Piero Melograni
Globo Globale. Economia e mondializzazione
"Etruria oggi"
maggio 1997 pp. 2-6

Quali saranno gli effetti della globalizzazione economica sui destini del mondo? Nessuno può rispondere con precisione a questa domanda, perché Il futuro è inconoscibile e quasi sempre diverso dalle previsioni. Tuttavia dovremmo essere indotti a credere che la globalizzazione possa essere in grado di assicurare al mondo un più alto grado di libertà e di democrazia, come tenteremo di spiegare in queste pagine.

1. - La prima ragione per crederlo ci è fornita dalla storia. Lo sviluppo delle tecnologie, dopo la rivoluzione industriale, si è infatti accompagnato a una crescita della democrazia.
Molti non saranno d' accordo con questa affermazione e ci faranno notare che durante il secolo XX, nell' Europa economicamente sviluppata, si sono affermati tre grandi movimenti totalitari, come il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo. Russia, Italia e Germania avevano già avviato e anzi concluso la fase del "decollo" industriale. Tutto questo è vero, ma è altresì vero che i tre totaltarismi si sono affermati proprio come reazioni alla modernità incipiente e come espressioni di profonde paure nei confronti delle libertà connesse alle trasformazioni economiche, sociali e politiche della rivoluzione industriale.
Il regime mussoliniano era antimoderno e ruralista. "La popolazione del Regno -affermò Benito Mussolini il 21 dicembre 19338- dovrà continuare a vivere per il cinquanta per cento, non meno, sulla terra. [...] La potenza di un popolo dipende dalla sua massa numerica e dalla sua fedeltà alla terra." Il regime nazionalsocialista era anch' esso ruralista. Adolf Hitler, nella sua autobiografia, scrisse che il mondo industriale aveva impoverito le masse. La rivoluzione bolscevica costituì anch' essa una forma di reazione alle trasformazioni che stavano già sconvolgendo la società già sotto il regime degli zar. Non è affatto vero che, sotto il regime zarista, la Russia fosse in stagnazione. Tutt'altro. Il regime mussoliniano e quello nazionalsocialista sono stati sconfitti da una coalizione militare che, niente affatto per caso, vedeva alla sua guida gli Stati Uniti d' America, vale a dire la potenza capitalistica economicamente più progredita dell' intero mondo. Il comunismo europeo è crollato in conseguenza della globalizzazione e, ancora una volta, a causa di una contrapposizione con l' America capitalistica e sviluppata. L' Unione Sovietica, nel 1989, possedeva un apparato produttivo consistente soltanto nel settore degli armamenti. Aveva conservato una percentuale singolarmente alta di addetti all' agricoltura e, più in generale, tutta la sua economia manteneva caratteri di arretratezza. La burocrazia comunista aveva tentato di imbrigliare la modernizzazione capitalistica attraverso la proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Ma si sarebbe rivelata incapace di tener testa alla concorrenza internazionale, al flusso di informazioni provenienti da oltre confine e agli armamenti dei paesi capitalistici. La modernità ha sconfitto il comunismo, dopo aver già sconfitto il fascismo e il nazionalsocialismo.
Sembra sintomatico il fatto che le dittature persistano oggi soltanto nelle regioni in via di sviluppo, rimaste legate alla antica civiltà agricola e che le democrazie si affermino invece nelle regioni sviluppate. Tra sviluppo capitalistico e democrazia esiste dunque un nesso inscindibile. Sembra che l' uno non possa sopravvivere senza l' altra.

2. - Le civiltà agricole avevano e hanno difficoltà a garantire l' espandersi della democrazia per numerose ragioni, quali l' insufficiente benessere (anche alimentare) delle popolazioni, il basso livello di istruzione, la carenza di informazioni, l' insufficiente protezione assicurata dal diritto.
Qualcuno obietterà che le civiltà agricole erano civiltà elitarie e che pertanto -per giudicarle- non si deve tener conto delle condizioni delle masse, quanto delle condizioni privilegiate delle élites. L' obiezione possiede un suo fondamento, ma va osservato che fra le stesse élites si manifestavano caratteri di violenza, ignoranza, dispotismo e incuranza delle leggi, che oggi sembrerebbero intollerabili. Ci furono isole di democrazia anche all' interno della civiltà agricola, ma queste isole restarono pur sempre racchiuse nel grande mare di una società selvaggia o semi-selvaggia, e ne subirono l' influsso più di quanto oggi non si immagini.

