali sentimenti sfilino così per la nostra città”[70].

Lo scrittore presenta in modo dettagliato il rapporto italiani-slavi, anche nei momenti di tensione determinati dall’invasione delle truppe di Tito a Trieste, il 1 maggio 1945: “Il più grande popolo marinaro da un lato (quello che da secoli, o da oltre un millennio, sin dall’alba della sua esistenza, ha più profondo, più imperioso, più avventuroso e più vasto il senso del mare); dall’altro il più grande popolo terrestre (quello che da secoli, da millenni, sin dalle nebbie della sua preistoria, sente cantare in sé, più radicato, più appassionato, più stupendamente esclusivo, l’amore alla terra: sino a volere ch’essa, come il mare e come il cielo, non appartenga a nessuno, sia di tutti). E uno di questi due popoli, il terrestre, viene ora spinto, da chi lo dirige, verso l’amore e il dominio dell’altro: verso il mare.

E la nostra regione sta per trovarsi, fatalmente, nel campo di questo conflitto, che assumerà in avvenire, nel gioco della politica e dell’economia, chissà quanti altri aspetti”[71]. Il commento va avanti nello stesso spirito analitico: “Prossimi a noi sono gli sloveni e i croati; nella vicenda vorticosa che tutti in Europa viviamo, e in particolare nella caduta dell’Italia, essi non sanno e non vogliono vedere altro, fanaticamente, che l’occasione (“Oggi o mai più” dicono) per jugoslavizzare la Venezia Giulia; anzi (poiché

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tanto gli uni che gli altri respirano nei più campanilistici microcosmi tradizionali) gli sloveni vedono l’occasione per slovenizzare Trieste, il Goriziano e l’Istria sino alla Dragogna, i croati quella per croatizzare l’Istria dalla Dragogna al Quarnero; e sono, naturalmente, oltre che in ostilità con noi, in torbida rivalità tra di loro.

Questo desiderio di conquista territoriale che li porta, da quelle semplici popolazioni rurali che sono, verso il più primitivo nazionalismo, è stato evidente – come l’unico autentico istinto che urgeva in essi sotto l’occasionale maschera comunista – nel tragico settembre ’43 e nel periodo successivo, quando vennero massacrati orrendamente nelle foibe troppi italiani che non erano fascisti, o erano addirittura antifascisti. Perché? Perché, appunto, coloro che si presentavano con le schiere partigiane erano dei nazionalisti slavi che combattevano l’italiano, persino il comunista italiano; e non già, come volevano far credere, dei comunisti che combattessero il nazifascismo”[72]. Interessante è anche la prospettiva della città che in quei momenti drammatici cerca la sua identità: “Riversandosi ansiosa e smarrita per le sue vie, Trieste in questo momento va cercandosi. È questa, forse, la sola impressione che può dire tutto (mentre siamo in un continuo gioco d’impressioni contraddittorie.) Trieste va cercandosi. Dov’è il suo spirito, e il suo impeto? Quando si ritroverà? E quale sarà il suo scatto? [...] Macchine tedesche, benzina tedesca ed ebbrezza slava sotto il cielo d’Italia. Ed altro va scoprendo Trieste nella sua ansia di capire e di ritrovarsi; e sono cose, sempre, che la riaffondano ancora più nell’incubo da cui cerca di uscire”[73]. In un certo modo, come scriveva Claudio Magris, una città insieme fiera e sospettosa delle sue componenti plurinazionali – come, fra le altre, la tedesca e/o austrotedesca, la greca, la serba, la croata, l’armena – e soprattutto quella slovena, una “sorta di Doppio segreto, rimosso dagli uni e enfatizzato dagli altri”[74].

I tratti analizzati hanno sempre a che fare con lo specifico mitteleuropeo, il cui elemento fondamentale è dovuto alla multietnicità, multiconfessionalità e al multiculturalismo di questo spazio che hanno generato una particolare mentalità nel rapporto con l’Altro. La coabitazione prolungata ha fatto sviluppare uno spirito conviviale, comunicativo, tollerante nei confronti del Differente ed i documenti storici e letterari attestano palesemente che la Mitteleuropa è stata ed è ancora non solo uno spazio del multi- o pluri-, ma anche dell’inter-. Quindi, un territorio del dialogo, dell’apertura verso l’Altro.

