- Il sonaglio- Arnoldo Mondadori Editore - Milano - Euro 12,00 - 208 pp
«Il meglio di me risiede in questa trilogia fantastica... Il primo della serie è Maruzza Musumeci; dopo la storia della donna sirena, quella di una donna che tenta di trasformarsi in albero, raccontata ne Il casellante e un terzo romanzo su una donna-capra: una trilogia delle metamorfosi». La legge suprema delle cose è il mutamento. Nell’antichità lo diceva il poeta Lucrezio: che poneva il mondo a caso, ma negando il mistero di natura e le metamorfosi degli dèi. Eppure il fantastico chiama attorno a sé l’orizzonte tutto della vita normale. È una coestensione della realtà. E autentica se stesso, verificando il pensabile sul visibile. Lo scrittore Tommaso Landolfi, esperto in piedicapre, raccontò una volta di una capra mannara. E ne diede sufficiente testimonianza: «La fanciulla portava le sue appendici caprine come le sirene la loro coda; non ci si rimette di coscienza con questa immagine, né si nuoce alla precisione, giacché non si dà chi, volendo, non abbia visto una sirena». Sui versi tradotti di Lucrezio, Giurlà impara a farsi amico un paesaggio di pascoli e stazzi che prima non gli teneva compagnia; e impara ad accordare la selvatichezza con la felicità e il piacere. L’adolescente Giurlà è un mandriano di capre. Proviene dalla costa. È un ottimo nuotatore, e ha rischiato di diventare un altro Cola Pesce. Ha sfiorato pure il pericolo della deportazione nelle terre calve: poteva diventare un caruso, un nuovo (pirandelliano) Ciàula negli antri infernali e nelle tenebre di una zolfara. Come guardiano di armenti, sugli altopiani, poteva toccargli in sorte (verghianamente) il destino di solitudine di Jeli il pastore. Giurlà approda invece in una prateria. Si immerge e galleggia nell’erba, o nelle acque sciapide di un lago, ora. Sente l’allarme dei sensi. E cerca calore nel pelliccione di una capra, tra una musata e una sgroppata. La capra, Beba, è solitaria: ostinata e fedele; oltre che di permalosa gelosia. Sa battere gli zoccoli, al momento opportuno, e imporsi, dopo i lagni di un belare querulo e dolente. Beba è ferina e misteriosamente umana. Sa amare e farsi amare. Giurlà è, a sua volta, un amante che non sopporta la distanza; e neppure l’attesa. La favola della capra-donna è di nuda tenerezza; assai diversa dalla cronaca pelosa della continuata violenza, che «armàli» più grossi dei becchi consumano intanto su una innocente «pupa» fatta di carne. Beba è diversamente innocente, pur nella sua selvaggia rustichezza. E trova umano riscatto nella complementare Anita: la marchesina, che ha un suo amabile segreto femminile, un mirabile attributo; la moglie di Giurlà, alla fine, con sonaglio al collo e zoccolo caprino. Nelle masserie, una narratrice, continua a raccontare storie di metamorfosi. Ragguaglia su Giove, che si fece cigno per Leda; e su Pasifae, che si fece montare da un toro.- Un sabato, con gli amici- Arnoldo Mondadori Editore - Milano - Euro 17,50 - 144 pp
Quando il passato presenta i suoi conti. Le vite di Matteo, Gianni, Giulia, Anna, Fabio, Andrea e Renata detta Rena sono tutte vite segnate. Fin dall'infanzia, con traumi profondi che scuotono l'anima oppure vanno a interrarsi in certe zone segrete della coscienza, e dalla giovinezza che ci aggiunge il suo carico di turbamenti, di rivolte, di affermazioni di sé. Sembrerebbe che gli anni della prima maturità possano portare un inizio di pacificazione, se non altro perché le vite sembrano incanalate nei loro binari borghesi e le coppie si sono stabilizzate, ma non è così. Non è affatto così; anzi, è proprio il contrario: l'età matura è il momento giusto perché i nodi vengano al pettine, gli elementi psichici si combinino apposta per precipitare, per esplodere come una miscela assai temibile con la quale un alchimista improvvido abbia giocato troppo a lungo e con troppa fortuna. Decisamente, questo romanzo è anomalo nella produzione di Andrea Camilleri. Lo è da subito, dalla prima lettura che ci propone una lingua secca, affilata, che non cede all'espressività del dialetto né ad alcuna di quelle varie forme di pietas che spesso si ritrovano nella prosa del maestro di Porto Empedocle e che sotto forma di ironia, tenerezza, comprensione per le umane debolezze intervengono a lenire anche le situazioni più dure e crudeli. Qui invece non c'è possibilità di fuga o di nascondimento. Ogni personaggio è consegnato alla sua dannazione e alla deriva inesorabile delle sue azioni. Quella che si sente, fortissima, in queste pagine, è la voce del Camilleri uomo di teatro. La si sente nelle clausole immediate, nel disegno rigoroso della trama, nella geometria delle relazioni tra i personaggi, nelle battute perfettamente calibrate per efficacia e verosimiglianza, nelle cadenze stilizzate del tipico dramma contemporaneo: morboso, implacabile, assurdo.- L'età del dubbio- Sellerio Editore - Palermo- Euro 13,00 - 288 pp
Montalbano è un notturnista. Scava il buio della notte. Vi apre un labirinto di specchi. E si sperde nei meandri, mentre insegue il proprio riflesso: le premonizioni e gli ammonimenti della sua buona e della sua cattiva coscienza. Il contatto cieco con gli incubi costringe Montalbano a stare in allarme, e a tenersi costantemente d’occhio: ora attore, ora spettatore della propria vita; sgomento sempre, per quell’alitargli addosso della notte; per quell’emanazione di morte, che sulla trama della vita incide come astuzia atrocemente giocosa che rovescia le false evidenze della realtà e riporta a dritto ciò che i sogni hanno acceso a rovescio. C’è un di più, in questo romanzo, rispetto agli altri di Montalbano. L’untuosità fanatica del dottor Lattes si fa più assillante; assesta colpi di bontà, che imprevedibilmente esplodono come mine. I fragorosi passi d’entrata e le chicchiriate di Catarella, del trafelato fante degli sfondoni e dei capitomboli linguistici, risuonano ora con più allucinata selvatichezza. Livia è sempre più lontana e irritabile. E con lei, al telefono, Montalbano è costretto a masticare un segreto che gli brucia le labbra. Si è incrinato l’autocontrollo del commissario. Montalbano vive il «dolce error» che fu di Petrarca. Una nuova Laura, «bella donna» anch’essa, come quella del poeta, ma in divisa di ufficiale di marina, lo fa petrarcheggiare: a ricalco, persino nell’«invidia». Se quello di Petrarca fu «giovenile errore», quello di Montalbano è quasi, però, di terza età. Il commissario e il tenente Laura collaborano alla stessa inchiesta che, in un intrigo internazionale, e con concorso di agenti segreti che al Kimberley Process fanno riferimento per il controllo del traffico di diamanti, convoglia, attorno a un cadavere sfigurato e a un passaporto falso, gli equipaggi di uno yacht e di un motoscafo. L’amore è un fantasma. Ma quel fantasma è la verità che manda a fuoco il commissario. E gli suggerisce un azzardo d’azione, alla James Bond. Il commissario trionfa, con la sua azione. Ma l’uomo Montalbano è sempre più solo. Prostrato, si piega su se stesso: sulle proprie ferite.- Il casellante- Sellerio Editore - Palermo- Euro 11,00 - 160 pp
