Auguste Escoffier
DA IL LIBRO DEI MENÙ
A cura di Massimo Alberini
Serra e Riva Editori
Georges Auguste Escoffier nacque a Villeneuve Lou-bet il 28 ottobre 1846, e morì nella sua villa di Monte Carlo il 12 febbraio 1935, alla veneranda età di 93 anni. Per bravura personale, ma soprattutto per-ché favorito dalla fortuna e dalle circostanze, fu il cuoco-simbolo e il riformatore delle ristorazione, in quel particolare periodo, così favorevole alla vita mondana e al turismo, che va sotto il nome di Belle Epoque.
In termini etnografici, lo si potrebbe considerare un ligure. A 15 chilometri da Nizza, nella vallata del Loup, un torrentello quasi sempre in secca, Villeneu-ve Loubet, oggi ampliatasi con il rione sulla spiaggia, si trovava, quando Escoffier nacque, a pochi passi dal confine con la contea di Nizza, allora sabauda, e orgogliosa del blasone di Nicea ftdelis (al Regno Sar-do) che contraddistingueva anche l'omonimo reggi-mento di cavalleria. Diciamo subito che Escoffier non venne mai condizionato da questa sua origine: non ne fa cenno nei suoi scritti - si vedano i suoi testi, in quest'opera - e non ha trovato opportuno inserire, ffra le circa 260 salse codificate nel Guide culinaire, il pesto o, alla nizzarda, il « pistou » della sua terra. Va detto, per scagionarlo, se ce ne fosse bisogno, che la clientela di allora ignorava completa-mente le cucine regionali, confinate ad alimentazione per gli indigeni.
Auguste nacque in quella che allora si chiamava una famiglia modesta, ma non povera. Il padre era fabbro e maniscalco del villaggio. La sua casa esiste ancora e, per merito della Fondation Escoffier, un'or-ganizzazione privata, accoglie molte memorie del mae-stro, dei suoi discepoli, ed è un piccolo ma vivace museo della cucina francese. Fino a tredici anni, il ragazzo frequentò la scuola comunale. Riusciva be-ne, soprattutto in disegno, e avrebbe voluto conti-nuare gli studi, scendendo nel capoluogo. Forse il padre lo avrebbe assecondato, anche perché, da un figlioletto di bassa statura e di membra fragili, era assurdo pensare di tirar fuori un èrcole capace di forgiare, a martellate, un ferro di cavallo sulPincu-dine. Ma soldi per quel « lusso » non ce n'erano. Così Auguste fu mandato a Nizza, dallo zio, pro-prietario di una modesta trattoria, orgogliosamente indicata come Restaurant Francis. Una scelta im-posta dalle circostanze, ma che determinò l'indirizzo di tutta la vita del futuro maestro.
Cosa logica, al Frangais Escoffier faceva un po' di tutto, dal lavapiatti all'aiuto del cuoco. In più, ac-compagnava lo zio a far la spesa al mercato di corso Saleya. Era volonteroso, attento, imparava volentieri. Logicamente, cercava di migliorare: così, nel 1862, salutò lo zio, passando, come cuoco, all'Hotel Belle-vue di Nizza. Dopo il prebiscito e il « rattachement » alla Fran-cia, Nizza viveva una grande stagione; ai russi - i granduchi - che, per primi, avevano determinato la costruzione dei « palaces » nella zona cittadina della Croce di Marmo, si erano aggiunti gli inglesi e, ele-menti di primo piano per le pubbliche relazioni, co-me le chiameremmo oggi, gli artisti e gli scrittori francesi, calati da Parigi, nel nuovo dipartimento che stava per ricevere, da uno di loro, il giornalista Alphonse Karr, il nome non ufficiale di Costa Az-zurra. L'hòtellerie non era certo all'altezza dei nuovi compiti: ma richiedeva mano d'opera, e offriva buo-ne possibilità. Quasi certamente Escoffier sarebbe ri-masto uno dei tanti chef specializzati in lavoro stagionale - si andava sulla Costa solo d'inverno -se, nel 1865, non fosse stato scoperto da monsieur Bardoux, patron del Petit Moulin Rouge di Parigi, che lo assunse e lo fece emigrare nella capitale.Anche Parigi era in pieno fervore artistico e mon-dano. Alphonse Allais, un umorista allora celebre, scriveva: «Come sono tristi gli alberi della campa-gna! Invidiano i loro confratelli che possono godersi i boulevard ». I ristoranti, alcuni già famosi da de-cenni - le Frérès Provengaux, le Café Riche, le Café de Paris, il Voisin, Paillard: insegne che, in parte, avrebbero tenuto a battesimo dei piatti — potevano contare su una clientela danarosa e fedele. Anche il Petit Moulin Rouge, in Avenue d'Antin, godeva di buona fama, grazie al signor Bardoux e allo chef, Ulysse Rohan. Che era, come volevano le regole di allora, enorme, manesco e violento, capace di spac-care in due una costata intera con un colpo di man-naia e convinto dell'efficacia didattica, quando si do-veva istruire un commis, dei calci nel sedere. Gen-tile, tranquillo, sensibile, Escoffier soffrì molto: ma imparò, e lo riconobbe, quando gli accadde di ri-cordare quei giorni. E avrebbe continuato il tran tran davanti allo spiedo e ai fornelli, se Napoleone III non avesse deciso di gettare la nazione allo sbaraglio, mandando i suoi sudditi, con la palandrana az-zurra e i pantaloni rossi, contro le divisioni di von Moltke. Il giovane Escoffier dovette fare come gli altri e raggiungere, nel luglio del 1870, abbandonan-do il suo posto di saucier, i commilitoni del 28° fanteria.
Il colonnello d'Andlau era un valoroso coman-dante e un uomo di buon senso. Capì subito che quel fantaccino quasi più piccolo del suo fucile avreb-be reso meglio ai fornelli che in pattuglia o come « sentinella morta ». Lo passò quindi alla mensa uffi-ciali di Metz, poi se lo portò dietro quando, dopo il disastro di Sedan, fece parte della commissione di ar-mistizio, a Wiesbaden, dove sia il nemico che il gene-rale Mac Mahon poterono apprezzare la bravura di un cuoco che riusciva, con il « pane di munizione » e del cognac, a mettere in tavola il coniglio alla Gra-velotte (nome di un villaggio e di una sconfitta fran-cese). Era, sia pure in forma molto accettabile, una specie di prigionia: comunque, durò poco. Il 16 mar-zo 1871 Escoffier era di nuovo a Parigi, in attesa di tornare borghese.
Gran brutti giorni: la città, in mano ai comunardi, che avevano dato fuoco alle Tuileries e abbattuto la colonna di Piace Venderne, era in piena guerra civile. Meglio, per Escoffier, restarsene tranquillo, e far da mangiare a casa del conte di Waldner, colon-nello comandante di un altro reggimento, il 17° di linea. Per fortuna, anche le esperienze peggiori hanno fine: smobilitato, Escoffier riprese i contatti col suo mondo, e, nell'ottobre del 1872, è primo chef al-PHòtel du Luxembourg di Nizza. La vita riprende.E sono la vita e la carriera di un ottimo elemento, stimato nell'ambiente, noto per l'impegno e la bra-vura. La cronaca degli spostamenti e gli attestati (an-zi, i « benserviti », come si chiamavano allora) di cui resta documentazione, ha scritto, anni addietro, Victor Romano (rivista « Cocktail », luglio 1966) nel-l'archivio di villa Fernand di Monte Carlo, lo testi-moniano. Nell'aprile del 1873 ritorna, questa volta come primo chef, al Petit Moulin Rouge di Parigi, dove ha per cliente il grande Gambetta, capace di cenare con tre pernici e quattro gelati; nel 1878 è alla Maison Chevet, al Palais Royal, cliente « di ri-guardo » l'anziana - è nata nel 1804 - George Sand. L'anno dopo, sempre a Parigi, è al Faisan Dorè, va a dare un'occhiata sulla sua Costa Azzurra, dove « fir-ma » come chef al prestigioso Hotel de Paris, realiz-zato da Blanc, il vero creatore di Monte Carlo. An-cora, nel 1882, un ritorno a Parigi, per partecipare alla esposizione d'arte gastronomica organizzata dallo Skating Club — è arrivata la moda dei pattini a ro-telle - e per collaborare alla neonata rivista « L'Art Culinaire ». Un curriculum di tutto rispetto, ma che avrebbe assegnato, tutt'al più, al nostro un « ruolo » analogo a quello di suoi maestri come Urban Dubois o Jules Gouffé, se, nel 1883, tramite il collega e amico Jean Giroix, Escoffier non avesse preso con-tatto con l'uomo che avrebbe fatto di lui il maestro « assoluto » della loro epoca, e cioè Cesare Ritz.
