Giunti a questo punto, se dovessimo seguire una storia cronologicamente e topograficamente ordinata, dovremmo dire di Pasquale Belli, scolaro e assistente negli ultimi lavori di Pietro Camporese, e quindi di Giulio Camporese che proseguì in Vaticano le imprese del Simonetti. Ma rappresentando questi architetti, in alcune delle loro opere, nuovi orientamenti della cultura architettonica romana è meglio ricordare prima l'attività di altri, alcuni anche più giovani, ma più fedeli alle idealità neoclassiche. Tra questi Antonio Asprucci (1723-1808) scolaro di Nicola Salvi, che dopo aver lavorato per il Duca di Bracciano, e costruita una casa di campagna per Marcantonio Borghese presso Pratica dì Mare, si mise al passo della moda erudita quando fu chiamato (1782) a dare nuova disposizione alle decorazioni interne delle Sale del Casino nella Villa Borghese.

 

Il Casino Borghese

L'Asprucci, la cui presenza è evidente soprattutto nelle stanze a terreno che hanno le pareti adorne di antiche statue e busti e vasi, creò il proprio capolavoro nella " Galleria " del Casino.

 

L'interno della Galleria Borghese

Qui le pareti, decorate da bassorilievi in stucco, sono divise da lesene d'alabastro con capitelli di metallo dorato e rese più preziose da " cammei " di marmo bianco su fondi di mosaico turchino. Bellissimi sono anche il pavimento di marmi policromi e gli spartimenti della volta adorna delle pitture di G. B. Marchetti e di Domenico De Angelis, mentre gli ornamenti a mosaico delle pareti maggiori sono dovuti a Cesare Agnatti, i " cammei " marmorei a Pietro Rudiez, ed i rilievi a stucco ad Agostino Penna, a Vincenzo Pacetti, Tommaso Righi, Francesco Carradori, Massimiliano Laboureur ed a Luigi Salimeni. Uno strano compromesso, quest’ambiente del Casino Borghese, tra fasto settecentesco e compostezza neoclassica. Caratteri simili si riscontrano nel Gabinetto delle Maschere in Vaticano presso la Galleria delle Statue, e in quello dei Busti, forse da attribuire allo stesso Antonio Asprucci.

Il Tempietto di Esculapio

Al quale va anche, assegnato l'elegantissimo tempietto di Esculapio a specchio del lago nel giardino segreto della villa, il finto rudere dell'altro dedicato ad Antonino e Faustina, nonché la chiesetta preceduta da un portico d'ordine dorico che sorge, sempre nella villa, tra la piazza di Siena ed il tempio di Diana. Un'opera quest'ultima di Mario Asprucci (1764-1804), figlio di Antonio, mentre a Domenico Fagioli dobbiamo la Casina dell'Orologio (1791-1799) che, dominata da una torre quadra sormontata da un tempietto circolare, fa riscontro sull'opposto lato maggiore della Piazza di Siena alla chiesetta di Antonio Asprucci.. Rammentati questi eruditi architetti, cui un poco più tardi si aggiungerà il Canina, il quale fu intento alla costruzione, nel 1918, di due propilei in stile ionico posti all’entrata del parco, converrà tornare verso il Vaticano per incontrarvi Giuseppe Camporese e Raffaele Stern (1771-1820) figlio di quel Giovanni Stern già rammentato.

 

Il Finto Rudere dedicato ad Antonio e Faustina

 