Enzo Bettiza viene anche lui a testimoniare tale atteggiamento che costituisce la giusta premessa per la mancanza delle forme estremiste nel rapporto con l’Altro, quindi per la dovuta mancanza dello spirito nazionale sciovinistico, dell’etnocentrismo e del fanatismo razzistico: “Il ripudio di tutto ciò che sa di monocultura, di etnocentrismo sciovinistico, è stato in me, oltreché costante, anche precoce e spontaneo. Fin dalla prima età della ragione io avevo istintivamente detestato qualsiasi forma e manifestazione di nevrosi nazionalistica. Avevo sempre resistito, proprio perché circondato dai loro canti sedutivi, alle varie sirene fomentatrici di odio e di fanatismo razzistico. Da solo, senza

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leggere Grillparzer, avevo intuito che c’era un nesso fatale e losco fra la nazionalità e la bestialità. La mia fluida psicologia di confine, il mio carattere attirato dall’ubiquità, il mio stesso bilinguismo, mentale nonché orale, mi avevano fin da bambino predisposto all’assorbimento naturale di influenze diverse e contrastanti. I miei sentimenti e la mia mente dovevano maturare quindi nel disgusto per ogni genere d’amputazione semplificatrice verso il prossimo e, in particolare, verso me stesso. Segnato da iniziali influssi serbi nell’infanzia, poi italiani nella pubertà, quindi croati nell’adolescenza, ai quali dovevano aggiungersi più tardi innesti germanici e russi, ho lasciato concrescere poco per volta in me multiformi radici culturali europee; non ho dato mi molto spazio alla crescita di una specifica radice nazionale”[75].

Gli elementi sopra presentati descrivono quello che venne chiamato “nucleo dell’identità collettiva”. Il sentimento dell’identità collettiva che sostiene tale nucleo è organizzato attorno alla “volontà esistenziale”. Di conseguenza, per poter manifestarsi, l’identità richiede tre elementi: il nucleo dell’identità configurato e sostenuto dal sentimento e dalla volontà. Altrettanto notevole è il fatto che l’identità viene a formarsi in un ampio processo di educazione, socializzazione ed acculturazione, quest’ultima implicando, a sua volta, processi di assimilazione, confronto e creazione di nuove identità attraverso gli scambi generati dai contati e dall’interazione dei vari gruppi etnici. In fine, la dinamica di tutti questi processi ha il ruolo di trasformare uno spazio – quello triestino – e un tempo – il Novecento – in realtà vive con delle problematiche sempre attuali che offrono condizioni ideali per lo studio dei fenomeni di interferenza culturale e di ricostruzione dell’identità, individuale e collettiva.

 

 

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[1] Fulvio Tomizza, Destino di frontiera, Marietti, Genova 1992, p. 41.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, p. 65.

[4] Ibidem, p. 30.

[5] Leon Wieseltier, Împotriva identitãþii [Contro l’identità], traduzione romena di Mircea Mihãieº, Polirom, Iaºi 1997, p. 42.

[6] Ibidem, p. 43.

[7] Carlo Stuparich, Cose e ombre di uno, Editori Treves–Treccani–Tuminelli, Milano 1933, p. 25.

[8] Claudio Magris, Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera, in Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 2001, p. 58.

[9] Ibidem.

[10] Ferruccio Fölkel, Giallo e nero era il mio impero, in Trieste provincia imperiale. Splendore e tramonto del porto degli Asburgo, Bompiani, Milano 1983, p. 93.

[11] Jacques Le Rider, Le cas Otto Weininger. Racines de l’antiféminisme et de l’antisémitisme, PUF, Parigi 1982 e Idem, Modernité viennoise et crises de l’identité, PUF, Parigi 1990.

[12] Michael Pollak, Viena 1900. O identitate rãnitã [Vienna 1900. Unidentità ferita], traduzione romena di Daciana Banciu e Camelia Fetiþa, Polirom, Iaºi 1988.

[13] Emmanuel Lévinas, Judéité et germanité, in “Pardès”, no. 5, 1987.

[14] J. Le Rider, Modernité viennoise et crises de l’identité cit., p. 11.

[15] Apud Umberto Saba, Prose, a cura di Linuccia Saba, prefazione di G. Piovene, nota critica di A. Marcovecchio, Mondadori, Milano 1964, p. 438.

[16] Clara Lévy, Ecritures de l’identité. Les écrivains juifs après la Shoah, PUF, Parigi 1998.

[17] Il termine originario è reschmud, proveniente da raschàgn “cattivo”.

[18] U. Saba, op. cit., p. 25.

[19] Ibidem, p. 319.

[20] Ibidem, p. 26.

[21] Ibidem, p. 10.

[22] Giorgio Voghera, Anni di Trieste, Editoria Goriziana, Gorizia 1989, p. 233.

[23] U. Saba, op. cit., p. 677.

[24] Ibidem, pp. 602-603.

[25] Ibidem, p. 679.

[26] Ibidem, p. 693.

[27] J.–P. Codol, Semblables et différents. Recherches sur la quête de similitude et de la différence sociale, Université de Provence, s. l. 1979, p. 25.