Anche Ritz veniva, come si usa dire, dalla gavetta. Svizzero di Niederwald, nel Vallese, dove era nato il 23 febbraio 1850: padre agricoltore e sindaco del villaggio, dodici figli, tutti contadini, meno Cesare, mandato, a quattordici anni, a fare il camerieretto all'Hotel Corona & Posta di Briga (e il padrone lo aveva cacciato via, pronosticando « non è un mestie-re per te »). Deciso a continuare, Cesare, a diciassette anni, va a Parigi, comincia addirittura in un bistrò frequentato da operai, poi sale lentamente la china dei « posti » migliori, e la guerra del Settanta lo trova da Voisin, il ristorante famoso, dov'è commis in tablier, il grembiulone bianco, a tubo, lungo fino ai piedi, che caratterizza i camerieri di seconda ca-tegoria, in alberghi e ristoranti. Guerra e rivoluzione lo obbligano a tornare in Svizzera: ma nel 1872 è nuovamente a Parigi, maìtre, allo Splendid, e il pa-drone lo ammira per l'abilità con cui riesce a far fuori una partita di Chàteau Laffitte che ha quasi ol-trepassato i limiti dell'invecchiamento. La carriera continua: e la buona occasione per diventar famoso - e conteso — nel suo mondo arriva sul finire del settembre del 1874, quando Ritz è vicedirettore di un nuovo albergo di lusso sulla Jungfrau, il Rigi Khulm, il palace in cui Daudet ambienterà gran parte del Tartarin sur les Alpes. È l'episodio che entra nel-la storia alberghiera come « la notte dei mattoni ». La stagione estiva sta per finire, la temperatura scende ormai sotto allo zero. L'hotel è vuoto, quando arriva un messaggio dall'agenzia Cook: una comitiva di quaranta americani, già partita, arriverà per la cena e il pernottamento. Ci si prepara a riceverli e, d'improvviso, la disperazione: il nuovo impianto di riscaldamento è saltato, impossibile ripararlo fino al giorno dopo. Weber, il direttore, perde la testa, si chiude in camera: Ritz prende in mano la situazione. Anzitutto, c'è, a breve distanza, un deposito di ma-teriali da costruzione: lui compera tutti i mattoni disponibili, li porta in albergo, facendoli arroventare nei forni della cucina e su fuochi all'aperto. Chiude l'enorme sala da pranzo, tappezza di coperte, arazzi e tappeti la saletta di lettura, cambia il menù, arric-chendolo di piatti flambées, e prepara, come bevanda del benvenuto, un grande punch, da servirsi bollente. Quando gli americani arrivano, ci sono dappertutto fioriere di metallo con piramidi di mattoni arroven-tati, la cena finisce con tre « giri » di cognac offerto dalla direzione e tutti vanno a letto belli sbronzi, e senza sentire il freddo.
E la carriera continua, favorendo il giovane diret-tore, di cui quasi tutti i padroni accettano le nuove idee. Così, al Victoria di Sanremo, egli toglie i tradi-zionali tendaggi di velluto, sostituendoli con veli leg-geri, fa installare nelle camere catini più grandi, inizia quella battaglia per l'igiene che condurrà avanti per decenni, fino a raggiungere, ma solo nel 1889, al Savoy di Londra, « quasi » un bagno con acqua cor-rente per ogni camera. Non ce ne rendiamo conto: ma, ancora un secolo fa, il principe di Galles confi-dava a Ritz che, nei giorni di scirocco, Buckingham Palace era invaso dal cattivo odore delle fogne. E quando, in albergo, sua altezza reale aveva voglia di fare un bagno, gli portavano in camera la vasca - di rame, ben lucidata - e dei secchi di acqua calda. An-che Ritz ha avuto il suo padrone « illuminato » : un colonnello svizzero, già al servizio prima dell'arrivo di Garibbaldo, del re di Napoli, e dedicatosi poi al-l'organizzazione alberghiera: Hans Pfyffer. Grazie al colonnello, Ritz è nominato direttore del Grand Na-tional di Lucerna, forse il miglior albergo d'Europa, in assoluto, di quegli anni.
