Auguste Escoffier
DA IL LIBRO DEI MENÙ
A cura di Massimo Alberini
Serra e Riva Editori
Georges Auguste Escoffier nacque a Villeneuve Lou-bet il 28 ottobre
1846, e morì nella sua villa di Monte Carlo il 12 febbraio 1935,
alla veneranda età di 93 anni. Per bravura personale, ma soprattutto
per-ché favorito dalla fortuna e dalle circostanze, fu il cuoco-simbolo
e il riformatore delle ristorazione, in quel particolare periodo, così
favorevole alla vita mondana e al turismo, che va sotto il nome di Belle
Epoque.
In termini etnografici, lo si potrebbe considerare un ligure. A 15
chilometri da Nizza, nella vallata del Loup, un torrentello quasi sempre
in secca, Villeneu-ve Loubet, oggi ampliatasi con il rione sulla spiaggia,
si trovava, quando Escoffier nacque, a pochi passi dal confine con la contea
di Nizza, allora sabauda, e orgogliosa del blasone di Nicea ftdelis (al
Regno Sar-do) che contraddistingueva anche l'omonimo reggi-mento di cavalleria.
Diciamo subito che Escoffier non venne mai condizionato da questa sua origine:
non ne fa cenno nei suoi scritti - si vedano i suoi testi, in quest'opera
- e non ha trovato opportuno inserire, ffra le circa 260 salse codificate
nel Guide culinaire, il pesto o, alla nizzarda, il « pistou »
della sua terra. Va detto, per scagionarlo, se ce ne fosse bisogno, che
la clientela di allora ignorava completa-mente le cucine regionali, confinate
ad alimentazione per gli indigeni.
Auguste nacque in quella che allora si chiamava una famiglia modesta,
ma non povera. Il padre era fabbro e maniscalco del villaggio. La sua casa
esiste ancora e, per merito della Fondation Escoffier, un'or-ganizzazione
privata, accoglie molte memorie del mae-stro, dei suoi discepoli, ed è
un piccolo ma vivace museo della cucina francese. Fino a tredici anni,
il ragazzo frequentò la scuola comunale. Riusciva be-ne, soprattutto
in disegno, e avrebbe voluto conti-nuare gli studi, scendendo nel capoluogo.
Forse il padre lo avrebbe assecondato, anche perché, da un figlioletto
di bassa statura e di membra fragili, era assurdo pensare di tirar fuori
un èrcole capace di forgiare, a martellate, un ferro di cavallo
sulPincu-dine. Ma soldi per quel « lusso » non ce n'erano.
Così Auguste fu mandato a Nizza, dallo zio, pro-prietario di una
modesta trattoria, orgogliosamente indicata come Restaurant Francis. Una
scelta im-posta dalle circostanze, ma che determinò l'indirizzo
di tutta la vita del futuro maestro.
Cosa logica, al Frangais Escoffier faceva un po' di tutto, dal lavapiatti
all'aiuto del cuoco. In più, ac-compagnava lo zio a far la spesa
al mercato di corso Saleya. Era volonteroso, attento, imparava volentieri.
Logicamente, cercava di migliorare: così, nel 1862, salutò
lo zio, passando, come cuoco, all'Hotel Belle-vue di Nizza. Dopo il prebiscito
e il « rattachement » alla Fran-cia, Nizza viveva una grande
stagione; ai russi - i granduchi - che, per primi, avevano determinato
la costruzione dei « palaces » nella zona cittadina della Croce
di Marmo, si erano aggiunti gli inglesi e, ele-menti di primo piano per
le pubbliche relazioni, co-me le chiameremmo oggi, gli artisti e gli scrittori
francesi, calati da Parigi, nel nuovo dipartimento che stava per ricevere,
da uno di loro, il giornalista Alphonse Karr, il nome non ufficiale di
Costa Az-zurra. L'hòtellerie non era certo all'altezza dei nuovi
compiti: ma richiedeva mano d'opera, e offriva buo-ne possibilità.
Quasi certamente Escoffier sarebbe ri-masto uno dei tanti chef specializzati
in lavoro stagionale - si andava sulla Costa solo d'inverno -se, nel 1865,
non fosse stato scoperto da monsieur Bardoux, patron del Petit Moulin Rouge
di Parigi, che lo assunse e lo fece emigrare nella capitale.Anche Parigi
era in pieno fervore artistico e mon-dano. Alphonse Allais, un umorista
allora celebre, scriveva: «Come sono tristi gli alberi della campa-gna!
Invidiano i loro confratelli che possono godersi i boulevard ». I
ristoranti, alcuni già famosi da de-cenni - le Frérès
Provengaux, le Café Riche, le Café de Paris, il Voisin, Paillard:
insegne che, in parte, avrebbero tenuto a battesimo dei piatti potevano
contare su una clientela danarosa e fedele. Anche il Petit Moulin Rouge,
in Avenue d'Antin, godeva di buona fama, grazie al signor Bardoux e allo
chef, Ulysse Rohan. Che era, come volevano le regole di allora, enorme,
manesco e violento, capace di spac-care in due una costata intera con un
colpo di man-naia e convinto dell'efficacia didattica, quando si do-veva
istruire un commis, dei calci nel sedere. Gen-tile, tranquillo, sensibile,
Escoffier soffrì molto: ma imparò, e lo riconobbe, quando
gli accadde di ri-cordare quei giorni. E avrebbe continuato il tran tran
davanti allo spiedo e ai fornelli, se Napoleone III non avesse deciso di
gettare la nazione allo sbaraglio, mandando i suoi sudditi, con la palandrana
az-zurra e i pantaloni rossi, contro le divisioni di von Moltke. Il giovane
Escoffier dovette fare come gli altri e raggiungere, nel luglio del 1870,
abbandonan-do il suo posto di saucier, i commilitoni del 28° fanteria.
Il colonnello d'Andlau era un valoroso coman-dante e un uomo di buon
senso. Capì subito che quel fantaccino quasi più piccolo
del suo fucile avreb-be reso meglio ai fornelli che in pattuglia o come
« sentinella morta ». Lo passò quindi alla mensa uffi-ciali
di Metz, poi se lo portò dietro quando, dopo il disastro di Sedan,
fece parte della commissione di ar-mistizio, a Wiesbaden, dove sia il nemico
che il gene-rale Mac Mahon poterono apprezzare la bravura di un cuoco che
riusciva, con il « pane di munizione » e del cognac, a mettere
in tavola il coniglio alla Gra-velotte (nome di un villaggio e di una sconfitta
fran-cese). Era, sia pure in forma molto accettabile, una specie di prigionia:
comunque, durò poco. Il 16 mar-zo 1871 Escoffier era di nuovo a
Parigi, in attesa di tornare borghese.