[28] C. Magris in Europa Centralã. Nevroze, dileme, utopii [Europa Centrale. Nevrosi, dilemmi, utopie], volume coordinato de Adriana Babeþi e Cornel Ungureanu, Polirom, Iaºi 1997, cap. Europa Centralã – identitate ºi culturã [Europa Centrale – identità e cultura], p. 329.

[29] Guy Scarpetta, Eloge du cosmopolitisme, Éditions Grasset & Fasquelle, Parigi 1981, p. 98.

[30] Eugenio Montale, Lettere (con gli scritti di Montale su Svevo), De Donato Editore – “Leonardo da Vinci”, Bari 1966, p. 133.

[31] Enzo Bettiza, Il fantasma di Trieste, Mondadori, Milano 1985, p. 132.

[32] U. Saba, op. cit., p. 815.

[33] Iddem, Storia e cronistoria del canzoniere, in Idem, Prose cit., p. 412.

[34] Ibidem, pp. 406-407.

[35] Italo Svevo, Epistolario, a cura di B. Maier, Mondadori, Milano 1966, p. 876.

[36] Scipio Slataper, Alle tre amiche – Lettere, a cura e con introduzione di G. Stuparich, Mondadori, Milano 1958, p. 358.

[37] Idem, Appunti e note di diario, a cura di G. Stuparich, Mondadori, Milano 1953, p. 221.

[38] Idem, Il mio Carso, Mondadori, Milano 1995, p. 3.

[39] Apud Leon Wieseltier, Contro l’identità cit., p. 70.

[40] S. Slataper, Il mio Carso cit., p. 4.

[41] L. Wieseltier, Contro l’identità cit., p. 29.

[42] S. Slataper, Il mio Carso cit., p. 4.

[43] Paul Ricoeur, Individu et identité personnelle, în AA. VV., Sur l’individu, PUF, Parigi 1987, p. 17.

[44] U. Saba, Storia e cronistoria del canzoniere cit., p. 525.

[45] Ibidem, p. 319.

[46] Giorgio Voghera, Alla scuola di religione, settanta anni fa, in Anni di Trieste cit., p. 233.

[47] C. Stuparich, Cose e ombre di uno, edizione postuma a cura di Giani Stuparich, La Voce, Roma 1919, p. 26.

[48] Ibidem, p. 27.

[49] Giulio Caprin, Reviviscenze, Editori Cappelli, Bologna 1957, p. 110 e p. 111.

[50] E. Bettiza, Esilio, Bompiani, Milano 1996, p. 23.

[51] Ibidem, p. 26.

[52] Ibidem, pp. 26-27.

[53] Idem, Il fantasma di Trieste cit., pp. 44-45.

[54] Alex Mucchielli, L’identité, PUF, Parigi 1986, p. 11.

[55] Carolus L. Cergoly, Il complesso dell’imperatore (Collages di fantasie e memorie di un mitteleuropeo), Mondadori, Milano 1979, p. 8.

[56] Michel Lhéritier, Le sens et la porteé de l’histoire internationale, in Histoire universelle et histoire internationale, Parigi 1938, p. 44.

[57] S. Slataper, Il mio Carso cit., p. 104.

[58] F. Tomizza, Destino di frontiera cit., p. 30.

[59] Angelo Vivante, L’irredentismo adriatico, Dedolibri, Trieste 1984, p. 56.

[60] Apud Glauco Arneri, Breve storia della città di Trieste, LINT, Trieste 1998, p. 46.

[61] La metafora del “crogiuolo” compare in Italo Svevo, Umberto Saba, Claudio Magris ecc.; i rispettivi citati sono presenti nella prima sezione della ricerca, dedicata all’immagine di Trieste nella letteratura.

[62] S. Slataper, Scritti politici, a cura di G. Stuparich, Mondadori, Milano 1954, p. 134.

[63] Idem, Il mio Carso cit., p. 31.

[64] Ibidem, pp. 31-32.

[65] Daniel–Henri Pageaux, Literatura generalã ºi comparatã [Letteratura generale e comparata], traduzione romena di Lidia Bodea, prefazione di Paul Cornea, Polirom, Iaºi 2000, p. 218.

[66] P. Ricoeur, Individu et identité personnelle, in AA. VV., Sur l’individu cit., p. 35.

[67] A. Loria, La comparazione sociologica, in “Rivista italiana di Sociologia”, 1915.

[68] Pier Antonio Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste e altri scritti, Mondadori, Milano 1967, p. 124.

[69] Ibidem, pp. 124-125.

[70] Ibidem, p. 126.

[71] Ibidem, p. 52.

[72] Ibidem, p. 53.

[73] Ibidem, p. 126.

[74] C. Magris, Dall’altra parte cit., p. 54.

[75] E. Bettiza, Esilio cit., p. 256.