Piero Melograni
Una sconfitta dimenticata
"Il Sole 24 ore"
24 aprile 2005, p. 30

É difficile rivivere le stesse emozioni a distanza di sessant'anni. Il 1^ maggio 1945, Festa del lavoro, ero a Roma in mezzo alla grande folla che assisteva al comizio di Piazza del Popolo. Parlarono Di Vittorio e altri grandi leader sindacali. Dopo il comizio, in via del Corso, passammo cantando e con le bandiere al vento, davanti alle edicole che mettevano in mostra <Stars and Stripes>, il giornale dei militari Usa con la prima fotografia di Benito Mussolini fucilato. Il giornale americano era stato il primo ad averla battendo sul tempo tutti i quotidiani italiani.

L'epoca mussoliniana era dunque finita per sempre e se ne apriva una nuova. L'Italia si era finalmente liberata dai tedeschi e dai fascisti e ci sentivamo sicuri che non avremmo mai e poi mai commesso gli errori attribuiti alla generazione dei nostri genitori. Tutti i giovani ne sono periodicamente convinti illudendosi di essere perfetti.

Pochi giorni più tardi, in un comizio svoltosi in Piazza Santi Apostoli, salutammo con entusiasmo i capi del Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia), artefici della grande insurrezione popolare. L'8 maggio la Germania si arrendeva agli Alleati e in Europa non c'era più guerra. Quel pomeriggio andai al cinema per festeggiare la pace. All'uscita, in via Condotti, vidi arrivare un corteo con le bandiere rosse, guidato da due o tre sacerdoti in abito talare, alla testa di un centinaio di feriti in divisa, usciti da un ospedale militare, alcuni con le fasciature intrise di sangue, altri che si reggevano a stento sulle stampelle. Camminavano tutti nel silenzio più assoluto. Nessun canto, nessun evviva. Quel corteo mi riportò alla realtà, facendomi capire con quanta ingenuità avessi festeggiato la pace e la Liberazione dell'Italia dagli occupatori tedeschi.

Qualche anno dopo, progettando un libro mai da me scritto sull'Italia e gli Alleati, mi recai a Torino da Franco Venturi, un grande intellettuale che era stato arrestato sia dai fascisti italiani sia dai franchisti spagnoli. Durante l'incontro che ebbi con lui, Venturi mi disse di non essere d'accordo con il termine <Liberazione> da me usato. Mi fece notare che l'Italia intera era stata invasa da eserciti stranieri, tedeschi al Nord, Alleati al Sud. Anche gli inglesi, gli americani, i neozelandesi o gli australiani appartenevano infatti alla categoria degli stranieri. Venturi aveva doppiamente ragione, sia perché si trattava di un dato inoppugnabile, sia perché ritornare alla democrazia grazie agli stranieri è cosa diversa dal ritornarci per virtù propria.

Senza l'arrivo delle truppe straniere il Clnai non sarebbe riuscito a promuovere nessuna insurrezione liberatrice. Chi entrava nell'esercito partigiano doveva affrontare rischi grandissimi e munirsi di tanto coraggio. Ecco perché le forze militari della Resistenza restavano fino all'ultimo numericamente modeste. Solo negli ultimi giorni, dopo che gli Alleati avevano superato il fiume Po, i partigiani raggiunsero le duecentomila unità. Ma a Torino, al momento dell'insurrezione, gli armati erano appena tremila mettendo insieme comunisti, socialisti, democristiani, azionisti e monarchici badogliani. Molti di più furono i militari che combatterono contro i tedeschi nel regio esercito.

Grazie alla presenza degli eserciti partigiano e regio, molti italiani dimenticarono di essere stati sconfitti. Dimenticarono anche di aver prestato il loro consenso a Mussolini prima che l'alleanza con Hitler conducesse nel baratro il Paese. Allorché Renzo De Felice, nel 1975, cercò di far rinsavire gli smemorati, rischiò di essere linciato. Fu salvato da Giorgio Amendola, un leader comunista di grande intelligenza, che ricordava bene il recente passato e non era un conformista. Lo stesso Amendola, in un'intervista dedicata all'antifascismo, indicò i limiti che la Resistenza e l'antifascismo possedevano. Oltre che numerici erano limiti culturali, a causa dei quali l'Italia ancora oggi non è diventata una nazione moderna. <Tutti noi - disse Amendola - siamo arrivati al momento del crollo del fascismo senza avere nessuna proposta di come ricostruire lo Stato, anche perché avevamo scarse idee di che cosa era diventato questo Stato, di che cosa era diventata la burocrazia>. Nel giugno del 1945 la presidenza del Consiglio dei ministri sarebbe stata affidata a Ferruccio Parri, dirigente del Partito d'Azione, uno dei maggiori capi della Resistenza, persona di grande onestà e nobiltà d'animo. Ma, come fece osservare Amendola: <Parri era l'espressione della nostra impreparazione. Me lo ricordo sommerso da una mole di carte, che si accumulavano sul suo tavolo ed egli non sapeva da che parte cominciare>.