Clientela eccellente, possibilità di far le cose « in grande ». Il soprano Nordica arriva sul lago in pal-lone. Il conte di Trapani, un Borbone in esilio, per la festa di nozze pretende che si ricostruisca, in giar-dino, un angolo della sua cara Napoli. Fra i « fedeli », una contessa di Mirafiori, discendente della Bela Ro-sin. Ritz cerca di accontentare tutti, pur restando fedele a certe sue regole fondamentali: mai signore sole a un tavolo del ristorante. E questo valeva anche per Lyane de Pougy, la più agguerrita concorrente, in diamanti e clientela, della Bella Otero. Punto debole, le cucine. In proposito, Ritz - c'è una sua regola fondamentale, sempre valida: «il cliente deve mangiare sempre bene, ma, in modo par-ticolare, il giorno dell'arrivo e quello della partenza »
- aveva un programma. Gli occorreva chi sapesse realizzarlo. Da ciò, l'incontro e la collaborazione, durata sino alla fine dell'attività alberghiera di Ritz, con
Auguste Escoffier. Non sapremo mai quale sia stato l'apporto dato alla riforma da ognuno dei due protagonisti, dotati entrambi di personalità ben definita. Non lo hanno scritto, e la stessa Marie Ritz, la moglie, nell'ampia biografia dedicata a lui, è poco precisa, preferisce
- cosa logica: era un'eccellente collaboratrice, in questo settore - insistere sulle novità dell'arrredamento, la luce elettrica, le coppe di alabastro per illumina zione indiretta (cancella gran parte delle rughe delle vecchie clienti), la sostituzione dell'enorme «impianto » della table d'hóte con i tavolinetti da pochi co-
perti. Quasi certamente, quelle che sarebbero state le basi del nuovo corso furono elaborate e discusse fra Ritz ed Escoffier, durante i colloqui del mattino, gli incontri fra direttore e chef, da cui nasce, oggi come allora, l'immagine di una « casa ». Una collaborazione resa facile dal carattere accomodante di
Escoffier - lo sappiamo dalle conversazioni con chi lo conobbe, Carnacina ed Eliseo Salice - e, si veda quanto lo chef scrive nelle pagine che seguono, dalla comprensione delle esigenze della « sala », accettate, si direbbe, quasi passivamente. Fu un lavoro di équipe, e durò a lungo: a Monte Carlo, a Roma - nel 1894, per l'inaugurazione del Grand Hotel, buffet per mille persone - ma, soprat-tutto, a Londra, dove due « case », una ancora esi-stente, benché, da poco, abbia ridotto fortemente il numero delle camere, il Savoy, l'altra ormai scom-parsa, il Carlton, furono i punti di forza dell'attività Escoffier. A questi, nel 1898, si allineò il Ritz di Parigi, il grande albergo che perpetua, più di ogni altro, il ricordo del fondatore, anche se, c'è da scom-metterlo, quasi nessun cliente ricollega l'insegna con il nome del « grande » Cesare. Ritz conobbe il successo totale (il principe di Galles, il futuro Edoardo VII, diceva: « Io vado solo negli alberghi di Ritz») nella professione, ma non ebbe fortuna come uomo. Nel 1902, men-tre ancora si occupava della messa a punto del Grand Hotel delle Terme di Salsomaggiore - le enor-mi, sontuose sale, oggi sede di congressi, testimoniano il suo passaggio - si ammalò, e non riuscì mai più a recuperare la salute. Fra casa e cliniche, tirò avanti, dapprima ancora seguendo a distanza i suoi alberghi, poi affidando tutto alla moglie e ai funzionari della Ritz Ltd., per ben sedici anni, morendo in una cli-nica svizzera, il 26 ottobre 1918, pochi giorni prima della fine della guerra mondiale che aveva trasfor-mato alcuni dei suoi palaces in convalescenziari. Suo figlio Charles rimase nell'azienda: nel 1968 era an-cora presidente della società del Ritz di Parigi. Escoffier concluse la prima parte della sua attività al Carlton di Londra: vi rimase, salvo un breve « im-barco», nel 1912, sull'7m perator, un transatlantico delPHamburg Amerika Line che lo aveva assunto come consulente, fino all'inizio del 1919, quando or-ganizzò, per il presidente Poincaré in visita ufficiale a Londra, il banchetto della vittoria. Pochi mesi dopo, prese alloggio a villa Fernand, a Monte Carlo, unico « capitale », assieme alla pensione conferitagli motu proprio dal consiglio di amministrazione del Carlton, rimastogli dopo una attività così lunga.