Raccontano, le cronache dell’antichità mitica, di metamorfosi varie. E di Niobe, madre superba dapprima, e poi dolorosissima. Gli dèi le uccisero i figli, per vendetta. Ne ebbero pietà alla fine. E la trasformarono in pietra. Ma da quel sasso, da quella roccia insensibile, sgorgò una sorgente di lacrime. Anche a Vigàta accadono fatti da far girare le sante cose, i cosiddetti cabasisi, nell’anno di grazia 1942: mentre guasconeggiano marronate fascistissime, e svampano i primi fuochi che scommuovono l’aria e preludono allo sbarco degli alleati. Non ci sono dèi a Vigàta. Ma regolarità abitudinarie. Treni che vanno e vengono strasciconi. Concertini domenicali. Rispetti e convenevoli. Prodigi d’ingegno anche, di brava gente e di uomini d’onore. E arcaici istinti, primitività animale, e violenza selvaggia nell’ombra. La mostruosità è dentro, negli interstizi della feriale convivenza. Cospira. E quando esplode, feroce e distruttiva, è la provvidenza del dolore a intervenire. Con il ritorno delle antiche metamorfosi. Con la pietrificazione. O con la regressione vegetale, che è tentativo disperato di riaccedere al ciclo vitale della natura. Camilleri è il cronista, il favolista e il mitografo della comunità vigatese. Racconta di Minica e di suo marito, il casellante Nino Zarcuto. Della loro modesta vita nella solitaria casetta gialla, accanto a un pozzo e a un ulivo saraceno: in mezzo a un paesaggio arcigno, blandito dal vicino mare e dalla luce. Vogliono la grazia di un figlio, i due casellanti. Si prodigano. Ma la violenza è un gorgo voraginoso, che risucchia i due coniugi. Il dolore è atroce, straziante. Pietrifica. Minica è una Niobe, ora in un’umile mitologia rusticale. Ha per occhi due laghi traboccanti. Vuole essere madre tuttavia. È ostinata. Una fantasticheria vegetale le fa credere di poter diventare albero. Di mettere radici e di dar frutti, dopo essere stata innestata. Il marito l’asseconda, amoroso e sollecito. Il figlio arriva infine, come arrivano i miracoli: donato dagli scrolloni della morte e della guerra. Camilleri si apposta negli svolti della tragedia. E aspetta il lettore, con una candela accesa in mano.- Il campo del vasaio- Sellerio Editore - Palermo- Euro 12,00 - 304 pp
Su un terreno nei dintorni di Vigàta, buono solo per ricavarne creta per i vasai, viene trovato il cadavere di un uomo. Sfigurato, squartato, chiuso in un sacco. Sembrerebbe un delitto di mafia eseguito con puntigliosa esattezza, secondo il rituale arcaico riservato ai traditori. Ma Montalbano sente odore di bruciato.Il campo del vasaio, detto anche del sangue, è luogo che appartiene alla topografia morale. Designa una contrada maligna, putrida e pantanosa: un anfrattuoso cimitero di argille; uno smortume di forre e borri. La località è il quadrante tartareo del tradimento. Venne acquistato con il «prezzo del sangue»: con i trenta denari di Giuda. E accolse le viscere sparse dell’apostolo traditore, lì impiccatosi. In un campo del vasaio vengono trovati i trenta «tagli» di un uomo: prima giustiziato, con un colpo alla nuca; poi macellato. Sembrerebbe un delitto di mafia eseguito con puntigliosa esattezza, secondo il rituale arcaico riservato a quanti hanno tradito. Ma il tradimento è una macchinazione che dà a intendere quel che non è. Corre su un’incerta frontiera. Tra vero e falso. E anche i luoghi e le cose tradiscono, in questo romanzo. Lo stesso Montalbano, sempre più soliloquista e monologante, su declivi di stanchezza, è posseduto da uno stupore notturno: dai lumi ciechi di un incubo traditore che lo gela, come dentro un cubo di ghiaccio, in mezzo al fracasso dei turbini. Il commissario dovrà smorfiare i segni sghembi delle premonizioni, e sventare le trame nascoste di un tradimento che lo coinvolge e lo tocca fino alle lacrime. Una signora dei trucchi, una maliarda, ha portato scompiglio nel commissariato di Vigàta. Sa come affascinare gli animi anche riluttanti. Sa come stornarli, e come condannarli a una dipendenza vergognosa. Somiglia all’Angelica dell’Orlando innamorato di Boiardo. Esotica e ingannatrice anch’essa: venuta dalla Colombia, come l’altra dal Cataio; entrambe perfide, fatte di «màrmaro e d’azzaro». Si chiama Dolores, la nuova principessa degli inganni: «Dolorosa», nella pronuncia di Catarella. Ha adescato il «paladino» più vicino a Montalbano. E lo sobilla, per «tradire» l’inchiesta. Il «paladino» subisce il sortilegio. Ma, segretamente, vorrebbe essere redento. Montalbano riuscirà a soccorrere l’amico, e a deludere le falsità con altre falsità. Procederà in punta d’ingegno: abile nello sgambetto e nel contropiede. Ingannerà la traditora. Esorcizzerà gli influssi nefasti del campo del vasaio, i suoi pronostici tradimentosi. Con una meditazione calma, ancorché sconsolata. Lui, Montalbano, è il «poviro puparo» di una dispersa e «mischina opira dei pupi»: «la fatica si faciva ogni volta cchiù grossa, ogni volta cchiù pisanti. Fino a quanno avrebbe potuto reggiri?».- Il tailleur grigio- Arnoldo Mondadori Editore - Milano - Euro 16,50 - 140 pp
Nel corso della sua lunga, irreprensibile carriera di alto funzionario di banca, Febo Germosino ha ricevuto tre lettere anonime. Adesso, nel primo giorno della sua nuova vita da pensionato, le ha allineate davanti a sé. Le prime due sono vecchie di decenni, l'ultima è recente e insinua dubbi sulla fedeltà della sua giovane e bellissima seconda moglie, Adele. È lei, Adele, la protagonista di questo romanzo: una splendida femme fatale che ama indossare, in alcune particolari circostanze, un castigato tailleur grigio. Un vestito che assume un profondo significato simbolico. Un significato che forse sarebbe molto meglio non conoscere mai... La letteratura di Camilleri è ricchissima di figure femminili, sempre seguite con una partecipazione amorevole, una sorta d'indulgente, quasi sorniona, profonda adesione alle loro carnali debolezze, una incuriosita attenzione all'attimo del cedimento, quando i freni inibitori si allentano per passione, per vendetta, per un semplice capriccio; per un attimo o per sempre; per malizia, per calcolo o per esplosione dei sensi. Pochi scrittori come Camilleri hanno saputo seguire il ritmo del corpo e il battito dell'anima femminile. In queste pagine del più "francese" dei suoi romanzi, in questa affascinante, temibile Adele accarezzata dalla scrittura come da mani appassionate e al tempo stesso intimorite, si sentono echi di Maupassant, del Pierre Louÿs di La donna e il burattino e di tutti i classici della letteratura e del noir che ci hanno fatto sognare su certe dark ladies tanto incantevoli da amare nella finzione quanto pericolose da incontrare nella realtà.- Maruzza Musumeci- Sellerio Editore - Palermo - Euro 10,00 - 140 pp
Questo «cunto» è una maneggevole storia naturale delle Sirene. E anche una «storia morale». La vicenda si svolge a Vigàta, tra Ottocento e Novecento. In contrada Ninfa, che è una lingua di terra sul mare: un'isola immaginaria, odissiaca, che figura ancora sulle rotte dei mitici navigatori; ed è visitata dai sogni incompiuti dalle metamorfosi di pescatori, naiadi, e cretaure marine. Le Sirene non sono pesci con il rossetto. Sono donne feconde, terribilmente seducenti. Vivono tra gli uomini. Abitano gli stessi luoghi, ma non vivono nello stesso tempo. Vengono da una profondità di millenni: sono troppo vecchie o troppo giovani, al di sopra della vita e della morte. Hanno uno sguardo lungo sul passato. E un'immota fissità di ricordi. Non hanno dimenticato l'offesa di Ulisse. Sono le vestali e le vittime del loro segreto. Il rancore e il desiderio di vendetta risvegliano in esse l'animalità selvaggia. Cercano però un'uscita dalla ferinità, per entrare nel tempo degli uomini. Il «cunto» di Camilleri è una poetica favola vichiana. Maruzza e la sua bisnonna parlano in greco tra di loro. Ed è sui versi dell'Odissea che le due Sirene verificano eventi ed emozioni. Il loro canto è sensuoso. Ma sa essere pure un complotto d'acque, un irresistibile richiamo di onde e scogli. Maruzza e la bisnonna si disfanno dei fantasmi finalmente sconfitti di Ulisse e della sua genìa. E individuano nel bracciante e muratore Gnazio Manisco, che dall'America è tornato nella sua Itaca vigatese, odiando il mare e viaggiando sempre sotto coperta, un anti-Ulisse. Maruzza si sposa con Gnazio. Felicemente. Comincia la vita nuova di una Sirena con marito e figli. La famiglia della Sirena convoglia cielo e mare. Il primogenito Cola diventa astronomo. Scopre una stella. La chiama Resina, con il nome di sua sorella, la Sirenetta. Nel 1940, Cola rientra dall'America nell'Italia in guerra. La sua nave viene affondata. La Sirenetta corre dal fratello. Con lui si inabissa per sempre, là dove si apre una grotta dentro una campana d'aria. In quella grotta la letteratura aveva già portato l'avvocato Motta di un romanzo di Soldati. In quella «dimora» aveva realizzato il suo «sogno di sonno» l'ellenista Rosario La Ciura del racconto La sirena di Lampedusa. La guerra ha i suoi naufraghi. Un giovane soldato americano finisce sull'isola immaginaria di Vigàta. È steso sotto un ulivo saraceno. Prima di morire accosta all'orecchio la grande conchiglia indiana delle Sirene. Muore consolato dal canto della bisnonna e della Sirenetta. Le Sirene non uccidono più. Amano e soccorrono. Come nel racconto di Lampedusa. E come nella Sirenetta di Andersen. Il «cunto» di Camilleri è, infine, e sorprendentemente, un «cunto de li cunti».- Le inchieste del commissario Collura - Editore Libreria dell'Orso - Pistoia - Euro 8,00 - 91 pp