Gran brutti giorni: la città, in mano ai comunardi, che avevano
dato fuoco alle Tuileries e abbattuto la colonna di Piace Venderne, era
in piena guerra civile. Meglio, per Escoffier, restarsene tranquillo, e
far da mangiare a casa del conte di Waldner, colon-nello comandante di
un altro reggimento, il 17° di linea. Per fortuna, anche le esperienze
peggiori hanno fine: smobilitato, Escoffier riprese i contatti col suo
mondo, e, nell'ottobre del 1872, è primo chef al-PHòtel du
Luxembourg di Nizza. La vita riprende.E sono la vita e la carriera di un
ottimo elemento, stimato nell'ambiente, noto per l'impegno e la bra-vura.
La cronaca degli spostamenti e gli attestati (an-zi, i « benserviti
», come si chiamavano allora) di cui resta documentazione, ha scritto,
anni addietro, Victor Romano (rivista « Cocktail », luglio
1966) nel-l'archivio di villa Fernand di Monte Carlo, lo testi-moniano.
Nell'aprile del 1873 ritorna, questa volta come primo chef, al Petit Moulin
Rouge di Parigi, dove ha per cliente il grande Gambetta, capace di cenare
con tre pernici e quattro gelati; nel 1878 è alla Maison Chevet,
al Palais Royal, cliente « di ri-guardo » l'anziana - è
nata nel 1804 - George Sand. L'anno dopo, sempre a Parigi, è al
Faisan Dorè, va a dare un'occhiata sulla sua Costa Azzurra, dove
« fir-ma » come chef al prestigioso Hotel de Paris, realiz-zato
da Blanc, il vero creatore di Monte Carlo. An-cora, nel 1882, un ritorno
a Parigi, per partecipare alla esposizione d'arte gastronomica organizzata
dallo Skating Club è arrivata la moda dei pattini a ro-telle -
e per collaborare alla neonata rivista « L'Art Culinaire ».
Un curriculum di tutto rispetto, ma che avrebbe assegnato, tutt'al più,
al nostro un « ruolo » analogo a quello di suoi maestri come
Urban Dubois o Jules Gouffé, se, nel 1883, tramite il collega e
amico Jean Giroix, Escoffier non avesse preso con-tatto con l'uomo che
avrebbe fatto di lui il maestro « assoluto » della loro epoca,
e cioè Cesare Ritz.
Anche Ritz veniva, come si usa dire, dalla gavetta. Svizzero di Niederwald,
nel Vallese, dove era nato il 23 febbraio 1850: padre agricoltore e sindaco
del villaggio, dodici figli, tutti contadini, meno Cesare, mandato, a quattordici
anni, a fare il camerieretto all'Hotel Corona & Posta di Briga (e il
padrone lo aveva cacciato via, pronosticando « non è un mestie-re
per te »). Deciso a continuare, Cesare, a diciassette anni, va a
Parigi, comincia addirittura in un bistrò frequentato da operai,
poi sale lentamente la china dei « posti » migliori, e la guerra
del Settanta lo trova da Voisin, il ristorante famoso, dov'è commis
in tablier, il grembiulone bianco, a tubo, lungo fino ai piedi, che caratterizza
i camerieri di seconda ca-tegoria, in alberghi e ristoranti. Guerra e rivoluzione
lo obbligano a tornare in Svizzera: ma nel 1872 è nuovamente a Parigi,
maìtre, allo Splendid, e il pa-drone lo ammira per l'abilità
con cui riesce a far fuori una partita di Chàteau Laffitte che ha
quasi ol-trepassato i limiti dell'invecchiamento. La carriera continua:
e la buona occasione per diventar famoso - e conteso nel suo mondo arriva
sul finire del settembre del 1874, quando Ritz è vicedirettore di
un nuovo albergo di lusso sulla Jungfrau, il Rigi Khulm, il palace in cui
Daudet ambienterà gran parte del Tartarin sur les Alpes. È
l'episodio che entra nel-la storia alberghiera come « la notte dei
mattoni ». La stagione estiva sta per finire, la temperatura scende
ormai sotto allo zero. L'hotel è vuoto, quando arriva un messaggio
dall'agenzia Cook: una comitiva di quaranta americani, già partita,
arriverà per la cena e il pernottamento. Ci si prepara a riceverli
e, d'improvviso, la disperazione: il nuovo impianto di riscaldamento è
saltato, impossibile ripararlo fino al giorno dopo. Weber, il direttore,
perde la testa, si chiude in camera: Ritz prende in mano la situazione.
Anzitutto, c'è, a breve distanza, un deposito di ma-teriali da costruzione:
lui compera tutti i mattoni disponibili, li porta in albergo, facendoli
arroventare nei forni della cucina e su fuochi all'aperto. Chiude l'enorme
sala da pranzo, tappezza di coperte, arazzi e tappeti la saletta di lettura,
cambia il menù, arric-chendolo di piatti flambées, e prepara,
come bevanda del benvenuto, un grande punch, da servirsi bollente. Quando
gli americani arrivano, ci sono dappertutto fioriere di metallo con piramidi
di mattoni arroven-tati, la cena finisce con tre « giri » di
cognac offerto dalla direzione e tutti vanno a letto belli sbronzi, e senza
sentire il freddo.
E la carriera continua, favorendo il giovane diret-tore, di cui quasi
tutti i padroni accettano le nuove idee. Così, al Victoria di Sanremo,
egli toglie i tradi-zionali tendaggi di velluto, sostituendoli con veli
leg-geri, fa installare nelle camere catini più grandi, inizia quella
battaglia per l'igiene che condurrà avanti per decenni, fino a raggiungere,
ma solo nel 1889, al Savoy di Londra, « quasi » un bagno con
acqua cor-rente per ogni camera. Non ce ne rendiamo conto: ma, ancora un
secolo fa, il principe di Galles confi-dava a Ritz che, nei giorni di scirocco,
Buckingham Palace era invaso dal cattivo odore delle fogne. E quando, in
albergo, sua altezza reale aveva voglia di fare un bagno, gli portavano
in camera la vasca - di rame, ben lucidata - e dei secchi di acqua calda.
An-che Ritz ha avuto il suo padrone « illuminato » : un colonnello
svizzero, già al servizio prima dell'arrivo di Garibbaldo, del re
di Napoli, e dedicatosi poi al-l'organizzazione alberghiera: Hans Pfyffer.