Aveva 73 anni e, fragile e minuto come appariva, era in ottima salute. Madame Giroix, vedova del-l'amico che lo aveva presentato a Ritz, dirigeva allora l'Hotel Mirabeau di Parigi e PHermitage di Monte Carlo. Chiese aiuto a Escoffier, che iniziò così, con lei e con altri, quasi sempre ex collaboratori saliti in alto, una consulenza libera, che lo teneva a contatto con il suo mondo. Fu allora che il giovane Luigi Carna-cina, chef de rang al Ciro's di Monte Carlo, lo co-nobbe, e fu da lui notato. « Monsieur Escoffier » ha scritto Carnacina, in un suo troppo succinto e troppo dimenticato libro di memorie, A la carte, « sedeva a un tavolo che il direttore gli offriva, solo e pensie-roso, ordinava la colazione, e osservava minuziosa-mente, con l'occhio del competente, il personale di servizio, nei movimenti, nel tratto, nella parola, senza mai parlare né azzardare giudizi ». Un ritratto che conferma le impressioni suscitate da quanto il mae-stro scrive. Dopo quel tacito esame, Carnacina fu chiamato al tavolo («non era del mio rango») e si sentì offrire il posto di direttore di ristorante al Re-staurant de POcean di Ostenda.
Georges Auguste Escoffier morì a 93 anni, lo ab-biamo detto, nella sua casa di Monte Carlo, il 12 feb-braio 1935, pochi giorni dopo la scomparsa della moglie. La notizia passò sotto silenzio, non solo da noi, dove ben pochi conoscevano il suo nome (e nei giornali dominavano le notizie sullo scontro di Ual-Ual, in Somalia, preludio alla guerra d'Etiopia), ma anche in Francia, a parte i giornali della Costa Az-zurra, fu la stampa professionale a dare rilievo ai ne-crologi. Fu sepolto a Villeneuve Loubet, dove, l'anno dopo, fu eretto un piccolo monumento, sempre in loco: unico esempio di ricordo marmoreo, e pub-blico, dedicato a un cuoco. Per rendersi conto dei motivi che spingono, ancora oggi, tanti esperti del settore e studiosi del costume a interessarsi della ormai lontana attività di questo premessa all'edizione italiana «piccolo cuoco», bisogna considerare la sua opera su due piani ben distinti: quello della competenza professionale vera e propria, e l'altro, di più difficile attribuzione - lo si è detto - in materia di qquella riforma del lavoro in cucina, di cui egli fu l'espo-nente maggiore e, in un certo s.enso, il simbolo.
Escoffier, vale ripeterlo, si trovò a operare in un ambiente molto favorevole per un cuoco al servizio del pubblico. Anche a tavola, la divisione fra le classi sociali era, allora, ben più definita e ingiusta di quan-to non lo sia oggi. Iniziata oltre un secolo prima, la rivoluzione industriale aveva portato in città grandi masse di contadini, trasformati in operai, che trova-vano difficile inserirsi nel nuovo ambiente, anche per quanto riguardava il mangiare. Studi sociali e lette-ratura populista, da Zola alla nostra casalinga ma attendibile Matilde Serao (il suo Paese della cucca-gna è documento del massimo interesse) testimonia-no l'importanza dell'osteria - per il vino - e dei ven-ditori di cibi già pronti, dai polentatt milanesi ai piz-zaioli napoletani, sul tenore di vita di famiglia dove - era il cruccio di quanti nutrivano « buoni senti-menti » - gli orari di lavoro in fabbrica impedivano di accendere il fuoco durante la settimana. Escoffier (non facciamogliene una colpa: il suo mondo era un altro) non si interessava né di questo, né, in forma concreta - il suo testo minore Ma cuisine è un ten-tativo fallito di ricettario per la massaia - dell'altra grande « fascia sociale », il ceto medio, fedele al bol-lito misto domenicale e, da noi, al risotto del Nord e ai maccheroni del Sud.