Dopo essere stato rimasto ferito nel corso di una sparatoria, il commissario Vincenzo (Cecè) Collura ha deciso di trascorrere un periodo di convalescenza su una nave di crociera. Uomo di terra e non di mare, si trova a indagare su una serie di piccoli e divertenti "gialli", aiutato da un fedele collaboratore, il triestino Scipio Premuda. Il mistero del finto canatante, il fantasma apparso in una cabina, lo scambio tra due gemelle, la comparsa di un cadavere sconosciuto, la bisca clandestina, il furto di preziosi gioielli: sono alcune delle inchieste che Cecè conduce, seguendo il fiuto dello sbirro che ha in comune con l'amico Salvo Montalbano. "La Stampa" mi aveva chiesto una serie di racconti, io ci pensai un po' su e mi ricordai che ero stato a lungo indeciso sul modo da dare al commisario Montalbano quando era venuto fuori ne "La forma dell'acqua". Avevo allora due nomi che mi giravano nella testa: uno era Montalbano e l'altro era Collura, cognomi tipicamente siciliani se altri mai ve ne furono. Poi mi venne l'idea di rendere grazie a Vazquez Montalban e cosi' optai per il commissario Montalbano. Ma ora dovendo scrivere dei racconti mi venne in mente di trovare un personaggio fisso. E subito è stato come una sorta di risarcimento nei confronti del commissario Collura: qualunque fosse diventata la funzione di questo personaggio che ancora non era nato, comunque si sarebbe chiamato Collura, visto che, poveraccio, era rimasto nell'anonimato rispetto a Montalbano che io avevo scelto come protagonista dei mie gialli. La seconda cosa che mi venne in mente, perchè mi piace scommettere con me stesso, era quella di avere la possibilità di fare delle indagini all'interno di un luogo esattamente delimitato. E' un po' il giochetto che spesso fa Agatha Christie quando sceglie l'Orient Express o un aereo per le sue storie. E quindi scelsi una nave da crociera perche' offre una possibilita' enorme di incontri con persone diversissime tra di loro. Nacque cosi il commissario di bordo. Il commissario di bordo non e' un vero e proprio poliziotto: il commissario di bordo e' soprattutto quello che si occupa del buon andamento dei croceristi, della crociera stessa e del personale di bordo, ma non e' un investigatore. Allora mi vene in mente di farne un poliziotto momentaneamente a riposo che ha una certa deformazione professionale anche quando si trova a svolgere un compito che poliziesco vero e proprio non è.- La pista di sabbia - Sellerio Editore - Palermo - Euro 12,00 - 288 pp
L’incubo è la Cavalla della Notte: la fantasima sganasciante, con froge e zoccoli. Abita la coscienza disfatta dal sonno, il buio accidioso degli istinti, la cecità delle tentazioni, il rodìo dei rimpianti e delle nostalgie nella costernazione per il tempo che si vorrebbe fermo e invece sopravanza e soverchia. L’incubo è la qualità equina, l’astrazione che governa questo romanzo di amazzoni e di allevatori di cavalli purosangue, ambientato tra scuderie e maneggi, ippodromi e piste: tra corse clandestine e corse di beneficenza. Un mondo nuovo sorprende e spiazza il commissario Montalbano. Una società che strepita a vuoto, su quella linea logora che a stento separa un vestibolo di ignavi, di smidollati e di viziosi (aristocratici alcuni, ma per lo più imprenditori e uomini d’affari), dall’«inferno» della vecchia e della nuova mafia. Un «suon di man» echeggia, in questo vestibolo, come in quello dell’Inferno dantesco. Ma se i «cattivi» di Dante erano «stimolati molto» da «mosconi» e «vespe», questi lunatici circensi spiaccicano sulle loro gote nugoli di moscerini. Tutto ruota attorno alla carcassa rapita di un cavallo da corsa. E a un cadavere trovato seminudo, con un proiettile in corpo, buttato al sole e ai cani. Due romanzi si chiudono l’un dentro l’altro. Le piste si intrecciano e si confondono. Ciò che sembra chiaro al dritto, si rivela oscuro al rovescio. Montalbano cavalca un doppio incubo. Monta dapprima sulla «cavaddra-fimmina». E poi, maldestro, inforca un cavallo di bronzo: un ordigno metamorfico, che lo trabalza «con la faccia verso il culo della vestia», e lo porta su piste di sabbia, là dove le orme si sperdono e cancellano. Montalbano è un aruspice annebbiato dai gabbamenti della memoria e dagli «incubi» dell’incipiente vecchiaia. Avrebbe bisogno di un paio d’«occhiali». Sente la bestia sotto di sé. Ma forse è lui stesso un «cavallo» condotto da eventi che non sa decifrare. Come la madonna Oretta di una novella del Decameron, il commissario scenderà infine dai «cavalli» di «duro trotto» e di andatura sbagliata (a barzelloni e traballoni). Si ritroverà. Tornerà ai consueti avvedimenti: trucchi, «sfunnapiedi», o «saltafossi». E ancora una volta, senza ausilio d’occhiali, saprà ricomporre, leggere, e raccontarsi, una «bellissima» storia.- Il colore del sole- Arnoldo Mondadori Editore - Milano - Euro 14,00 - 128 pp
Ad Andrea Camilleri, recatosi da Roma a Siracusa per assistere alla rappresentazione di una tragedia classica, capitano alcuni avvenimenti strani. Qualcuno gli infila in tasca un biglietto con un numero a cui telefonare, ma da una cabina pubblica. E non è possibile ricostruire chi sia l'utente a cui quel numero corrisponde. L'Andrea Camilleri scrittore di romanzi gialli non può sottrarsi a una serie di misteri via via più fitti e inquietanti. Misteri che lo conducono a un casale sperso nella più remota campagna, dove gli verranno mostrati alcuni curiosi oggetti e un diario incredibile, scritto di suo pugno da un artista di quattro secoli prima. Un artista grandissimo e maledetto: Michelangelo Merisi, il Caravaggio. Le note brevi, secche, disarticolate e visionarie di questo diario, alla cui stesura Camilleri dedica un virtuosismo mimetico capace di restituire tutte le torsioni, le incrinature, i bagliori del più corrusco italiano seicentesco costituiscono una sorta di anomalo romanzo "nero", fitto di ombre e di allucinazione, sul periodo trascorso da Caravaggio a Malta e in Sicilia nell'estate del 1607. Questa volta la scrittura di Camilleri si distacca dal saporoso impasto che lo ha reso celebre e si tuffa nel passato per sintonizzarsi, attraverso le aspre e dissonanti note barocche, sulla psicologia torturata dell'artista e indagare le ragioni profonde della sua pittura. Il risultato è un testo che ci restituisce con enorme intensità la voce di un pittore grandissimo e misterioso. L'immedesimazione narrativa di Camilleri riesce così nel miracolo di offrirci uno sguardo nuovo su quell'arte inimitabile delle luci e delle ombre che da secoli ci affascina con la sua potente, straniata suggestione.- Le ali della sfinge- Sellerio Editore - Palermo - Euro 12,00 - 304 pp