Grazie al colonnello, Ritz è nominato direttore del Grand Na-tional
di Lucerna, forse il miglior albergo d'Europa, in assoluto, di quegli anni.
Clientela eccellente, possibilità di far le cose « in
grande ». Il soprano Nordica arriva sul lago in pal-lone. Il conte
di Trapani, un Borbone in esilio, per la festa di nozze pretende che si
ricostruisca, in giar-dino, un angolo della sua cara Napoli. Fra i «
fedeli », una contessa di Mirafiori, discendente della Bela Ro-sin.
Ritz cerca di accontentare tutti, pur restando fedele a certe sue regole
fondamentali: mai signore sole a un tavolo del ristorante. E questo valeva
anche per Lyane de Pougy, la più agguerrita concorrente, in diamanti
e clientela, della Bella Otero. Punto debole, le cucine. In proposito,
Ritz - c'è una sua regola fondamentale, sempre valida: «il
cliente deve mangiare sempre bene, ma, in modo par-ticolare, il giorno
dell'arrivo e quello della partenza »
- aveva un programma. Gli occorreva chi sapesse realizzarlo. Da ciò,
l'incontro e la collaborazione, durata sino alla fine dell'attività
alberghiera di Ritz, con
Auguste Escoffier. Non sapremo mai quale sia stato l'apporto dato alla
riforma da ognuno dei due protagonisti, dotati entrambi di personalità
ben definita. Non lo hanno scritto, e la stessa Marie Ritz, la moglie,
nell'ampia biografia dedicata a lui, è poco precisa, preferisce
- cosa logica: era un'eccellente collaboratrice, in questo settore
- insistere sulle novità dell'arrredamento, la luce elettrica, le
coppe di alabastro per illumina zione indiretta (cancella gran parte delle
rughe delle vecchie clienti), la sostituzione dell'enorme «impianto
» della table d'hóte con i tavolinetti da pochi co-
perti. Quasi certamente, quelle che sarebbero state le basi del nuovo
corso furono elaborate e discusse fra Ritz ed Escoffier, durante i colloqui
del mattino, gli incontri fra direttore e chef, da cui nasce, oggi come
allora, l'immagine di una « casa ». Una collaborazione resa
facile dal carattere accomodante di
Escoffier - lo sappiamo dalle conversazioni con chi lo conobbe, Carnacina
ed Eliseo Salice - e, si veda quanto lo chef scrive nelle pagine che seguono,
dalla comprensione delle esigenze della « sala », accettate,
si direbbe, quasi passivamente. Fu un lavoro di équipe, e durò
a lungo: a Monte Carlo, a Roma - nel 1894, per l'inaugurazione del Grand
Hotel, buffet per mille persone - ma, soprat-tutto, a Londra, dove due
« case », una ancora esi-stente, benché, da poco, abbia
ridotto fortemente il numero delle camere, il Savoy, l'altra ormai scom-parsa,
il Carlton, furono i punti di forza dell'attività Escoffier. A questi,
nel 1898, si allineò il Ritz di Parigi, il grande albergo che perpetua,
più di ogni altro, il ricordo del fondatore, anche se, c'è
da scom-metterlo, quasi nessun cliente ricollega l'insegna con il nome
del « grande » Cesare. Ritz conobbe il successo totale (il
principe di Galles, il futuro Edoardo VII, diceva: « Io vado solo
negli alberghi di Ritz») nella professione, ma non ebbe fortuna come
uomo. Nel 1902, men-tre ancora si occupava della messa a punto del Grand
Hotel delle Terme di Salsomaggiore - le enor-mi, sontuose sale, oggi sede
di congressi, testimoniano il suo passaggio - si ammalò, e non riuscì
mai più a recuperare la salute. Fra casa e cliniche, tirò
avanti, dapprima ancora seguendo a distanza i suoi alberghi, poi affidando
tutto alla moglie e ai funzionari della Ritz Ltd., per ben sedici anni,
morendo in una cli-nica svizzera, il 26 ottobre 1918, pochi giorni prima
della fine della guerra mondiale che aveva trasfor-mato alcuni dei suoi
palaces in convalescenziari. Suo figlio Charles rimase nell'azienda: nel
1968 era an-cora presidente della società del Ritz di Parigi. Escoffier
concluse la prima parte della sua attività al Carlton di Londra:
vi rimase, salvo un breve « im-barco», nel 1912, sull'7m perator,
un transatlantico delPHamburg Amerika Line che lo aveva assunto come consulente,
fino all'inizio del 1919, quando or-ganizzò, per il presidente Poincaré
in visita ufficiale a Londra, il banchetto della vittoria. Pochi mesi dopo,
prese alloggio a villa Fernand, a Monte Carlo, unico « capitale »,
assieme alla pensione conferitagli motu proprio dal consiglio di amministrazione
del Carlton, rimastogli dopo una attività così lunga.
Aveva 73 anni e, fragile e minuto come appariva, era in ottima salute.
Madame Giroix, vedova del-l'amico che lo aveva presentato a Ritz, dirigeva
allora l'Hotel Mirabeau di Parigi e PHermitage di Monte Carlo. Chiese aiuto
a Escoffier, che iniziò così, con lei e con altri, quasi
sempre ex collaboratori saliti in alto, una consulenza libera, che lo teneva
a contatto con il suo mondo. Fu allora che il giovane Luigi Carna-cina,
chef de rang al Ciro's di Monte Carlo, lo co-nobbe, e fu da lui notato.
« Monsieur Escoffier » ha scritto Carnacina, in un suo troppo
succinto e troppo dimenticato libro di memorie, A la carte, « sedeva
a un tavolo che il direttore gli offriva, solo e pensie-roso, ordinava
la colazione, e osservava minuziosa-mente, con l'occhio del competente,
il personale di servizio, nei movimenti, nel tratto, nella parola, senza
mai parlare né azzardare giudizi ». Un ritratto che conferma
le impressioni suscitate da quanto il mae-stro scrive. Dopo quel tacito
esame, Carnacina fu chiamato al tavolo («non era del mio rango»)
e si sentì offrire il posto di direttore di ristorante al Re-staurant
de POcean di Ostenda.