Il « gruppo di consumo » che richiedeva, allora molto più di oggi, impegno di una nascente attrez-zatura turistica, era formato da quanti, per censo e nome, potevano permettersi di uscire, dopo secoli di splendido isolamento, dai loro castelli e palazzi, per trovarsi, fra loro, nelle nuove residenze, i grandi al-berghi, costruiti e gestiti in modo da continuare, nei « posti » scelti dalla moda, uno stile di vita quasi identico a quello rispettato negli hótels particuliers. C'erano stati i « bei nomi » che avevano aperto la strada: l'imperatrice Alessandra di Russia e Lord Brougham, l'inventore di Cannes, i lord inglesi ap-passionati di alpinismo, gli amanti folli De Musset e Sand pronti a scoprire il fascino decadente della gon-dola. A centinaia, altri li avevano seguiti. Fra i primi, i boiardi russi, ricchissimi, molto spesso violenti e volgari. Un certo Hugo, già mai tre di Maxim's, ha raccontato, nelle sue memorie, che un granduca si di-vertiva a gettare a terra, nell'omnibus del ristorante parigino, manciate di monete d'oro, dette allora, an-che ai tavoli da gioco, luigi, invitando poi i came-rieri ad accapigliarsi per contendersele. Un altro, brasiliano, faceva aggiungere delle gocce di essenza di violetta allo champagne. Una clientela egualmente rozza in materia di ga-stronomia: legata ancora ai privilegi di caccia e pesca che indirizzavano le preferenze unicamente su qual-che tipo di « preda », dai fagiani agli storioni, o verso altri cibi rarissimi, un tempo, per colpa delle distanze dei castelli dal mare e ancora riservati ai ric-chi, quali le sogliole, l'aragosta, le ostriche. I cuochi, anche i più bravi, erano condizionati da questo « ca-talogo » : si veda con quanta intelligenza Escoffier ri-conosce la monotonia dei menù da lui proposti. Per ottenere risultati migliori, e invogliare i clienti, c'era una sola via d'uscita: il fasto dapprima, la fantasia poi. Ed ecco gli enormi « piatti montati » di Gouffé e Urban Dubois, così come li mostrano le 62 tavole della Cuisine classique, ed ecco perché, eliminati gran parte di quegli orpelli inutili e spesso anti igienici, Escoffier deve darsi da fare per trovare nuove formule che gli consentano di mettere in lista « nomi » nuovi, quasi sempre riservati a modeste varianti sul tema: ecco il motivo per il quale, nel Guide culi-narie, ci sono 66 ricette di sogliole, più quelle dei filetti dello stesso pesce, e 52 preparazioni di fagiano. Risorsa indispensabile, per quelle varianti, le salse, articolate fra fondi, essenze, salse di base - per lui: « madri » per altri - e derivate. Nel Guide egli pro-clama, pienamente convinto: « Le salse rappresenta-no la parte capitale della cucina. Sono loro che hanno creato e mantengono la preponderanza universale del-la cucina francese ».
La grande cuisine, sia pure alleggerita, non basta: bisogna andare incontro anche ai gusti e alle tradi-zioni dei clienti stranieri. Escoffier studia e codifica ricette britanniche, a cominciare dalle salse, prepa-razioni russe, spagnole, medio orientali e persine in-diane, richieste dai funzionar! dell'Impero, che dopo essersi rovinati il fegato con il troppo whisky - ma bevuto solo dopo il tramonto, quando si sostituisce la divisa con il dinner jacket - a Nuova Delhi e a Simla, sentono ancora la nostalgia del curry e dei pilaff speziati. Questa antologia viene definita con un nome che Escoffier non userà mai: cucina interna-zionale. Uria voce destinata, per colpa dei cattivi imi-tatori e del ritorno ai « piatti genuini », ad assumere un significato dispregiativo. Ne abbiamo fatto cenno: in questa opera di ricer-ca, selezione e codificazione, Escoffier dimentica la sua terra, e tiene ben poco conto anche dell'Italia, simbolo, nei suoi giorni, di paese poco civile, dove ci si nutre con maccheroni, minestre di riso e, come ha scritto un visitatore inglese di Nizza sabauda, « di una purea di mais chiamata polenta ». Gli strafalcioni di Escoffier, in materia di cucina italiana, sono pro-verbiali: per lui il «rizotto a la milanaise » è il nostro risotto al parmigiano, guarnito, sul piatto, con salsa di pomodoro, lingua e prosciutto in julienne e sugo di carne (e senza zafferano).