Non è un buon momento per il commissario Montalbano: con Livia continui litigi, incomprensioni ingigantite dalla distanza, nervosismo. Passato e futuro si ammantano nei suoi pensieri di una vaga nostalgia. E in una di queste serate di malinconia viene chiamato d’urgenza. In una vecchia discarica è stato trovato il cadavere di una ragazza. Nuda, il volto devastato da un proiettile, niente borse o indumenti in giro. Solo un piccolo tatuaggio sulla spalla sinistra - una farfalla - potrebbe favorire l’identificazione della donna. Parte l’indagine con un Montalbano svogliato, stanco di ammazzatine. Ma il caso lo trascina: ci sono altre ragazze con una farfalla tatuata sulla scapola, sono tutte dell’Europa dell’est, hanno trovato lavoro grazie all’associazione cattolica “La buona volontà” che le ha salvate da un destino di prostituzione. Montalbano non si fa persuaso. C’è qualcosa di poco chiaro all’interno di quell’organizzazione benefica? E mentre l’inchiesta va avanti il commissario è incalzato da ogni parte: dal vescovo, che non ammette ombre su “La buona volontà”, dal questore, che non vuole dispiacere al vescovo, da Livia, che vuole partire con lui per ritrovarsi. Tutto si muove sempre più velocemente, alla ricerca della soluzione e il commissario ha fretta, di concludere, di andarsene. La consueta felicità e facilità di scrittura si combina nelle “Ali della sfinge” con uno splendido poliziesco: audace, ben congegnato, con quei rimandi all’oggi che ne fanno un giallo struggente e pieno di umanità. Ci sono i consueti ingredienti delle inchieste del commissario Montalbano, in questo nuovo romanzo di Camilleri: i chiardiluna legislativi, i lorsignori della politica, i lasciti di un governo gaglioffo, la prolissa incompetenza dei superiori, le calandrinate verbali di Catarella; gli stranguglioni, le làstime, i teatrini, le esche bugiarde, e la sensualità golosa del commissario. Ma in una diversa ricomposizione, ora: attraversati come sono da un'insidia segreta, che viene dal retrosguardo abissale di un Montalbano che avanza nella gravedine degli anni ed è giunto alle «sabbie mobili» del suo celibato adultero con Livia; ed è incistata nell'infarto subìto dal senso della realtà, allorché i «mostri» sembrano mulini a vento, la «provvidenza» è un prestanome criminale, i campi d'accoglienza per gli immigrati sono dei lager, i sequestri di persona possono essere anche messinscene da operetta, e la «Buona volontà» costituita da anime cosiddette pietose è un associazione a delinquere specializzata nella tratta e nello sfruttamento delle nuove schiave. In una discarica è stato trovato il cadavere di una giovane russa, marchiato da un tatuaggio. La farfalla, tatuata sulla scapola della vittima, è una «sfinge»: una farfalla migratoria e notturna, come le nuove schiave. Montalbano, per risolvere il caso, dovrà «cataminarsi tra monsignori e anime devote», in questo romanzo improntato dalla matematica del doppio. Dalla sfuggente doppiezza della realtà, alla duplicazione dei casi, al bivio delle scelte, alla scissione della personalità, alle due ali apparenti della «sfinge» che di fatto sono quattro: come quattro sono le schiave-farfalle. La labilità irrequieta di Montalbano si esibisce in pantomime solitarie; nella dissociazione tra un io che tende a cedere agli alibi della vecchiaia, un secondo io che si oppone, resiste, e irride; tra la sensibilità ipotetica di un fauno e quella di un casto Giuseppe. Quando il commissario crede di essersi ricomposto nell'unità di una decisione, e si precipita all'incontro con la sua metà, la trama gli riserva una sgambata. E si divarica tra la corsa di Montalbano che va in una direzione, e la corsa di Livia che va nella direzione opposta. Come accadeva nei poemi cavellereschi di una volta; e nei romanzi ottocenteschi decisi dalla eterogenesi dei fini. L'architettura romanzesca ironizza su se stessa. Si diverte. E diverte. Malgrado tutto.- Le pecore e il pastore- Sellerio Editore - Palermo - Euro 10,00 - 144 pp
Un atto di lettura è all'origine di questo giallo storico. La svagata curiosità dello scrittore viene attratta e irretita da un libro, dimesso e periferico in apparenza, e ritroso anche. Il libro vuole essere desiderato e corteggiato. È vessatorio. Lo scrittore si lascia sedurre. Agguanta il libro infine. E precipita nella lettura. Ma incespica. Inciampa in una nota a piè di pagina. In una di quelle notizie frettolose, quasi incidentali, che di solito vengono saltate senza rimorso. Il passo vulnerabile del lettore si arresta. La brevità della nota stenta a contenere l'immanità del fatto. Immobile come una scheggia insidiosa, la nota ferisce e dà i brividi. Disloca, fuor dello spazio continuo del libro, nel recondito e nell'asetticità erudita di un margine, l'irta e inconfessata convivenza della civiltà con il rito intensamente arcaico del sacrificio umano: con l'immolazione, con il suicidio per arsura di fede, con l'orrore. Recita la nota: «Nella lettera del 16 agosto 1956 l'Abadessa sr. Enrichetta Fanara del monastero benedettino di Palma Montechiaro così scriveva a Peruzzo: "Non sarebbe il caso di dirglielo, ma glielo diciamo per fargli ubbidienza [...] Quando V. E. ricevette quella fucilata e stava in fin di vita, questa comunità offrì la vita di dieci monache per salvare la vita del pastore. Il Signore accettò l'offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani, lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore"». Il «pastore» delle giovani «pecore», che si lasciarono morire di fame e sete in una lunga e assistita agonia dentro le celle claustrali di un convento di antica e macerata santità (contro la quale a nulla valsero le «farfantarie» di un satanasso lapidatore ed epistolografo in diavolese, convocato dai rapimenti mistici), era il vescovo di Agrigento Giovanni Battista Peruzzo: il «vescovo dei contadini» che, in nome della giustizia sociale, e a dispetto del professato anticomunismo, aveva messo il suo carisma e la sua possente eloquenza al servizio dei deboli e degli abbandonati: contro gli agrari; e contro quella «struttura di peccato», che era il latifondo incolto. Immancabilmente due proiettili ferirono a morte il vescovo. Era una sera d'estate del 1945. Dieci monache offrirono le loro vite a Dio. Il vescovo sopravvisse al baratto. Mentre dieci cadaveri si dissolvevano nel silenzio di una strage dimenticata. Solo a distanza di undici anni, Peruzzo venne messo a parte del segreto. Dalla nota a piè di pagina, Camilleri risale la storia. Insegue piste labili o cancellate. Conduce un'indagine sofferta e tormentosa. Interroga fonti storiche e documenti letterari. Entra nei turbamenti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che dai fondatori del monastero di Palma di Montechiaro discendeva. Mette in campo se stesso, con i suoi ricordi giovanili. Interroga e si interroga, sgomento, sul passato e sul presente. Intreccia cielo e terra. Il saggio narrativo include tempi lontani. E topografie. Montagne sassose, romitori, luoghi ostili e impervi. Gli spazi fisici si trasformano in archetipi geometrici. Dalla selva oscura, aspra e solitaria, al convento: dagli aliti di sepolcro degli essiccatoi per mummie, ai tanfi cerosi; dalla vischiosità della natura, a quella della storia: tra banditismo, separatismo, e connivenze malavitose. La temperatura della scrittura cambia gradazione. Si accende nel seppiato delle rievocazioni. Si stempera nel bianco e nero dell'inchiesta.- La vampa d'agosto- Sellerio Editore - Palermo - Euro 11,00 - 288 pp