Georges Auguste Escoffier morì a 93 anni, lo ab-biamo detto,
nella sua casa di Monte Carlo, il 12 feb-braio 1935, pochi giorni dopo
la scomparsa della moglie. La notizia passò sotto silenzio, non
solo da noi, dove ben pochi conoscevano il suo nome (e nei giornali dominavano
le notizie sullo scontro di Ual-Ual, in Somalia, preludio alla guerra d'Etiopia),
ma anche in Francia, a parte i giornali della Costa Az-zurra, fu la stampa
professionale a dare rilievo ai ne-crologi. Fu sepolto a Villeneuve Loubet,
dove, l'anno dopo, fu eretto un piccolo monumento, sempre in loco: unico
esempio di ricordo marmoreo, e pub-blico, dedicato a un cuoco. Per rendersi
conto dei motivi che spingono, ancora oggi, tanti esperti del settore e
studiosi del costume a interessarsi della ormai lontana attività
di questo premessa all'edizione italiana «piccolo cuoco», bisogna
considerare la sua opera su due piani ben distinti: quello della competenza
professionale vera e propria, e l'altro, di più difficile attribuzione
- lo si è detto - in materia di qquella riforma del lavoro in cucina,
di cui egli fu l'espo-nente maggiore e, in un certo s.enso, il simbolo.
Escoffier, vale ripeterlo, si trovò a operare in un ambiente
molto favorevole per un cuoco al servizio del pubblico. Anche a tavola,
la divisione fra le classi sociali era, allora, ben più definita
e ingiusta di quan-to non lo sia oggi. Iniziata oltre un secolo prima,
la rivoluzione industriale aveva portato in città grandi masse di
contadini, trasformati in operai, che trova-vano difficile inserirsi nel
nuovo ambiente, anche per quanto riguardava il mangiare. Studi sociali
e lette-ratura populista, da Zola alla nostra casalinga ma attendibile
Matilde Serao (il suo Paese della cucca-gna è documento del massimo
interesse) testimonia-no l'importanza dell'osteria - per il vino - e dei
ven-ditori di cibi già pronti, dai polentatt milanesi ai piz-zaioli
napoletani, sul tenore di vita di famiglia dove - era il cruccio di quanti
nutrivano « buoni senti-menti » - gli orari di lavoro in fabbrica
impedivano di accendere il fuoco durante la settimana. Escoffier (non facciamogliene
una colpa: il suo mondo era un altro) non si interessava né di questo,
né, in forma concreta - il suo testo minore Ma cuisine è
un ten-tativo fallito di ricettario per la massaia - dell'altra grande
« fascia sociale », il ceto medio, fedele al bol-lito misto
domenicale e, da noi, al risotto del Nord e ai maccheroni del Sud.
Il « gruppo di consumo » che richiedeva, allora molto più
di oggi, impegno di una nascente attrez-zatura turistica, era formato da
quanti, per censo e nome, potevano permettersi di uscire, dopo secoli di
splendido isolamento, dai loro castelli e palazzi, per trovarsi, fra loro,
nelle nuove residenze, i grandi al-berghi, costruiti e gestiti in modo
da continuare, nei « posti » scelti dalla moda, uno stile di
vita quasi identico a quello rispettato negli hótels particuliers.
C'erano stati i « bei nomi » che avevano aperto la strada:
l'imperatrice Alessandra di Russia e Lord Brougham, l'inventore di Cannes,
i lord inglesi ap-passionati di alpinismo, gli amanti folli De Musset e
Sand pronti a scoprire il fascino decadente della gon-dola. A centinaia,
altri li avevano seguiti. Fra i primi, i boiardi russi, ricchissimi, molto
spesso violenti e volgari. Un certo Hugo, già mai tre di Maxim's,
ha raccontato, nelle sue memorie, che un granduca si di-vertiva a gettare
a terra, nell'omnibus del ristorante parigino, manciate di monete d'oro,
dette allora, an-che ai tavoli da gioco, luigi, invitando poi i came-rieri
ad accapigliarsi per contendersele. Un altro, brasiliano, faceva aggiungere
delle gocce di essenza di violetta allo champagne. Una clientela egualmente
rozza in materia di ga-stronomia: legata ancora ai privilegi di caccia
e pesca che indirizzavano le preferenze unicamente su qual-che tipo di
« preda », dai fagiani agli storioni, o verso altri cibi rarissimi,
un tempo, per colpa delle distanze dei castelli dal mare e ancora riservati
ai ric-chi, quali le sogliole, l'aragosta, le ostriche. I cuochi, anche
i più bravi, erano condizionati da questo « ca-talogo »
: si veda con quanta intelligenza Escoffier ri-conosce la monotonia dei
menù da lui proposti. Per ottenere risultati migliori, e invogliare
i clienti, c'era una sola via d'uscita: il fasto dapprima, la fantasia
poi. Ed ecco gli enormi « piatti montati » di Gouffé
e Urban Dubois, così come li mostrano le 62 tavole della Cuisine
classique, ed ecco perché, eliminati gran parte di quegli orpelli
inutili e spesso anti igienici, Escoffier deve darsi da fare per trovare
nuove formule che gli consentano di mettere in lista « nomi »
nuovi, quasi sempre riservati a modeste varianti sul tema: ecco il motivo
per il quale, nel Guide culi-narie, ci sono 66 ricette di sogliole, più
quelle dei filetti dello stesso pesce, e 52 preparazioni di fagiano. Risorsa
indispensabile, per quelle varianti, le salse, articolate fra fondi, essenze,
salse di base - per lui: « madri » per altri - e derivate.
Nel Guide egli pro-clama, pienamente convinto: « Le salse rappresenta-no
la parte capitale della cucina. Sono loro che hanno creato e mantengono
la preponderanza universale del-la cucina francese ».
La grande cuisine, sia pure alleggerita, non basta: bisogna andare
incontro anche ai gusti e alle tradi-zioni dei clienti stranieri. Escoffier
studia e codifica ricette britanniche, a cominciare dalle salse, prepa-razioni
russe, spagnole, medio orientali e persine in-diane, richieste dai funzionar!
dell'Impero, che dopo essersi rovinati il fegato con il troppo whisky -
ma bevuto solo dopo il tramonto, quando si sostituisce la divisa con il
dinner jacket - a Nuova Delhi e a Simla, sentono ancora la nostalgia del
curry e dei pilaff speziati. Questa antologia viene definita con un nome
che Escoffier non userà mai: cucina interna-zionale. Uria voce destinata,
per colpa dei cattivi imi-tatori e del ritorno ai « piatti genuini
», ad assumere un significato dispregiativo. Ne abbiamo fatto cenno:
in questa opera di ricer-ca, selezione e codificazione, Escoffier dimentica
la sua terra, e tiene ben poco conto anche dell'Italia, simbolo, nei suoi
giorni, di paese poco civile, dove ci si nutre con maccheroni, minestre
di riso e, come ha scritto un visitatore inglese di Nizza sabauda, «
di una purea di mais chiamata polenta ». Gli strafalcioni di Escoffier,
in materia di cucina italiana, sono pro-verbiali: per lui il «rizotto
a la milanaise » è il nostro risotto al parmigiano, guarnito,
sul piatto, con salsa di pomodoro, lingua e prosciutto in julienne e sugo
di carne (e senza zafferano).