3. - Nelle civiltà agricole, le calorie a disposizione degli abitanti erano nettamente inferiori a quelle disponibili nelle civiltà tecnologiche e una percentuale elevatissima della popolazione conviveva con l' assillante problema di "sfamarsi". Per sfamarsi, fino a pochi decenni or sono, questa umanità doveva zappare, scavare con le vanghe, trasportare pesi sulle spalle, mietere coi falcetti e trebbiare coi bastoni.
La condizione della stragrande maggioranza degli individui finiva per rassomigliare a quella degli animali. In quasi tutte le abitazioni mancava l' illuminazione artificiale. Mancavano i vetri alle finestre. L' acqua doveva essere trasportata manualmente e spesso era inquinata. Mancavano le calzature. Mancava il mobilio e pochi possiedevano un vero letto. La promiscuità con gli animali costituiva spesso la regola. Una società oppressa dalle più elementari esigenze dell' esistenza incontrava qualche difficoltà a coltivare in se stessa la democrazia liberale.

4. - Ben pochi andavano a scuola. Nel 1861, in Italia, il 75% degli individui di età superiore ai sei anni non sapeva né leggere né scrivere. Percentuali simili sono tuttora misurabili negli Stati agricoli. Senza una alfabetizzazione di massa anche la democrazia di massa non può affermarsi. Non c' è democrazia senza giornali, senza libri, senza manifesti, senza informazione. In epoca preindustriale, l' informazione era limitata anche fra le élites.
Nell' attuale mondo tecnologico molti intellettuali avversano la televisione, i personal computer, Internet o i telefoni cellulari. Tutti questi strumenti, però, facilitano il passaggio delle informazioni, rendono impossibile la censura politica e favoriscono grandemente la democrazia. Durante la seconda guerra mondiale, a causa del sempre più diffuso ascolto di "Radio Londra" da parte degli italiani, il regime mussoliniano non poté più controllare il flusso delle informazioni relative alle vicende militari e crollò come un castello di carte. Alla fine degli anni Ottanta, il regime comunista dell' Unione Sovietica non fu più in grado di censurare le notizie e finì in pezzi. Il grande sviluppo dell' informatica dovrebbe garantire, in futuro, un flusso di notizie ancora più grande, che nessun potente riuscirà più a controllare.
Nel mondo di ieri non erano in molti a conoscere i volti, i caratteri, i discorsi, le simpatie e le antipatie dei capi Oggi, con la politica/spettacolo, i dirigenti politici sono costretti a recitare su un palcoscenico, alla vista di tutti. Ogni cittadino può guardarli in faccia, a distanza ravvicinata, sul teleschermo di casa. E può criticarli apertamente e in modi niente affatto passivi.

5. - La crescita delle informazioni, degli scambi commerciali e del turismo hanno reso le persone molto più consapevoli delle "diversità" e molto meno intolleranti verso queste diversità. Nel mondo agricolo, viceversa, gli scambi erano modesti, al punto da far sì che molte famiglie contadine sopravvivessero praticando l' autoconsumo. Anche per le élites, molto a lungo, gli scambi riguardarono soprattutto alcuni generi di lusso e i viaggi restarono un evento eccezionale. Fino al XIX secolo non esistevano ferrovie. Le strade erano in pessime condizioni. Le navi erano di legno, mosse dalle vele o dai remi, sottoposte alle incertezze dei venti e delle tempeste.
Il sempre più facilitato e frenetico movimento di cose, persone e informazioni dell' epoca presente potrà suscitare sconcerto e inquietudini, ma merita di essere apprezzato per il contributo recato alla interdipendenza degli Stati, alla reciproca conoscenza fra i popoli e al loro maggiore affratellamento.

6. - Tutto ciò ha influito anche sulla pace e sulla guerra. Nel mondo tecnologicamente sviluppato, infatti, le guerre non sono scomparse, ma è pressoché scomparso fra i giovani lo spirito guerriero. Gli obiettori di coscienza sono numericamente in crescita. E pochi, fra i non obiettori, coltivano il desiderio di immolarsi per la patria. Le guerre scoppiano soprattutto fra i popoli rimasti legati alla civiltà contadina, o a causa loro. Gli Stati che appartengono alla sfera del moderno capitalismo tecnologico, e che magari possiedono l' arma atomica, non si sono più combattuti direttamente in una guerra, non soltanto a causa del deterrente nucleare, ma anche perché la guerra sta davvero uscendo dal loro patrimonio culturale. Continuano ad armarsi, ma si sforzano di far sì che il compito di combattere, una volta riservato agli uomini, sia assolto quasi esclusivamente dalle macchine. Il terzo grande conflitto mondiale, la "guerra fredda", si è svolto e risolto in forme nuove, contenendo al massimo gli spargimenti di sangue.