Caldo torrido, calore estenuante, sole implacabile: è questa la vampa del mese più infuocato della torrida estate siciliana, ma è anche l’ardore e la passione che infiammano Montalbano. Siamo in agosto, Mimì Augello ha dovuto anticipare le ferie e Montalbano è costretto a rimanere a Vigàta. Livia vorrebbe raggiungerlo, ma per non restare sola, con Montalbano sempre al lavoro, pensa di portare con sé un’amica (con marito e bambino) e chiede a Salvo di affittare una casa sul mare per loro. La vacanza scorre nella bella villetta sul mare, silenziosa, verde. Ma un giorno il bambino sparisce e proprio non si trova. Montalbano accorre e scopre in giardino un cunicolo che rivelerà clamorose sorprese tra cui un baule con il cadavere di una ragazza scomparsa sei anni prima. Finita la brutta avventura con il ritrovamento del bambino, Livia e gli amici ripartono, tutti troppo impressionati per restare a Vigàta. E il commissario inizia l’indagine. Difficile perché il caldo non lascia requie, bollente come la passione amorosa di cui rimane in balia. Un giallo perfetto un Montalbano istintivo, ma alla fine anche malinconico, a interrogarsi su di sé e sul suo futuro. Tutt’intorno Vigàta d’agosto stretta tra pietre infuocate e mare. «Natava e chiangiva. Per la raggia, per l’umiliazione, per la vrigogna, per la sdillusione, per l’orgoglio ferito […] Tutto un tiatro, tutta una finzione. E lui, vecchio, alluciato dalla billizza e perso darrè a quella giovintù che l’imbriacava, c’era caduto, a cinquantacinco anni sonati, come un picciliddro. Natava e chiangiva».- La pensione Eva- Arnoldo Mondadori Editore - Milano - Euro 14,00 - 192 pp
Per le stanze della Pensione Eva, il casino di Vigàta appena rinnovato e promosso dalla terza alla seconda categoria, transitano figure e personaggi di quei provinciali, sonnolenti, tipici anni Trenta che potremmo benissimo aver incontrato in altri indimenticabili romanzi di Camilleri. Dall'anziano cavalier Calcedonio Lardera, cui il fragore dei bombardamenti restituisce per un attimo l'impeto dell'antica virilità, a Biagiotti Teresa, in arte Tatiana, puttana comunista capace di occultare il ghigno baffuto di Stalin in luoghi insospettabili. Ma le case chiuse non furono solo lo spazio proibito e in fondo domestico delle prodezze e delle fantasie erotiche di un'Italia addormentata dai languori della carne e dai miasmi del fascismo. Camilleri ne fa lo sfondo - o il primo piano? - di un vero e proprio romanzo di formazione prima dolce e poi crudele. Ogni quindici giorni le sei "picciotte" della Pensione Eva partono, e ne arrivano delle nuove; è in mezzo a queste presenze carnali che trascorre la giovinezza di Nenè, Ciccio e Jacolino. Ma, a dispetto di quello che si potrebbe pensare, frequentando la Pensione i ragazzi si imbattono in apparizioni spirituali, fantasmi letterari, vicende al confine fra la poesia e la realtà, perché "le storie che quelle picciotte potevano contare gli avrebbero permesso di capire. Capire qualichi cosa di lu munnu, di la vita". Tutto comincia come un mistero in cui giocare: il sesso, la vita, la stessa guerra. Tutto finisce in una realtà in cui non si gioca più, sotto le bombe che schiantano le case, i corpi, la dignità. E una storia che era iniziata all'insegna della curiosità sul sesso si chiude sulla deflagrazione dell'amore, quello forte della morte, quello destinato a lasciare per sempre nell'aria la scia del suo profumo.- La luna di carta- Sellerio Editore - Palermo - Euro 11,00 - 267 pp
Tra due donne forti e insidiose deve industriarsi il commissario Montalbano: una estroversa, e di franca sensualità; l'altra segreta, e di morbosi ardori, capace di tutto intraprendere e di tutto nascondere. Si sgambettano a vicenda, le due donne, su scivolosi precedenti: che sono esche e trappole per il commissario («Quann'era picciliddro, una volta so patre, per babbiarlo, gli aveva contato che la luna 'n cielu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva criduto. E ora, maturo, sperto, omo di ciriveddro e di intuito, aviva novamente criduto come un picciliddro a dù fìmmine…, che gli avivano contato che la luna era fatta di carta»). La verità non procura rimedio. Se non è vittoria è purtroppo vendetta. Rovinosa e tragica. Secca e asciutta, nell'orrore: «la tragedia, quann'è recitata davanti alle pirsone, assume pose e parla alto, ma quanno è profondamente vera parla a voce vascia e ha gesti umili. Già, l'umiltà della tragedia». Il commissario interloquisce con l'incipiente vecchiaia. Ricalibra le sue negligenze. Escogita ripari alla ruggine degli anni. Impara a convivere con l'ossessione della morte (un orologio biologico che batte l'ora grave) e dà udienza a passi ciechi che conducono al mistero di una casa «morta» (alla Faulkner): nella quale, attorno a un cadavere oscenamente atteggiato, si impaludano e covano le acque putride di passioni irritabili e scenografiche; insieme al fondiglio di un'oscenità politica, che lascia emergere cadaveri eccellenti e prospere viziosità. La trama è torbida, in questo romanzo che la palude stigia (facsimile della morte civile) fa solidarizzare con una politica governativa drogata di ordinaria anormalità. «E sì, questa volta Montalbano potrebbe davvero perdere sul serio la testa per una donna. Dopo anni di fedeltà alla fidanzata, Livia, arriverà una donna che lo tenterà molto. Se tradirà? Chi può dirlo. Si troverà in mezzo a due forti figure di donna, contrapposte l'una all'altra. Entrambe possibili assassine. Montalbano sarà chiamato al compito più arduo della sua carriera: capire la psicologia femminile. E a forza di capire... Diciamo che una delle due lo tenterà parecchio. Per la prima volta il lato sentimentale del personaggio emergerà chiaramente».- Il medaglione- Arnoldo Mondadori Editore - Milano - Euro 7,00 - 71 pp
A vederlo da lontano, Belcolle sembra un paese da cartolina, una barca arenata su una montagna verde, e sullo sfondo il mare di Cefalù. Ma da vicino è tutt'altra cosa: d'inverno gelido e nevoso, e per tutto l'anno è abitato da persone taciturne e diffidenti, "genti di montagna". Son cinque anni che il maresciallo Antonio Brancato, "un omo preciso al quale piaciva che tutto stava al posto indovi doviva stare", è a capo della Stazione dei Carabinieri di questo isolato paesino siciliano. Cinque anni non facili, ma durante i quali il maresciallo Brancato è riuscito a guadagnarsi la confidenza e la stima dei belcollesi. Anche troppo, si direbbe, dato che ora si ritrova fra le mani un caso poco ortodosso: l'enigma tutto privato di Francesco, detto Ciccino, che la recentissima scomparsa della moglie Marta sembra aver fatto uscire di senno... Del resto, chi altri potrebbe aiutarlo se non il maresciallo Brancato?- Privo di titolo- Sellerio Editore - Palermo - Euro 11,00 - 320 pp
Boccaccio aveva raccontato come si possa fabbricare una "santità", e convincere "tutto il popolo" a radunarsi in pompa magna per dare alla cialtroneria definitiva monumentalità e promessa di "maravigliose cose". Camilleri indaga sulla mistificazione; e smonta, dal di dentro, un "monumento" di mendacità, di santificazione e manganellante propaganda, costruito e recitato in drappi neri attorno alla memoria del presunto "unico martire fascista siciliano". La narrazione trascorre dai registri della malizia burlesca a quelli della moralità tragica, tra le matterie, le fibrille e le amplificazioni del linguaggio. Con un sentimento di magnanima pietà, al di sopra delle parti, rivolto alle due vittime diversamente innocenti della messinscena di verità. Innocente e tormentato è il comunista che dell'omicidio si autoaccusa, ed è accusato. Incolpevole è il defunto fascista, che ovviamente è estraneo alla postuma cospirazione politica; ed è defraudato, nella sua deserta solitudine, della dignità di "semplice morto privo di titolo", ammazzato (per sbaglio) da un altro fascista. Tutto comincia nel 1921, con una notte degli imbrogli che Camilleri ripassa alla moviola, cinematograficamente, per rallentarla e di volta in volta rileggerla nel fermo immagine. Tutto si scheggia nel tempo spezzato delle testimonianze vere e false, e si ricompone nell'impostura cui danno mano frottolai, intimiditi ipocriti, "òmini d'ordine" e "òmini d'onore". La "santità" della vittima cresce con la politica del manganello e dell'olio di ricino; e con il montare dell'orda fascista che, come sempre accade nelle dittature, vorrebbe una magistratura allineata. E intanto siamo già al 1930. E