Anche certi nostri prodotti famosi sembra non lo interessino: nei menù
si propongono spesso prosciutti di York e di Westfalia: mai citato il jambon
de Parme o quello di San Daniele. Per fortuna, sia pure in alternativa
col gruyère, c'è spesso il parmigiano.
Una considerazione fondamentale: Escoffier fu so-prattutto uno chef
di grand hotel, non di ristorante raffinato e di pochi coperti. E resta
legato a un co-stiame pressoché estinto, salvo, come ai suoi giorni,
nelle « case » dove ancora vige la pensione completa tutto
compreso, bevande escluse: quella che, ai suoi giorni, si chiamava la «
table d'hòte » Un documento letterario, un tempo incluso nei
li-bri alla portata di tutti, e oggi quasi dimenticato, te-stimonia, in
modo divertente, come andavano le cose. È la sera del 10 agosto
1880: il sole, velato da una nebbia giallastra, tramonta sulle Alpi. Arrivato
da poco al Grand Hotel Regina Montium sul Rigi Kulm - certo, lo stesso
della « notte dei mattoni » - Tar-tarino di Tarascona scende
a cena. Scrive, lui per primo divertito, Alphonse Daudet, in Tartarin sur
les Alpes: « Seicento coperti intorno a un immenso tavolo a ferro
di cavallo, su cui delle grandi compo-stiere di riso e di prugne cotte
si alternavano in due file, tra le piante verdi, riflettendo nei loro sughi,
violaceo o lattiginoso, il riverbero delle candele e le dorature del soffitto
a cassettoni ». Si desume, da que-sto, che in albergo il servizio
era ancora, in parte, « alla francese », con il dessert - qui
riso zuccherato all'Imperatrice e frutta cotta - già in tavola al
mo-mento dell'arrivo degli ospiti, mentre il resto del menù sarebbe
stato servito « alla russa », e cioè un piatto dopo
l'altro, offerti dai camerieri. Escoffier prevedeva la grande carte: ma
per lui, e il Livre des menus lo dimostra sia nel capitolo appo-sito, sia
in quello dedicato al Carlton, dove si ricon-fermano i princìpi
della «offerta chiusa», la table d'hòte, dove la scelta
è limitata e il servizio, di con-seguenza, più facile, rappresenta
la proposta normale _ e ottimale - per l'albergo. Affiancata da una situa-zione
analoga, anche se obbliga a un lavoro più com-plesso, che è
quella legata alla realizzazione di ban-chetti, réveillons, soupers
de bai e simili: tutti « con-sumi » effettuati, di norma, nel
grand hotel, e non nel ristorante.
Per chi non sa tutto questo, Escoffier può appa-rire, leggendo
il Guide, un superficiale e un facilone: quasi tutte le ricette mancano
di dosi, di esatte indi-cazioni sul « come fare » e sui tempi
di cottura. In certi casi, la modestia del maestro è tale da far
pen-sare all'autolesionismo: la ricetta sua più famosa, quella delle
pesche Melba, è condensata esattamente in 25 parole. Ma bisogna
ricordare che il Guide, con le sue 942 pagine attuali, è stato definito
da Escof-fier, che lo ha firmato con i discepoli Gilbert e Fé tu,
solo un « aide-mémoire de cuisine pratique » : un al-tro
esempio di modestia di quest'uomo che, partendo dai pochi studi al paesello,
si era costituito, scrive Carnacina, una cultura che gli consentiva di
parlare con esattezza « di una mela, un pisello, di qualsiasi qualità
di pesce, di cui conosceva minutamente ogni particolare anatomico, fisiologico,
strutturale e nu-tritivo ».
Ma veniamo al secondo aspetto dell'attività profes-sionale di
Escoffier: la sua riforma del lavoro in cucina.
I criteri fondamentali sono condensati, da lui, nel-la pagina del Livre
des menus sbrigativamente inti-tolata Metodo di suddivisione e avvio del
lavoro di una grande brigata. Convinto di parlare a gente in-formata, egli
non dice cosa sta « a monte » di tutto questo. Accenniamone
alla svelta.
Fino ai suoi giorni, in cucina ogni « lavorante » doveva
saper fare di tutto, spostandosi fra dispensa, fornello e office, iniziando
e finendo la « comanda » da solo. Escoffier - o Ritz? - applicò
anche fra le ber-rette bianche il principio della divisione scientifica
del lavoro, già trionfante in fabbrica, e diede vita a un organigramma,
rimasto, nelle sue grandi linee e quan-do la « casa » se lo
può permettere, invariato. Al vertice, lo chef, l'unico che abbia
diritto a quel titolo: buon organizzatore, in grado di veder tutto, di
con-trollare, pur mettendo molto raramente le mani in pasta. Al centro
della grande cucina del Plaza, a New York, Joseph Trombetti, nato a Bardi,
nel Parmense, oggi si vale anche del computer per selezionare i piatti
« che vanno » nei cinque ristoranti del grande albergo. Accanto
allo chef, i suoi « secondi », qua-si sempre P« entremetier
», uova, soufflés, guarni-zioni, e il « garde manger
», antipasti e piatti freddi. Talvolta sotto-chef, sempre «
creatore » all'apice del-la carriera - è l'ultimo gradino
prima dell'ascesa al soglio supremo - il « saucier », l'unico
che pos-sa parlare ancora di segreti, secondo la regola « si può
chiedere la ricetta di un piatto, mai quella di una salsa ». In secondo
rango, i capi-partita: il pa-sticcere (indispensabile), il « rotisseur
»,il « poisson-nier », il « potager » e altri.
Poi tutta la schiera degli aiuti, dei « commis » e giù
giù fino agli sguatteri. Tutto questo consentiva, e consente, un
lavoro di équipe ben organizzato. Nella sua biografia di Escof-fier,
Eugene Herbodeau da un esempio pratico. Quan-do l'annunziatore - «
abbaiatore », nel gergo di cu-cina chiede, oggi al microfono, «
due uova alla Mayerbeer », sono ben quattro le persone a darsi da
fare: l'entremetier cuoce le uova al burro, il macel-laio taglia il rognoncino
di agnello, lo apre in due e lo porta al rosticcere che lo cuoce alla griglia,
il sau-cier prepara la salsa Périgueux, e tutto vien fatto confluire
alPentremetier che compone il piatto (ro-gnone appoggiato sulle uova, corona
di salsa al tar-tufo) e, in pochi minuti, il cliente è servito,
con « mercé » ben calda e in condizioni ottime.