Anche certi nostri prodotti famosi sembra non lo interessino: nei menù si propongono spesso prosciutti di York e di Westfalia: mai citato il jambon de Parme o quello di San Daniele. Per fortuna, sia pure in alternativa col gruyère, c'è spesso il parmigiano.
Una considerazione fondamentale: Escoffier fu so-prattutto uno chef di grand hotel, non di ristorante raffinato e di pochi coperti. E resta legato a un co-stiame pressoché estinto, salvo, come ai suoi giorni, nelle « case » dove ancora vige la pensione completa tutto compreso, bevande escluse: quella che, ai suoi giorni, si chiamava la « table d'hòte » Un documento letterario, un tempo incluso nei li-bri alla portata di tutti, e oggi quasi dimenticato, te-stimonia, in modo divertente, come andavano le cose. È la sera del 10 agosto 1880: il sole, velato da una nebbia giallastra, tramonta sulle Alpi. Arrivato da poco al Grand Hotel Regina Montium sul Rigi Kulm - certo, lo stesso della « notte dei mattoni » - Tar-tarino di Tarascona scende a cena. Scrive, lui per primo divertito, Alphonse Daudet, in Tartarin sur les Alpes: « Seicento coperti intorno a un immenso tavolo a ferro di cavallo, su cui delle grandi compo-stiere di riso e di prugne cotte si alternavano in due file, tra le piante verdi, riflettendo nei loro sughi, violaceo o lattiginoso, il riverbero delle candele e le dorature del soffitto a cassettoni ». Si desume, da que-sto, che in albergo il servizio era ancora, in parte, « alla francese », con il dessert - qui riso zuccherato all'Imperatrice e frutta cotta - già in tavola al mo-mento dell'arrivo degli ospiti, mentre il resto del menù sarebbe stato servito « alla russa », e cioè un piatto dopo l'altro, offerti dai camerieri. Escoffier prevedeva la grande carte: ma per lui, e il Livre des menus lo dimostra sia nel capitolo appo-sito, sia in quello dedicato al Carlton, dove si ricon-fermano i princìpi della «offerta chiusa», la table d'hòte, dove la scelta è limitata e il servizio, di con-seguenza, più facile, rappresenta la proposta normale _ e ottimale - per l'albergo. Affiancata da una situa-zione analoga, anche se obbliga a un lavoro più com-plesso, che è quella legata alla realizzazione di ban-chetti, réveillons, soupers de bai e simili: tutti « con-sumi » effettuati, di norma, nel grand hotel, e non nel ristorante.
Per chi non sa tutto questo, Escoffier può appa-rire, leggendo il Guide, un superficiale e un facilone: quasi tutte le ricette mancano di dosi, di esatte indi-cazioni sul « come fare » e sui tempi di cottura. In certi casi, la modestia del maestro è tale da far pen-sare all'autolesionismo: la ricetta sua più famosa, quella delle pesche Melba, è condensata esattamente in 25 parole. Ma bisogna ricordare che il Guide, con le sue 942 pagine attuali, è stato definito da Escof-fier, che lo ha firmato con i discepoli Gilbert e Fé tu, solo un « aide-mémoire de cuisine pratique » : un al-tro esempio di modestia di quest'uomo che, partendo dai pochi studi al paesello, si era costituito, scrive Carnacina, una cultura che gli consentiva di parlare con esattezza « di una mela, un pisello, di qualsiasi qualità di pesce, di cui conosceva minutamente ogni particolare anatomico, fisiologico, strutturale e nu-tritivo ».