alla bricconata della controbeffa, che ridicolizza e lascia nudo nelle sue velleità di duce, operaio dell'inaugurazione e della prima pietra, il baccalare sommo della suprema beffa storica. I gerarchi di Caltagirone offrono e intestano a Mussolini una stupefacente città turrita, che esiste solo nella realtà illusoria di un fotomontaggio. E al fotomontaggio, la controbeffa aggiunge il mare trasportato di peso nell'entroterra: con ornamento di barche e reti messe ad asciugare. Se il monumento mendace è cresciuto su se stesso e si è confiato sulle nuvole, fino a diventare strutturata urbanistica di torri aeree, basta lo specillo di un narratore perché la bolla virtuale esploda. E dello spacconeggiare della storia faccia letteratura. --- «Verso la metà d’aprile del 1941 il professore di cultura militare del ginnasio liceo “Empedocle” di Girgenti, avvocato Francesco Mormino, principiò a firriare classi classi per spiegare a noi alunni (io allora andavo in prima liceo) il comu e il pirchì della grande adunata giovanilfascista che si sarebbe svolta a Caltanissetta il 21 di quello stesso mese. Il professore ci spiegò che ci saremmo dovuti recare a Caltanissetta per rendere omaggio all’unico martire fascista siciliano, Gigino Gattuso, del cui sacrificio supremo ricorreva il ventennale». Partendo da questo episodio della sua giovinezza Camilleri racconta la storia del “martire fascista” ucciso da un “sanguinario socialista” nel 1921: e ricostruisce la vicenda con quella mescolanza di fatti e personaggi, carte e parole, verbali, rapporti, testimonianze - vere e false - fino al resoconto del processo dove l’imputato viene assolto: non è lui ad avere sparato il colpo mortale. Un manifesto anonimo si chiederà: “un fascista ammazzato da un altro fascista può essere chiamato martire fascista? Oppure è un semplice morto ammazzato privo di titolo?“ La storia di Gigino Gattuso si intreccia con quella di Mussolinia, la colossale beffa di una città, nei pressi di Caltagirone, della cui esistenza soltanto Mussolini fu illuso. La posa della prima pietra, il 12 maggio del 1924, fu funestata da una serie di incidenti, tutti organizzati da nemici del regime, - il furto della bombetta di Mussolini e la sua sostituzione con un ridicolo cappello, i fischi dei caprai, la scomparsa della pergamena da incastonare nella prima pietra - che non facevano presagire nulla di buono.Nel 1930 Mussolinia non era ancora stata costruita. Il duce era impaziente e per non deluderlo fu approntato un falso: moderna e maestosa nel fotomontaggio si profilava la città-giardino. Ma poi, anche qui, intervenne un anonimo: con un altrettanto abile fotomontaggio aprì gli occhi al duce e decretò per sempre la caduta di Mussolinia.- La pazienza del ragno- Sellerio Editore - Palermo - Euro 10,00 - 255 pp
“Può un omo, arrivato oramà alla fine della so carriera, arribillarsi a uno stato di cose che ha contribuito a mantiniri?” Il commissario Montalbano sente il peso degli anni. E della solitudine. Si intenerisce, mentre cerca le parole e i gesti che lo nascondano agli altri; le parole che facciano barriera. Ascolta la voce di dentro. Si interroga: “Era solo un omo che aveva un personale criterio di giudizio supra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. E certe volte quello che lui pinsava giusto arrisultava sbagliato per la giustizia. E viceversa. Allura, era meglio esseri d’accordo con la giustizia, quella scritta supra i libri, o con la propria cuscienza?” Il dilemma è da tragedia greca. Ma qui, nella malinconia e negli addolcimenti pudichi di una maturità giunta quasi al consuntivo, non l’eccezionalità dell’eroe, importa; ma l’integrità di un individuo normale, che gli adempimenti dell’ufficio mette in rapporto con la falsità “politica”, con la personale ricerca della franchezza, e con l’accertamento (se non pubblico, almeno privato) della verità. Montalbano si confronta pure con le convenzioni romanzesche del genere giallo. Per sottrarsi al “mestiere”: moralista senza moralismi, vulnerato dalla ingiustizia e dalla “libertà” di rapina governativamente legalizzata e accasata; e investigatore in servizio straordinario nel romanzo, che metaforiche “ferite”, date o ricevute, fa pulsare nel non detto delle emozioni e nel clamore dello scandalo. La pazienza del ragno è un giallo anomalo. Senza “delitto” e spargimenti di sangue. A meno che delitto cruento non venga considerato lo splendore di vite costrette a consumarsi e a sprecarsi nell’odio. Nell’attesa di una catarsi che, accompagnata dalla solidale e indulgente compassione di Montalbano, metta in calma le coscienze e le riposizioni nel gioco delle parti: dopo che l’agitazione “teatrale” della “ragnatela”, pazientemente tessuta nell’odio, ha esaurito la funzione strategica di “menzogna” che sulla scena ha portato, irretendolo, il vero colpevole. Camilleri sorprende ancora una volta. E si rinnova. Con questo trepido romanzo dai tempi alternati e dialoganti. - Al termine del precedente romanzo, "Il giro di boa", Montalbano veniva ferito ad una spalla durante una sparatoria ed era accompagnato all’ospedale da Fazio e Gallo. All’inizio di questa nuova avventura, il commissario siciliano giace convalescente nel letto della sua casa di Marinella, accudito dall’amata Livia, ma la sua mente torna di continuo al momento della sparatoria, all’operazione, alle raccomandazioni dei medici. Quello che apre il nuovo romanzo di Andrea Camilleri è un Montalbano malinconico e depresso, un personaggio inquieto e tormentato dalla crisi esistenziale che compare sempre più spesso nelle pagine delle ultime storie della serie. L’avanzare dell’età, i problemi di salute, la lontananza dal lavoro lo rendono cupo e nemmeno la quiete domestica e le premure dell’eterna fidanzata Livia paiono dargli conforto. Solo la notizia di un nuovo inspiegabile caso di sparizione sembra rianimarlo. Eccolo allora gettarsi a capofitto nelle indagini, per senso del dovere, ma forse ancor di più per combattere la noia o per sentirsi nuovamente attivo e vitale. Un’inaspettata telefonata del fedele Catarella annuncia che è stato individuato, in una strada di campagna, il motorino abbandonato di una picciotta di Vigàta. La ragazza si chiama Susanna Mistretta, è molto bella, studia all’Università a Palermo e vive con i genitori in una villa poco lontana dal luogo del ritrovamento. Il padre, che aveva prontamente denunciato il mancato rientro della figlia, non ha dubbi: Susanna è stata rapita. Ma forse la verità è molto più complessa. Giallo insolito, senza spargimenti di sangue, La pazienza del ragno è la storia di un delitto sottilmente perpetrato dall’odio, capace di tessere una ragnatela a cui è arduo sfuggire. Tacere il finale della vicenda è d’obbligo; basti sapere che Montalbano, tra una sciarriatina e l'altra con la fidanzata Livia, riuscirà a sbrogliare l’intricata matassa del mistero. Come lui solo sa fare.- La prima indagine di Montalbano - Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.- Milano - Euro 16,50 - 341 pp