Reale, tutto questo, oggi? Solo in pochi casi e, ovviamente, negli
alberghi e ristoranti in grado di per-metterselo. Costi di lavoro, difficoltà
di reperire, an-che pagandolo benissimo, personale realmente qua-lificato,
riducono sempre più la possibilità di poter seguire gli insegnamenti
di Escoffier. Si ritorna, come prima che lui si mettesse all'opera, al
cuoco-tutto-fare, favoriti da menù più semplici, regionali,
e, guai però a dirlo, da piatti preconfezionati, fatti arrivare,
alla chetichella, da laboratori gastronomici e persine dall'industria dei
surgelati. Canto del cigno della gran-de brigata sono state le navi di
linea e restano, in parte, quelle per le crociere di lusso. Ciò
non toglie che, soprattutto se si parla di Escoffier, sia doveroso considerare
la sua opera con il rispetto dovuto. Anche per ridimensionare un'altra
figura, quella del cuoco-artista dei giorni nostri, convinto di aver inventato
una nuova cucina, frutto, troppo spesso, di presun-zione e impreparazione.
Una domanda è inevitabile: questo libro, pubbli-cato per la prima
volta nel 1912, va ritenuto an-cora professionalmente valido, o si tratta
solo di un reperto di archeologia gastronomica per bibliofili? La risposta
è data dall'architettura dell'opera, che risulta formata, praticamente,
da due parti ben di-stinte: l'antologia dei menù, e i testi, d'introduzione
e di commento, dell'autore Indubbiamente, il tempo fa sentire il
suo peso su quella che dev'essere considerata la parte essenziale del libro,
Vale a dire i menù che danno il titolo al volume. Escoffier era
convinto di aver sfrondato e ridotto al minimo le liste lasciategli in
eredità dai grandi, da Carème a Urban Dubois: e, probabilmente,
la clientela dei suoi tempi era d'accordo con lui. Ma l'evoluzione del
gusto e i nuovi orientamenti dietetici, che già allora il grande
chef aveva « sentito » nell'aria, ci fanno considerare improponibili,
per troppa abbon-danza, traducibile in calorie e in difficoltà di
dige-stione, anche i suoi menù ridotti al minimo, almeno secondo
i criteri di allora.
Meno lontane dalla realtà d'oggi, quelle che Escof-fier definisce
le « cartes du jour » dei ristoranti, e che i direttori e il
personale chiamano ancora « gran-de carte ». Sono, certamente,
enormi, riuniscono un numero di voci pari a circa il triplo di quelle di
una lista analoga di grande albergo attuale (penso all'Ho-tel de Paris
di Monte Carlo, salone Impero - al grill tutto è più semplice
- o al Connaught di Lon-dra). Ma l'ossattura resta quella, anche se, nelle
«ca-se » maggiori, dove i ristoranti interni sono cinque o
sei - il Plaza di New York - il computer, elaborando proposte e richieste,
interviene senza misericordia, eliminando tutti quei piatti che non raggiungono
il minimo stabilito. I piccoli menù, come li chiama l'autore, sono
an-cora validi, come numero di voci, se sostituiscono la grande carte:
assolutamente improponibili invece se, come prevedeva Escoffier, ogni menù
deve essere ser-vito integralmente a una tavolata, da sei a dodici per-sone,
e nel corso di un solo e unico pasto. Senz'al-tro accettabili, specie per
le categorie petits hótels e a prezzo medio, le liste per le table
d'hóte, vale a dire, lo si è notato, le offerte analoghe,
specie in località di villeggiatura, a quelle delle nostre pensioni
«tutto compreso». In genere, possibilità di scelta,
dopo la minestra, fra due piatti caldi, con l'alternati-va offerta da una
carne fredda, dal prosciutto o simili. Considerazioni ben diverse per quel
settore di me-nù che possiamo definire «storici». Qui
si può ve-ramente parlare di documenti di costume, specie nel capitolo
dedicato al Carlton Hotel di Londra, la « ca-sa » dove Escoffier
ebbe modo, anche per ragioni di tempo e di luogo, di dare libero corso
alle sue ini-ziative, e nell'altro capitolo, ancor più importante,
dal punto di vista rievocativo, dei pranzi definiti da Escoffier, con quella
enfasi che i francesi identificano con panache, «presidenziali, imperiali
e reali». Si tratta di documenti raccolti dall'autore, quasi sempre
come elemento di studio e non per vantare la pro-pria bravura. Per il gruppo
più numeroso dei « reali e imperiali », quello dei banchetti
alla corte inglese, Escoffier cita anzi l'autore, lo chef delle cucine
bri-tanniche Henri Cédard, degno erede, questo lo anno-tiamo noi,
di quel Charles Elmé Fracantelli, italo francese, che aveva organizzato
e retto, per decenni, le cucine di Vittoria regina. Del « gruppo
inglese » fanno parte non solo i menù di pranzi e cene servite
a Buckingham Palace, e di buffet e « luncheons » di Ascot e
Windsor, ma anche le liste relative al viag-gio effettuato da re Giorgio
V fra il novembre del 1911 e il febbraio dell'anno seguente, a bordo della
nave Medina della Royal Navy, per raggiungere l'In-dia e celebrarvi il
Dunbar, ossia la grande festa del-l'incoronazione, a Delhi. A bordo, e
durante gli « alt di caccia » nel Nepal, i pasti sono piuttosto
sbrigativi e semplici: ma si cerca di rifarsi nelle grandi occa-sioni,
anche se il caldo deve aver preoccupato non poco quanti, in cucina e in
sala, dovevano realizzare e servire i filetti di sogliola salsa tartara
e i gelati Marquise (nessuna preoccupazione, invece, per l'a-gnello: in
India si gioca, per così dire, in casa). Fra i menù molto
importanti: quello del diner of-ferto dal presidente Loubet, a Compiègne,
il 20 set-tembre 1904, allo zar e all'imperatrice, e leggenda-rio - fin
troppo: a volte dubito della sua autenti-cità - quello del Café
Voisin, al 261 di Rue Saint Honoré, messo in tavola per il Natale
del 1870, no-vantesimo giorno dell'assedio di Parigi da parte delle armate
prussiane. È il pranzo in cui avrebbero figu-rato, fra l'altro,
il consommé di elefante, il cammello arrostito all'inglese, il civet
di canguro e simili: tutto ottenuto « elaborando » gli animali
del Jardin des Plantes, abbattuti per soddisfare la fame di qualche privilegiato.