Tempietto Circolare

E, per sgomberare finalmente il campo dai neoclassici puri, diremo prima di quest'ultimo sebbene egli fosse di qualche anno più giovane del Camporese e la sua attività in Vaticano si svolgesse qualche anno dopo quella di lui. Raffaele Stern dunque, dopo aver svolto in qualità di architetto camerale opera soprattutto di ingegnere e di restauratore, nel 1817 riceveva l'incarico di proseguire i lavori per la sistemazione dei Musei Vaticani, e iniziava la costruzione di quel braccio nuovo del Museo Chiaramonti, uno dei più solenni e meglio armonizzati ambienti neoclassici romani. L'ampiezza solenne delle arcate sorrette da colonne, la misurata cadenza delle nicchie incavate ad ospitare le sculture, e la bella curvatura delle volte cassettonate, infine l'ampio respiro della cupola mediana danno veramente il senso di trovarsi in un ambiente di romana classicità ove tuttavia il peso dell’erudizione archeologica non riesce a impedire i liberi voli della fantasia. E i rilievi a stacco di Massimiliano Laboureur s'inseriscono mirabilmente lungo le pareti con perfetta eleganza di linee e soprattutto con un gusto misuratissimo nelle proporzioni, e nella giustezza di rapporto con le antiche sculture, ospiti di quel solenne ambiente. Le altre opere sue, quali i restauri nel Colosseo e nell'Arco di Tito, proseguiti poi dal Valadier, e i lavori nell'abside di S. Pudenziana e nella Cappella Paolina al Quirinale, non sempre chiaramente delimitabili, servono al più a sottolineare le sue capacità di tecnico espertissimo. Ma prima che Raffaele Stern costruisse il braccio del Museo Chiaramonti, l'opera già iniziata dal Simonetti era stata portata avanti da Giuseppe Camporese (1763-1822) romano, figlio di Pietro, ed a lui, che fino al 1786 presiedeva ai lavori vaticani, va assegnato il caratteristico edificio quadrangolare già ingresso ai Musei. Al piano terreno esso è formato dal cosiddetto "atrio dei quattro cancelli" e al piano superiore dalla Sala della Biga. Nell'insieme un edificio concepito e realizzato con senso unitario, studiato con attenta minuzia anche nei particolari, ove a prima vista si rivelano gli elementi della caratteristica cultura del suo autore. All'esterno il nucleo cilindrico posato sul doppio dado delle sottostanti strutture, richiama architetture classiche, dalle quali il Camporese giunge per suo conto al Vignola, mentre la tecnica del cotto mirabilmente lavorato nelle sagome e nelle cornici, ci riporta agli esempi forniti dalle tombe della Via Latina, e più direttamente alla giudiziosa solida tecnica del padre di lui, Pietro Camporese, e del Simonetti. All'interno dell'atrio invece, le soluzioni angolari sono simili a quelle attuate dal padre nell'atrio del Collegio Germanico in via della Scrofa, mentre nel piano superiore, dove la Sala rotonda della Biga ha quattro nicchie nelle pareti rivestite di marmi ed otto semicolonne con trabeazioni a sostegno delle volte, sono ancora evidenti i richiami ad esemplari classici, tradotti però con un linguaggio molto più freddo e compassato che non quello del Simonetti. Direi anzi che proprio in questa freddezza geometrizzante, in questo senso di una precisione meccanica ovunque realizzata nell'evidente ricerca di più o meno inutili simmetrie, appaiono già chiari i caratteri di quella gelida architettura ottocentesca che, negli ambienti chiesastici romani, verrà più tardi attuata, non senza grandiosità e con varia intonazione d'accenti, dai suoi continuatori. Tali caratteri tornano nelle altre opere di Giuseppe Camporese. Così nel Duomo di Genzano, veramente grandioso nella facciata intesa come una traduzione in accenti classicheggianti di uno schema cinquecentesco, nell'ampia unica navata coperta da volta a botte e nel transetto sormontato da un'ampia cupola priva di lanternino; cosi nelle opere condotte in quello di Nemi elegantissimo nei chiari rapporti spaziali; così nel rimaneggiamento dell'interno della chiesa di S. Maria in Monserrato, e nella costruzione della chiesa di Carbognano. Nelle quali architetture il suo timbro si riconosce in una limpida armonizzazione degli spazi e delle linee ed in una schietta stesura delle superfici; il tutto indubbiamente già in armonia con le idealità dei puristi che contemporaneamente interpretavano le forme classiche sulla falsariga del Palladio.

I due Propilei del Canina all'ingresso di Villa Borghese

Così, Giuseppe Camporese, attivo con il fratello Giulio anche alla prosecuzione dei lavori del Duomo e del Seminario di Subiaco, iniziata dal padre loro, e dopo l'arrivo dei francesi a Roma, occupato in lavori di scavo e di restauro del Foro Traiano e del Foro Romano e nella costruzione di ponti e strade della campagna romana, ,ci appare, con Pasquale Belli e Giuseppe Valadier, tra le personalità più caratteristiche che sul finire del XVIII secolo tentano quella sorta di compromesso tra la tradizione accademica e le nuove mode neoclassiche e puriste che caratterizzerà l'architettura romana dell’'800 fin oltre la metà del secolo.

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