Di quei pochi personaggi a cui tocca il destino della memorabilità il lettore affezionato crede di sapere tutto. Come di certe persone di famiglia siamo convinti di conoscere vita, morte e miracoli, così ci sentiamo preparatissimi sui luoghi, sui gusti e sulle compagnie di un eroe come Montalbano. Ma sbagliamo, non possiamo sapere tutto, e su Montalbano, comunque, Camilleri ne sa sempre più di noi. Sul suo passato, per esempio. Perciò ci farà una curiosa impressione vedere il giovane Montalbano vivere una relazione amorosa non con Livia ma con una certa Mery. E se la geografia di Vigàta ci è nota oramai in ogni dettaglio, che cosa ci fa venire in mente il buffo nome di Mascalippa? Eppure, in questo sperduto paese di montagna della Sicilia più segreta, il giovane vicecommissario Montalbano ci ha patito per qualche anno: "Intendiamoci bene, se c'era una Sicilia che gli faciva piaciri a taliarla era proprio quella Sicilia fatta di terra arsa e riarsa, gialla e marrò, indovi tanticchia di virdi testardo arrisaltava sparato come una cannonata, indovi i dadi bianchi delle casuzze in bilico sulle colline pariva dovissiro sciddricare abbascio a una passata più forte di vento...". Ma nonostante quest'aspra bellezza, l'allora capo di Montalbano, il commissario Libero Sanfilippo, sbirro di razza e maestro d'indagini, si è subito accorto che gli sguardi desideranti del suo vice vagano lontano, alla ricerca ansiosa del mare. Montalbano riuscirà a essere assegnato ad altra destinazione, ma non raccoglie il viatico del suo maestro ("Se ti lasci pigliare da qualisisiasi reazione, sgomento, orrore, indignazione, pietà, sei completamente fottuto"), perché, anzi, arrendersi ogni tanto al sentimento e alle emozioni diventa il marchio che la sua personalità impone al lavoro investigativo. Tanto che, nella più antica delle sue avventure, La prima indagine di Montalbano, non si può proprio dire che non sconti qualche ingenuità e più di un cedimento ai moti del cuore. Il commissario che è alle prese con una indagine quanto mai bizzarra, quel Sette lunedì che è la prima di queste tre storie, e con Ritorno alle origini, che è la terza, si mostra invece assai più scafato, ma è già il Montalbano di adesso, quello che conosciamo. Tre lunghe storie nelle quali non ci sono delitti di sangue e che pure riescono a esprimere una tensione estrema, perché di morti ce ne potrebbero essere, e tanti; tre storie diversissime per tempi e per temi: un mistero di uccisioni di animali che evocano le terribili profezie della Cabbala, una ragazza troppo silenziosa e troppo intrigante, il finto rapimento di una bambina di tre anni sotto il quale s'intuisce una sotterranea, laboriosa tessitura della mafia. Ma non aveva detto Camilleri che difficilmente Montalbano si sarebbe occupato di questioni di mafia? Anche in questo caso vale la vecchia regola: i personaggi cui tocca il destino di essere eroi amati da milioni di lettori ne sanno sempre di più, una in più del loro creatore.- La presa di Macallè - Sellerio Editore - Palermo - Euro 10,00 - 274 pp
Una priapata storica è, questo romanzo di Camilleri. Dal "furore" alla "cenere". A Vigàta. Nell'anno di grazia 1935 della guerra in Abissinia, che la letteratura conosce come "baggiana criminalata"; e i calendarietti profumati dei barbieri fecero sognare come scorciatoia per il possesso, a pugno stretto, del profondo nero di Tettonia e Colonia bella. La voce del Duce vi occupa lo spazio pornografico che intercorre tra una porta che si chiude e una mutanda che si abbassa; tra una bottoniera che salta e una elargizione genitale. Mentre si consuma lo scandalo delle "cose vastase", che corrompono l'innocenza di un bambino prodigiosamente pubere. Michilino è figlio del camerata Giugiù. E' un "picciliddro". Indossa la divisa di Figlio della Lupa. Libro e moschetto lo fanno fascista perfetto. Prima comunione e cresima lo arruolano nella milizia di Cristo. Il bambino si cerca a tentoni, tra un padre che si ringalluzza con la creata di casa e una madre che si dà alla "penetrante conversazione" con un prete. Il sofistico professore Gorgerino, pedofilo e capo dell'opera nazionale balilla, lo denuda, e brutalizza il suo "loco spartano" per festeggiare di volta in volta la presa di Macallè, di Tacazzè, Adigrat, Amba Alagi, Amba Aradam, Axum. La vedova Sucato lo turba con le sue corporali astuzie. E la solidarietà sordida della cugina Marietta, una fidanzata di guerra, lo porta al delirio ferino dei sensi e alla consumazione del gaudio misterioso del sesso. Vari teatri in un sol teatro spiega la mascherata pubblica organizzata con i balilla e le piccole italiane, per festeggiare la presa di Macallè; e onorare i caduti in guerra. Una rumorata eroica. Ovvero "una minchiata solenne", nelle parole di Cucurullo che nella battaglia aveva perso il figlio Balduzzo (segretamente fidanzatosi con Marietta). Una monumentale cialtroneria, "una vigliaccata", nel commento del sarto comunista Maraventano subito arrestato. Fu quella stessa sera della rappresentazione che Michilino, risentitosi, maturò l'idea di vendicare la sua fede in Cristo e in Mussolini, e di giustiziare il coetaneo figlio del sarto: "Un comunista non è un omo, ma un armalo e perciò se s'ammazza non si fa piccato". Quella di Michilino è un'infanzia sabotata. La sua innocenza è stata adescata, profanata, manomessa e seviziata. Corrotta e depravata. Fino al fanatismo, che confonde cielo e terra, fede politica e fede religiosa, e arma la mano. Michilino è arrivato al punto di non ritorno di un terrorista. Soldato irregolare di una fantomatica milizia, del Duce e di Cristo, si trasforma in pluriomicida. In castigatore, e vendicatore-suicida. "La presa di Macallè" è un romanzo paradossale che intenzionalmente trasmoda nel troppo, ed eccede ogni misura, a partire della promozione a protagonista di un "angilu minchiutu" di sei anni. Una parabola grottesca, che va fabulando la tragicità e la normalità abnorme della violenza. Una "istoria" infine, di dolente tenerezza per una infanzia tradita.- Il giro di boa - Sellerio Editore - Palermo - Euro 10,00 - 269 pp
L'inchiesta più dura del commissario Montalbano comincia con un cadavere pescato per caso in alto mare, un corpo con i polsi e le caviglie profondamente incisi e mezzo decomposto. L'incrocia Montalbano mentre nuota al limite dello stordimento per lavarsi di dosso una notte di cattivi pensieri e malumori. I fatti politici, certi eventi di repressione poliziesca, l'atteggiamento verso gli immigrati: tutto cospira a farlo sentire isolato, forse superato dai tempi, e il cadavere anonimo, destinato com'è a restare senza pace di giustizia, archiviato dal banale caso di clandestino annegato, gli sembra armonizzarsi macabramente col suo senso di solitudine. Per il commissario è una sfida, che lo scuote dal proposito di dimettersi, e lo spinge per la rischiosa strada di un'inchiesta doppia, su delitti apparentemente indipendenti e accumunati solo dall'infame ferocia che lasciano immaginare. Due casi da "convergenze parallele", li definirà: due linee che pure destinate a ritrovarsi in un punto, si rifiutano di farlo. Qualcosa di enigmatico, di inquietante, di resistente, impedisce agli indizi di sistemarsi nel puzzle, lasciando i due casi, appunto, paralleli. La verità che aspetta, alla fine, il commissario, sarà di quelle di inaccetabile orrore, che cambiano per sempre una persona. Anche uno come il commissario Montalbano. Più che scrivere storie, Camilleri inventa personaggi e poi li fà recitare fra le quinte di un teatro di cui è lui il regista. E noi assistiamo alla commedia, divertiti, fino a che il crescendo di drammaticità non diventa incalzante e la nostra immaginazione, appena prima distratta dalla commedia, si trova di colpo a dipendere dalla geometria del meccanismo poliziesco, del thriller: perchè ci sciolga dalla prigione di tensione che le è cresciuta intorno.- La paura di Montalbano - Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.- Milano - Euro 15,80 - 322 pp