Fra l'altro, Escoffier era, in quei giorni, lontano dalla capitale: prestava
servizio alla mensa della commissione di armistizio a Wiesbaden.Una considerazione
fondamentale, su quei menù importanti, valida per i grandi alberghi,
le feste da ballo, le nozze e, lo si veda, i pranzi reali; sono di una
monotonia esasperante. Non si riesce a sfuggire alla « apertura »
con le ostriche, il caviale, l'aragosta, il melone cantaloup, seguiti dalle
immancabili due zuppe - il brodo di tartaruga per quella « chiara
», una crema dal nome di fantasia per quella densa -e, in seguito,
pochissime qualità di pesce, carne li-mitata a pollame e agnello
(raro il bue) quasi obbli-gatori gli asparagi in ogni stagione - un allievo
di Escoffier, il già citato Herbodeau, confessa che il mae-stro
usava quelli in scatola, confezionati dalla ditta Caressa di Nizza - e
il dessert. Più, naturalmente, la cacciagione e, qualche volta,
a fine pasto, prima dei dolci, il foie gras. Nessuna apertura alle cucine
« po-vere», né a quelle veramente regionali. Solo una
volta troviamo il pot-au-feu, ossia il grande pezzo di manzo bollito, e
le fave al lardo alla brettone. Ma si tratta di un « diner fraterne!
» offerto ai volontari franco-canadesi, il 29 giugno 1911, in occasione
di un incontro di ex combattenti.
Altra considerazione importante: Escoffier non sembra dare alcuna importanza
a quello che è uno degli incubi degli organizzatori d'oggi: il giusto
abbi-namento di cibi e vini. Come è facile constatare, po-chissimi
sono i menù in cui i vini sono indicati: quan-do i nomi appaiono,
sono r aggruppa ti alla fine, senza indicare il momento del servizio. Inoltre,
se figurano i millesimi, sono tali da stupirci: possibile si servis-sero
bottiglie tanto vecchie? Siamo, ricordiamolo (prima edizione), nel 1912,
e si indicano, per i ban-chetti di Natale, non solo un Chateau Latour del
1875 e un Grand Musigny di dieci anni prima, ma addirittura uno champagne
Lanson brut del 1900, e un Veuve Clicquot del 1884, quindi di ben ventotto
anni. Può venire il dubbio che i menù siano molto più
vecchi del libro; ma, a toglierci ogni perplessità, per quanto riguarda
gli anni, sta il « diner presiden-tiel » del 2 maggio 1903,
con il suo Haut Brion del 1877 e, ancora, il Moèt Brut Imperiai
del 1889 (e quattordici anni, per uno champagne, sono qualcosa).
Ragione di tanta monotonia, e di vini così vecchi? Escoffier
spiega la prima, chiaramente, nel testo in-troduttivo ai menù del
Carlton, dopo averlo segnalato nella prefazione: è la clientela
a imporre tali scelte. La cultura gastronomica, lo abbiamo detto, era,
specie fra i danarosi, molto limitata. Per esser certi di prevalere, si
pretendeva solo quanto costava molto. Lui per primo, ripetiamolo, se ne
lamenta. Ma osserva quello che è, in ogni settore, il principio
fondamentale del mercato libero: il cliente ha sempre ragione. E già
questa sincera ammissione dell'autore fa capire quale sia il carattere
e l'importanza della parte meno evi-dente, ma più «ragionata»
del libro: i testi introduttivi, dall'« avant propos » a quelli
che « aprono » i diversi capitoli. Diversi princìpi
fondamentali di quella che po-trebbe essere chiamata la filosofia culinaria
di Escof-fier sono già stati presi in esame, nelle pagine pre-cedenti,
parlando, in particolare, della sua intuizio-ne - o, addirittura, preveggenza
- a proposito dei nuovi orientamenti gasstronomici e alimentari, desti-nati
a prevalere in futuro. Fra le altre considerazioni opportune, vi sono quelle
che riguardano la parte più intimamente legata al tema del libro,
vale a dire la predisposizione tecnica delle liste. Un confronto fra «
allora » e oggi è significativo. Escoffier definisce gli antipasti
e le minestre - si tratta, per lui, esclu-sivamente di creme, consommé
e potages: i farinacei all'italiana, se appaiono, vengono serviti come
guar-nizione, più tardi degli aperitivi, sostenendo che il pranzo
o la cena veri e propri cominciano con il « relevé »,
ossia il « grosso pezzo » di carne, un tem-po già presente
in tavola, mantenuto a temperatura accettabile dal réchaud, all'inizio
del banchetto, e, nei giorni in cui il nostro scriveva, affettato in cu-cina,
in modo da consentire un servizio rapido, e con arrivo in tavola di vivande
ancora calde. Qualcosa del vecchio cerimoniale resta, ai giorni nostri,
con il « giro in sala » effettuato dallo chef o dagli stessi
camerieri, quando si vuoi far vedere, sul carrello o nel vassoio, il «
pezzo » ancora intatto, anche per di-mostrare l'abilità della
cucina. Vittime maggiori di queste reminiscenze del passato - per certe
presen-tazioni « in corteo » si ritorna al Rinascimento -sono
la cacciagione di pelo rosso o nero (caprioli e cinghiali), la sella all'Orloff,
il filetto «in crosta» dedicato al duca di Wellington e, se
si passa alla mangiata popolaresca, la porchetta intera, con l'im-mancabile
arancia in bocca.L'architettura, chiamiamola così, dei menù
della Belle Epoque imponeva - si veda il testo - una o più «
entrées » (secondo Escoffier, sembra escludessero il pesce),
poi gli arrosti, le mousses e i soufflés, le galan-tine, persine
il prosciutto freddo, il foie gras e, un tempo comunissimi e oggi scomparsi,
i gamberi di fiume. Si finiva con gli « entremets » che prevede-vano
non solo dolci, ma anche verdure. Questo schema riconferma quanto la lettura
delle liste indica con chiarezza: troppa roba e troppo ri-corso sempre
alle stesse cose. La « progressiva » di Escoffier è
oggi improponibile: non solo in Italia, dove l'abbiamo sempre rifiutata
in quanto « respinge » i nostri piatti preferiti, risotto e
pasta asciutta, ma oltre frontiera e, in linea di massima, anche in Francia.
