Piero Melograni
Un fine «immateriale». L'essenza della nuova Europa
"Percorsi di politica, cultura, economia"
novembre 2000, pp. 27-28

L'UE, Unione Europea, dovrebbe servire a far vivere meglio gli europei. Da che mondo è mondo, del resto, ogni istituzione politica dovrebbe avere come fine il miglioramento della vita dei cittadini da essa amministrati. E tale miglioramento dovrebbe essere non soltanto "materiale", ma pure spirituale e culturale. Senza il fine immateriale, tra l'altro, è abbastanza difficile che anche il fine materiale possa essere garantito stabilmente.

Abbiamo qualche dubbio circa il fatto che l'UE stia perseguendo questi scopi nel migliore dei modi. Possiamo essere lieti di molti risultati raggiunti dall'UE, ma non di tutti. A volte il quartiere generale dell'UE ci appare come un inefficiente termitaio burocratico. E quindi non sappiamo se esso, nell'immediato futuro o anche in un futuro più lontano, sarà in grado di guidare i popoli europei nella tempestosa civiltà informatica e globale che si sta faticosamente configurando. Il fatto è che non soltanto la cultura dell'UE, ma la cultura di quasi tutti gli europei sembra soffrire di arcaicità e di inadeguatezze nei confronti dei tempi nuovi.

Molto spesso gli europei identificano le novità del mondo con gli Stati Uniti d'America e avvertono una rivalità nei loro confronti. Si sentono orgogliosi della loro specificità europea, la quale li spinge verso forme più o meno palesi di anti-americanismo. Ma essi dimenticano che la rivoluzione dei tempi nuovi è nata proprio in Europa, nell'Inghilterra del XVIII secolo, con la rivoluzione industriale. Dimenticano poi che i così spesso esecrati Stati Uniti d'America sono sostanzialmente figli dell'Europa. Né si rendono conto che la globalizzazione attuale è come il frutto proibito della conoscenza ospitato nell'Eden: una volta mangiatolo non se ne può più fare a meno.

Se gli europei non vogliono vedere nell'America un modello da ricalcare e se vogliono adottare un loro modello nuovo, forte e competitivo devono studiare le ragioni che hanno portato gli americani verso traguardi sempre più avanzati. E non dovrebbero temere di imitare almeno in parte gli americani. Ricordiamo a tutti che l'Europa è in declino dal 1914, dal punto di vista militare, politico, economico e perfino culturale. Le università e i centri di ricerca statunitensi sono dotati di enormi mezzi e di un prestigio complessivamente superiore a quello delle università e dei centri di ricerca europei. I premi Nobel per le scienze sono per lo più assegnati a studiosi americani oppure a studiosi europei ed asiatici traferitisi in America. Perfino le arti trovano oltre Atlantico una vitalità che in Europa non è altrettanto marcata. Il cinema, arte fondamentale del XX secolo, ha avuto e ha tuttora in America uno sviluppo che l'Europa può soltanto sognare.

Nel 1914, coi loro imperi, colonie e Commonwealth, gli europei dominavano più dell'80 per cento delle terre emerse, mentre oggi dominano ben poco fuori dal loro continente. Dal 1914 essi non hanno fatto che combattersi, con due grandi guerre prima europee e poi mondiali e con una lunga guerra fredda. Ogni volta sarebbero stati incapaci di risolvere questi conflitti senza il soccorso decisivo delle armi e dell'apparato economico statunitense. Lo ripetiamo: se gli europei vogliono essere forti e garanti della loro specificità, devono scoprire il segreto che ha consentito ad altri di essere, in questo secolo e in questo momento, tanto più forti di loro.

Viceversa l'UE sembra non capirlo. Sta arrancando e le tristi vicende della moneta unica europea possono essere considerate esemplari. L'euro era nato con ambizioni sfrenate rispetto al dollaro, ma non ha fatto altro che declinare, proprio come declina l'Europa. La principale spiegazione deve essere trovata nel fatto che in tutto il mondo, Europa compresa, gli investitori non hanno sufficiente fiducia nell'economia dell'UE e preferiscono trasferire i loro capitali altrove. Molti si consolano affermando che si manifestano i primi segni di un cambiamento, che il declino dell'euro favorisce le esportazioni e che la crisi deve essere considerata del tutto temporanea. Speriamo che abbiano ragione, ma ci restano consistenti dubbi. In ogni caso è alla invecchiata cultura degli europei che dobbiamo prestare attenzione.

Prendiamo come esempio le vicende che si collegano alla Carta dei diritti fondamentali dell'UE recentemente approvata dal vertice informale di Biarritz. Questa Carta dovrebbe essere solennemente proclamata prima della fine del 2000 sia dal Parlamento europeo, sia dalla Commissione presieduta dall'on. Prodi, sia dal vertice di Nizza che avrà luogo ai primi di dicembre. Ebbene, a causa di questa Carta sono sorte molte polemiche, che stanno a testimoniare quanto sia grande la confusione delle idee, tra gli italiani, in tema di Europa.

Questa Carta, in fin dei conti, non fa che raccogliere diritti già riconosciuti dall'Unione europea o derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Eppure vari ambienti politici italiani ne sono rimasti sconcertati o la hanno addirittura avversata. Le ragioni sono state due. Innanzi tutto l'ignoranza delle vicende relative all'UE. Il dibattito politico italiano è quasi interamente concentrato sulle faccende nazionali, sulle beghe tra i partiti e i partitini, sul teatrino romano. Non si possiedono né si cercano le informazioni atte a formare in tempo una opinione valida su quanto viene elaborato nella UE. Molto spesso si agisce, o meglio si reagisce, in base alla fretta e alla approssimazione.

La seconda ragione per la quale la Carta è stata criticata o addirittura avversata discende dall'idea che essa non protegga adeguatamente lo Stato sociale o i principi religiosi. C'è chi ha perfino creduto di vedere nella Carta l'espressione di una "banda di comunisti e banchieri giacobini", locuzione usata da Umberto Bossi nella "Padania" dell'11 ottobre 2000. Dato che la Carta è stata approvata prima a Bruxelles e poi a Biarritz dai rappresentanti di tutti e 15 i governi degli Stati facenti parte dell'UE, vogliamo forse pensare che si tratta di inetti incapaci di scorgere una realtà così nefasta? O vogliamo concludere che è proprio tale "banda di comunisti e banchieri giacobini" a dirigere l'UE? Tanto varrebbe affermare che all'Italia conviene uscire dall'UE, ma argomentando questa convenienza un po' meno rozzamente.

Da molti mesi il cosiddetto "popolo di Seattle", che di recente ha manifestato contro il processo di modernizzazione nelle strade della città americana di Seattle come in quelle europee di Praga, si appresta a scendere di nuovo nelle strade di Nizza per esprimere le sue angosce. E la Lega ha annunciato di volersi unire ai contestatori. È del tutto comprensibile che la modernizzazione susciti disagio, ansie e contestazioni. E tuttavia, se gli europei vorranno superare la loro crisi, rafforzare la loro economia e garantire le loro specificità, non potranno farlo che accettando le leggi del mondo nuovo. Ostinandosi in modo preconcetto ad avversarle, proseguirebbero nel loro declino, fino all'inesorabile sconfitta. A ben pensarci, la protesta storicamente più legittima, a Nizza, dovrebbe essere quella dei modernizzatori, desiderosi di avere una Carta più innovativa e desiderosi altresì di spingere l'Europa verso la competizione globale. Non certo la protesta dei movimenti anti-moderni, illusi di poter bloccare una "mondializzazione" tanto più potente di loro.