Il commissario Montalbano, è stato detto più volte, è un personaggio che cresce, che si modifica di avventura in avventura. E diventa, a seconda dei casi, più saggio o più ribelle, più duro o più sensibile al dolore del mondo. Come capita ad ognuno di noi quando i fatti della vita ci cambiano, perchè non svivolano addosso ma entrano dentro. E' assolutamente normale, quindi, che Montalbano possa avere paura. La paura, anzi è reazione addirittura prevedibile per un eroe che ha costruito la sua simpatia sulla normalità più assoluta, fatta dell'istinto che spesso prevale sulla ragione, della meteoropatia che, se una mattina gli provoca un "umore nivuro", all'ora del pranzo è pronta a sciogliersi nella "concentrazione da bramino indù" con cui il commissario affronta un piatto di triglie fritte. E' proprio questa normalità che rende Montalbano un personaggio così amato dai lettori, soprattutto quando si incarna nelle sciarre com Mimì Augello, nelle azzuffatine con Livia, nelle uscite dai gangheri con Catarella. E a proposito di Catarella, si può affermare che più di una volta, nei tre racconti brevi e nei tre racconti lunghi, quasi tre rapidi romanzi che costituiscono questo libro, il buffo poliziotto avanza sulla via di un'irresistibile ascesa, tanto che Montalbano arriva a sognarselo e a condividere con lui i quattro segreti di un caso assai allarmante. I fan del telefonista del commissariato di Vigata, i cultori delle sue lievi anomalie lessicali sono avvisati. C'è un legame, però, una speciale tonalità che unisce e tende la scrittura di tutte queste storie, oltre al cemento a presa sempre pià rapida e sicura costituito dall'inconfondibile stile del commissario e dagli ormai imprenscindibili tratti del suo mondo; è una certa trattenuta commozione che vibra sotto pelle lungo questi racconti ed i loro personaggi, mettendo spesso i brividi a noi che leggiamo. La figura del commissario Verruso, formale, pignolo, apparentemente una specie di antimontalbano, eppure grandioso nella dignità con cui custodisce un suo tremendo segreto, o l'immagine della signora Giulia Dalbono che, in una sorta di assurdo paradosso, non riesce più ad aprire gli occhi dopo un incidente che invece avrebbe dovuto spalancarglieli per sempre, non si dimenticano. Come non si dimenticano gli sguardi selvatici della picciotta Grazia Giangrasso di "Ferito a morte" e le due vecchie signore di "Meglio lo scuro" nelle quali Montalbano si imbatte indagando su un fatto inquietante avvenuto cinquant'anni prima. Perché forse il delitto nato dall'offesa ripetuta, dalla dignità umiliata, dal rancore cresciuto nel tempo è più frequente, nell'intera epopea di Montalbano, che non il gesto violento provocato dall'impulso cieco, dalla rabbia di un attimo. Come se anche nel delitto i personaggi di Camilleri rimuginassero un'ossessione, un rovello antico, come se il gesto criminale che pretende di recidere un groviglio altro non sia che la forma di un tormento che riguarda tutti.- Il re di Girgenti - Sellerio Editore - Palermo - Lit. 22.000 - 448 pp
Il cielo è tutto un presagio. E la terra un prodigio. In questo romanzo di Camilleri, che un'escursione compie nel mondo della fantasia. Tra dolenti tenerezze e corrotti desideri. Tra sconquassi e magici incanti. Tra asprezze di vita e corrotti desideri. A discrezione di fortuna. E sempre sul filo del divertimento, come in un gioco di teatro. Anche quando il mondo è posto in maligno; ed è flagellato da siccità, carestia, peste e terremoto. Gran fatti, e portentosi, accadono in Sicilia. Sullo scorcio del Seicento. E agli inizi del Settecento. Eventi fuori del comune. Che la narrazione di Camilleri insegue, nei loro lunghi avvolgimenti. E la scrittura rende spettacolari: ora incline al grottesco, ora al visionario; dispiegandosi tra le miserie guittesche di Collot ed i capricci di Goya; tra la sensualità dei mistici del Siglo de Oro e la ferinità degli istinti. E' una storia, "Il re di Girgenti". ma anche un "cunto". E un "récit-poème", con il suo vibrato poetico. E' la biografia fantastica, infine, di un capopopolo: del contadino Zosimo, che nel 1718 divenne re di Girgenti; e prima di essere tradito da un giuda gentiluomo, e finire sulla forca, riuscì a regalare un sogno di dignità ai suoi affamati e scalcagnati sudditi. Un sogno: che è il picco più avventuroso e rivoluzionario della fantasia. "Come fu che Zosimo venne concepito". Comincia con questo titolo la prima parte della biografia di Zosimo. Con un attacco che finge di essere cronachistico. Per adeguarsi a un modello da indovinare, o da inventarsi. Per tornare ai tanti "come fu", che scandiscono la "Cronica" detta di Anonimo romano del Trecento, ma di fatto scritta da Bartolomeo di Iacovo da Valmontone. Un capolavoro, che del tribuno del popolo Cola di Rienzo racconta il sogno di una restaurata grandezza repubblicana; e la morte straziata. E neppure si ricorderebbe la "Cronica", qui, se non fosse per la qualità delle due opere; e per quella solidarietà di scrittura, che il dialetto di Camilleri rende tanto necessario e naturale, quanto il romanesco del cosidetto Anonimo. Tutto un popolo di figure deliziosamente assurde, strambe, o lepide, si muove nel gran teatro del romanzo. A partire dal valletto Cocò, con le sue effimenate cacherie. Fino al mago Apparenzio. A don Aneto, che fa l'amore con gli afrori. E allo spiritato padre Uhù, che con il diavolone Zaleos dialoga, uscito fuori dalle acque a cavallo di un coccodrillo; e con i diavolacci tutti contrasta, dopo avere scoperto il proprio potere, affrontando un esercito di morchiose e indemoniate lumache. Conta anche la cornice, in questo romanzo. Che l'accordo con la morte, e con la sua qualità indolore, mette in scena. Nell'antefatto secentesco. Con il futuro padre di Zosimo, Gisuè, che suo malgrado salva dalla morte un principe suicida; e lo stesso principe poi aiuta a suicidarsi. E con il finale precipizio della vita di Zosimo. Il re contadino sale i sei gradini del patibolo. E si trova faccia a faccia con i fantasmi della propria vita. Procede a tappe, verso la sommità. Sono attimi intensi, che contano quanto le sei giornate della creazione. O meglio, della ricreazione della vita nella morte. Zosimo muore, sollevato dal fantastico aquilone che lui stesso ha costruito e liberato nel venticello del mattino. "Quale occhio può vedere se stesso?", si chiedeva Stendhal. Un condannato a morte non può vedersi morto. Eppure Zosimo apre, ancora una volta come in un gioco di teatro, e con gioia infantile, la sua ultima scena. Si tiene allo spago dell'aquilone. E guarda giù, nella piazza. Vede un palco. E vede un corpo inerte, che penzola dalla forca. Ride. E' l'ultima rivincita della fantasia.- L'odore della notte - Sellerio Editore - Palermo - Lit. 18.000 - 221 pp
"Ha detto l'odore della notte?". "Si, a seconda dell'ora la notte cangia odore". A Vigàta è tornato l'inverno. Mimì Augello, il braccio destro, forse ha ceduto e sta per sposarsi. L'ultimo regalo di Livia, un pullover mai indossato da Montalbano per sbadataggine (o per rimozione, come dice Livia?) ha sciupato, inoccultabile corpo del reato di distrazione amorosa, scompare e ricompare, come sirena che canta le gioie della famiglia. E il commisario non è più un ragazzino. Lo si avverte perchè i segni lasciati da tutte le inchieste passate - e prima di tutto il povero "grande ulivo saraceno" che tante volte lo ha ispirato - riaffiorano qui e là, con i colori della nostalgia, a ogni passo di quest'ultimo caso. Un caso anomalo in cui il cadavere non spunta all'inizio, e Montalbano non ne è proprio il titolare, ma vi si intrufola. Troppe coincidenze lo spingono. Scava nella scomparsa di un finanziere truffatore, che si è portato via i soldi di mezzo paese e dintorni, e poi del suo aiutante (due "teste parziali", di quelli che sanno tutto di denaro e non sanno niente altro e niente altro sentono). E la soluzione sarebbe una fuga banale, col malloppo sottratto ai molti polli dell'epoca della borsa, connessa a un omicidio, se assai più carica di dolente orrore non si profilasse una soluzione laterale. Sull'enigma della quale Montalbano si sporge a vedere, con la pietà che si prova verso il dramma silenzioso di certe esistenze, mentre uno strano odore "di frutta marcia, di cose che si disfacevano", per qualche tempo, ne aveva sparso come la profezia nella notte di Vigàta. "E allora sentì che la notte aveva cangiato odore: era un odore leggero, fresco, era odore d'erba giovane, di citronella, di mentuccia".
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