7. - Il mondo tecnologicamente sviluppato è anche un mondo in cui la protezione esercitata dalle leggi si è grandemente estesa. Nella civiltà agricola esistevano i servi e gli schiavi. La servitù della gleba scomparve in Germania soltanto nella prima metà del XIX secolo. Fu abrogata in Russia soltanto nel 1861. Negli Stati Uniti d' America l'abolizione della schiavitù provocò nel 1861 la guerra di secessione.
Nel mondo preindustriale le donne e gli infanti di entrambi i sessi erano assoggettati ai voleri del paterfamilias restando pressoché privi di diritti. Nella Francia del XIX secolo, le mogli -senza il consenso dei mariti- non potevano donare, ipotecare, vendere, acquistare e neppure agire in giudizio per difendersi. I figli, maschi inclusi, non potevano abbandonare la casa paterna e neppure intraprendere un viaggio, tranne che per servizio militare. I genitori avevano il diritto di ricorrere alla forza pubblica per riacciuffarli.
In ogni luogo la grande massa della popolazione era costituita da contadini analfabeti, poveri, esposti alle carestie, del tutto incapaci di esercitare un qualunque diritto, soprattutto nei riguardi dei signori.

8. - Un'altra ragione che ci induce ad avere speranze circa le conseguenze politiche, sociali ed etiche dello sviluppo tecnologico ci è offerta dal fatto che, da sempre, questo sviluppo è stato accompagnato da giudizi pessimistici privi di fondamento, o da predizioni catastrofiche mai avveratesi. Potrebbe essere istruttivo comporre un'antologia delle sciocchezze che sono state dette e credute, negli ultimi due secoli, a proposito della rivoluzione industriale e dei suoi sviluppi.
Una delle principali sciocchezze ha riguardato "l'impoverimento crescente delle masse". Sostennero questa tesi Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del Partito Comunista pubblicato nel 1848. Nel 1919 Antonio Gramsci si ostinava a ripetere che le condizioni del salariato stavano diventando "peggiori di quelle dello schiavo e del servo della gleba", senza accorgersi che i salari reali degli operai italiani erano quasi raddoppiati rispetto a quarant' anni prima. Ancora oggi, del resto, i manuali di storia diffusi nelle scuole italiane non fanno che avvalorare questa visione distorta dello sviluppo economico. Nelle loro pagine si parla sempre dei periodi di crisi e ci si dimentica di far osservare che, nonostante le crisi, i salari e i consumi crescevano a dismisura.
Quando sorsero le prime linee ferroviarie, molti ne ebbero paura e ne previdero una rapida fine. Le locomotive a vapore furono paragonate a invenzioni diaboliche. E vi furono medici i quali tentarono di dimostrare che l' organismo umano, muovendosi sul treno a una velocità superiore ai trenta chilometri orari, avrebbe subito danni irreparabili. Alcuni anni fa un gruppo di eminenti studiosi, meglio noti come Club di Roma, pubblicò un libro di successo, intitolato I limiti dello sviluppo, per dimostrare che le materie prime stavano esaurendosi e che la civiltà tecnologica sarebbe entrata in una crisi mortale entro brevissimo tempo.
Non vi son dubbi sul fatto che l' attuale civiltà tecnologica, come tutte le civiltà, contenga al suo interno molti inconvenienti, molti pericoli e perfino l' annuncio della sua stessa fine. Tuttavia, arrivando essa dopo diecimila anni di civiltà agricola, siamo indotti a pensare che si trovi soltanto ai suoi inizi. Ci è di conforto, per di più, il constatare come la schiera dei suoi detrattori, in Italia e in Europa, anziché rimpinguarsi si sia assottigliata, se non altro grazie alla sconfitta di quei totalitarismi ai quali prima accennavamo.