I « vertici » ne danno l'esempio. Grazie alla genti-lezza della
Segreteria del Quirinale, ho una piccola collezione di menù dei
pranzi ufficiali della presidenza della Repubblica. Sono di una semplicità
assoluta: di solito un timballo di riso o pasta, un piatto di carne, molto
raramente un secondo, di pesce, poi subito il dessert. « Anche perché
» mi ha detto il cavalier Nibbi, pri-mo chef del Quirinale «
mi danno, in media, qua-ranta minuti per il servizio completo, e non so
mai a che ora esatta verranno a tavola. E, qualche volta, si tratta di
cento, centodieci persone». Quanto alla Francia, uno degli esempi
più celebri di cena di gala dell'ultimo trentennio resta quello
del banchetto offerto dal generale De Gaulle al presidente Kennedy (e signora)
il 1° giugno 1961 nella Grande Galerie des Glaces di Versailles. Messa
in scena ec-cezionale: sulle tavole, il sourtout di ventun pezzi, in vermeil,
fatto eseguire da Napoleone I. Per i due-cento invitati, la posateria d'argento
con aquila im-periale. La lista appare una specie di condensato dei princìpi
di Escoffier: un potage (vellutata Sultana), una entrée di pesce
(timballo di filetti di sogliola Join-ville), un relevé (filetto
arrosto), uno chaud-froid de volaille e un'insalata come piatti freddi
e, per finire, il gelato. Più ricco sei portate, con il sorbetto
a metà lista - il pranzo per celebrare i 2500 anni della fondazione
dell'impero persiano, offerto dallo scià, il 14 ottobre 1971, a
Persepoli, sotto a una grande tenda, con una spesa che diede, pochi anni
dopo, un elemento in più ai rivoluzionari per defenestrare il loro
sovrano.
Restiamo fedeli, invece, a quelle che Escoffier defi-nisce «
regole formali, alcune accettate da molto tem-po, e generalmente osservate
». Riguardano, allora e oggi, l'alternanza dei tipi di carne, i divieti
di ripe-tizioni, specie in materia di salse e di guarnizioni.
Uno dei migliori direttori generali di grandi al-berghi dei nostri
giorni, Natale Rusconi, ha così sintetizzato queste regole, nel
suo testo introduttivo all'edizione italiana dell'ylr/e della cucina di
Pellaprat, un autore che molti considerano l'erede spiri-tuale di Escoffier:
- niente antipasto la sera, con le sole eccezioni di caviale e salmone
affumicato (e, aggiungo, di un eccezionale prosciutto); - idem, niente
antipasto se si propone un farinaceo, a mezzogiorno (una regola ben difficilmente
fatta rispettare); - niente pasta asciutta o risotto alla sera (anche qui,
ognuno fa a modo suo); - mai due cotture eguali (pesce sobbollito - bollito
misto; grigliata mista di pesce-filetto ai ferri); - mai due salse eguali
(gli spaghetti al pomodoro escludono le bistecchine alla pizzaiola); -
mai due guarnizioni o contorni utilizzando gli stes- si vegetali, a meno
che non si tratti di un pranzo« tutti asparagi », « tutti
funghi » o, addirittura, se uno si vuoi rovinare, tutto con i tartufi;
- mai verdura e frutta conservate - in sscatola, sur-gelate - se il mercato
le offre fresche di stagione. Per i vini, aggiungiamo, studiare gli abbinamenti
con cura, ma senza farsene un dramma: ogni tanto spunta un gastronomo,
trionfalmente presentato in TV, che sovverte le regole (ostriche col vino
rosso e magari, lo abbiamo letto, vino clinton col soufflé di cioccolato
alla menta) e il mondo va avanti lo stesso. Il maggior contrasto con Escoffier
penso si basi, oggi, su un principio fondamentale. Maestro indi-scusso,
autorità accettata da tutti, egli appare, anche in queste pagine,
molto accondiscendente, talvolta pronto all'ossequio, nei confronti della
sala. Ordinate, sembra dire, e noi eseguiremo. Ciò dipendeva non
solo da un presupposto, forse avallato dalla autorità di Cesare
Ritz, che lo chef comprensivo e di buon carattere - non mancavano certo,
anche allora, i per-malosi e gli arroganti accettava come principio indi-scutibile,
ma anche, e ancor più, dalla bravura pro-fessionale dei capi-partita,
assecondati dai loro staff di esecutori attenti e solleciti (nel suo Metodo
di suddivisione che chiude il libro Escoffier prevede una brigata di sessanta
persone: la si trova, oggi, in po-chissime « case » e, raramente,
su qualche superstite grande nave da crociera).
Situazione, per noi, completamente cambiata: po-chi veri chef - qualche
centinaio, in Italia, su oltre centornila ristoranti, hotel e trattorie
- e necessità di ridurre al minimmo la lista del giorno. Uno dei
mi-gliori « posti » italiani, lHarry's Bar di Venezia, si
limita "a una quindicina di proposte, con pieno con-senso della clientela,
sicura di poter contare su « fre-sco, rapido, raffinato ».
Da questo, un principio fondamentale, che caratterizza la ristorazione
dei nostri giorni: non è più la cucina che deve adattarsi
alla sala, ma, al contrario, la sala che deve adattarsi alla cucina. Senza
tuttavia arrivare alla « prepotenza » di certi chef-artisti,
che, ispirandosi alla pittura astratta e al Giappone, pretendono di imporre
piatti singoli, « montati » in cucina, e che non lasciano al
commen-sale nessuna possibilità di scelta, sia per la qualità
che per la quantità. Bisogna rispettare le regole fon-damentali
del servizio: vivanda nel piatto di portata, diritto del cliente di dire:
«Mi dia questo, quello, lasci al caldo, forse ne vorrò ancora».
Discorso semplice, ma valido: lo chef propone, in base alle conoscenze
professionali e a quanto passa il convento, il cliente sceglie e aspetta
senza impazientirsi. Niente risotto in cinque minuti, ma nemmeno in tre
quarti d'ora.
Comprensione reciproca, favorita ora da una in-dubbiamente più
sviluppata coscienza gastronomica dei consumatori e da maggior comprensione
da en-trambe le parti in causa. Proprio quello che, alla fine della sua
carriera, Escoffier si augurava per « mante-nere intatte le tradizioni
del passato, che debbono restare per sempre».
Testo ad uso di solo studio
Torna alla Home Page