9. - La debolezza delle argomentazioni a cui ricorrono molti critici del mondo nuovo dovrebbe continuare a rassicurarci sulle sorti di esso. Pensiamo per esempio a un testo che di recente ha riscosso grande successo, quello di Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Il declino della forza lavoro globale e l' avvento dell' era post-mercato (edito da Baldini & Castoldi nel 1995).
Rifkin sostiene che i computer stanno causando una disoccupazione generale, una depressione globale, una gigantesca guerra di classi, una nuova barbarie. Il ruolo dell' uomo rischia di scomparire per sempre, oltre che dall' agricoltura, come già accaduto, anche dalle industrie e dai servizi. Gli unici rimedi potrebbero essere trovati, secondo Rifkin, in una riduzione drastica dell' orario di lavoro e in un gigantesco sviluppo del volontariato.
Potremmo obiettare che nel mondo tecnologico tutto, o quasi tutto, costa sempre meno, tranne il lavoro umano, ed è quindi naturale che si cerchi di sostituire il lavoro umano con le macchine. Ma ciò accade da almeno due secoli, dall' inizio della rivoluzione industriale e cionondimeno il numero dei lavoratori, anziché diminuire, è sempre aumentato. Negli Stati Uniti, dopo l' uscita del libro di Rifkin, il tasso di occupazione è cresciuto e anche di molto.
Le difficoltà che il mondo del lavoro incontra in Occidente, in secondo luogo, si stanno manifestando anche a causa della concorrenza esercitata dalla manodopera a buon mercato dei Paesi in via di sviluppo. Ma proprio grazie a questa concorrenza alcuni flussi di ricchezza stanno soccorrendo, trasformando e modernizzando il Terzo mondo. E non era proprio questo l' obiettivo verso il quale tanti "umanitari" occidentali miravano? Molto meglio che l' obiettivo sia raggiunto attraverso il lavoro, anziché attraverso caritatevoli e spesso inutili "aiuti" paternalisticamente elargiti.
C' è poi da dubitare che una riduzione generalizzata degli orari di lavoro, come quella proposta da Rifkin, possa rappresentare la soluzione ai problemi. Lo ha fatto notare uno studioso italiano, Pietro Ichino, in un libro ricco di intelligenti osservazioni (Il lavoro e il mercato, Mondadori, 1996). Numerose imprese, ha scritto Ichino, già tentano di incrementare la produttività comprimendo gli organici, vale a dire comportandosi in modo opposto a quello indicato dallo slogan "lavorare meno per lavorare tutti". Se la riduzione degli orari fosse loro imposta, queste imprese ne approfitterebbero per aumentare per accelerare il processo già in atto e senza moltiplicare i posti. Nel contempo anche i lavoratori dipendenti più forti sul mercato approfitterebbero della riduzione di orario per incrementare il lavoro autonomo.
Nelle pagine di Ichino, viene detto che il sindacato avrebbe tutto da guadagnare se accettasse le regole della globalizzazione. Difenderebbe molto meglio i lavoratori se fosse meno diffidente nei confronti del mercato, se si muovesse con una duttilità più consona alle esigenze della modernità, se accettasse con minori esitazioni il lavoro in affitto, il part-time, la flessibilità. Ichino, si badi, è stato coordinatore dei servizi legali della Camera del Lavoro di Milano e deputato del Pci. Del resto, anche nel recente convegno dell' Ulivo, tenuto a Gargonza in marzo, il segretario del Pds, Massimo D'Alema, ha voluto affermare che il mondo nuovo sta aprendo "un nuovo rapporto tra lavoro e libertà individuale" ("Corriere della sera", 12 marzo 1997).

10. - E' molto probabile che i più gravi problemi del futuro continueranno a dipendere dalla crescita della libertà. Ce lo conferma anche un recente articolo di George Soros, il famoso finanziere di origine ungherese, pubblicato poche settimane fa dal "The Atlantic Monthly", e ripubblicato in Italia dalla rivista "Reset" (febbraio 1997) con il titolo di La società aperta rivisitata.
George Soros pensa che l'eccesso di libertà stia conducendo il mondo verso un eccesso di instabilità, verso l'anarchia e quindi, come reazione, verso un nuovo totalitarismo. Soros ritiene che la democrazia sia minacciata da un individualismo esasperato, dalla troppa competizione, dalla troppo scarsa cooperazione, dalle incontrollabili migrazioni dei popoli. La guerra fredda contribuiva alla stabilità del mondo. E invece ora non c' è più un ordine mondiale. L'ONU è completamente screditata come istituzione capace di mantenere la pace. L'ideologia del laissez-faire, aggiunge Soros, non se ne rende conto e anzi contribuisce a peggiorare la situazione, inducendo tutti a lottare per la sopravvivenza in forme spietate.
Questo quadro è forse troppo oscuro. Tuttavia in esso troviamo una riprova della tesi dalla quale samo partiti circa il fatto che la rivoluzione tecnologica, lungi dall' imprigionare il mondo, lo ha -almeno finora- liberato da molte catene. Fino al punto da preparare un terreno di coltura per altri totalitarismi? In passato e in più luoghi accadde proprio questo. E i totalitarismi ebbero carattere locale, nazionale, nazionalistico. Le nuove tendenze totalitarie, per affermarsi, dovrebbe invece assumere una dimensione globale.
In ogni caso tale è la sfida lanciata dal mondo tecnologico ai difensori della libertà e della democrazia: appunto quella di trovare un equilibrio tra la libertà e l' ordine, per scongiurare nuove schiavitù. E soprattutto per garantire allo sviluppo economico e sociale di continuare a espandersi con i ritmi che fino a ora gli sono stati garantiti dalle società democratiche.