Ma veniamo al secondo aspetto dell'attività profes-sionale di Escoffier: la sua riforma del lavoro in cucina.
I criteri fondamentali sono condensati, da lui, nel-la pagina del Livre des menus sbrigativamente inti-tolata Metodo di suddivisione e avvio del lavoro di una grande brigata. Convinto di parlare a gente in-formata, egli non dice cosa sta « a monte » di tutto questo. Accenniamone alla svelta.
Fino ai suoi giorni, in cucina ogni « lavorante » doveva saper fare di tutto, spostandosi fra dispensa, fornello e office, iniziando e finendo la « comanda » da solo. Escoffier - o Ritz? - applicò anche fra le ber-rette bianche il principio della divisione scientifica del lavoro, già trionfante in fabbrica, e diede vita a un organigramma, rimasto, nelle sue grandi linee e quan-do la « casa » se lo può permettere, invariato. Al vertice, lo chef, l'unico che abbia diritto a quel titolo: buon organizzatore, in grado di veder tutto, di con-trollare, pur mettendo molto raramente le mani in pasta. Al centro della grande cucina del Plaza, a New York, Joseph Trombetti, nato a Bardi, nel Parmense, oggi si vale anche del computer per selezionare i piatti « che vanno » nei cinque ristoranti del grande albergo. Accanto allo chef, i suoi « secondi », qua-si sempre P« entremetier », uova, soufflés, guarni-zioni, e il « garde manger », antipasti e piatti freddi. Talvolta sotto-chef, sempre « creatore » all'apice del-la carriera - è l'ultimo gradino prima dell'ascesa al soglio supremo - il « saucier », l'unico che pos-sa parlare ancora di segreti, secondo la regola « si può chiedere la ricetta di un piatto, mai quella di una salsa ». In secondo rango, i capi-partita: il pa-sticcere (indispensabile), il « rotisseur »,il « poisson-nier », il « potager » e altri. Poi tutta la schiera degli aiuti, dei « commis » e giù giù fino agli sguatteri. Tutto questo consentiva, e consente, un lavoro di équipe ben organizzato. Nella sua biografia di Escof-fier, Eugene Herbodeau da un esempio pratico. Quan-do l'annunziatore - « abbaiatore », nel gergo di cu-cina — chiede, oggi al microfono, « due uova alla Mayerbeer », sono ben quattro le persone a darsi da fare: l'entremetier cuoce le uova al burro, il macel-laio taglia il rognoncino di agnello, lo apre in due e lo porta al rosticcere che lo cuoce alla griglia, il sau-cier prepara la salsa Périgueux, e tutto vien fatto confluire alPentremetier che compone il piatto (ro-gnone appoggiato sulle uova, corona di salsa al tar-tufo) e, in pochi minuti, il cliente è servito, con « mercé » ben calda e in condizioni ottime.
Reale, tutto questo, oggi? Solo in pochi casi e, ovviamente, negli alberghi e ristoranti in grado di per-metterselo. Costi di lavoro, difficoltà di reperire, an-che pagandolo benissimo, personale realmente qua-lificato, riducono sempre più la possibilità di poter seguire gli insegnamenti di Escoffier. Si ritorna, come prima che lui si mettesse all'opera, al cuoco-tutto-fare, favoriti da menù più semplici, regionali, e, guai però a dirlo, da piatti preconfezionati, fatti arrivare, alla chetichella, da laboratori gastronomici e persine dall'industria dei surgelati. Canto del cigno della gran-de brigata sono state le navi di linea e restano, in parte, quelle per le crociere di lusso. Ciò non toglie che, soprattutto se si parla di Escoffier, sia doveroso considerare la sua opera con il rispetto dovuto. Anche per ridimensionare un'altra figura, quella del cuoco-artista dei giorni nostri, convinto di aver inventato una nuova cucina, frutto, troppo spesso, di presun-zione e impreparazione. Una domanda è inevitabile: questo libro, pubbli-cato per la prima volta nel 1912, va ritenuto an-cora professionalmente valido, o si tratta solo di un reperto di archeologia gastronomica per bibliofili? La risposta è data dall'architettura dell'opera, che risulta formata, praticamente, da due parti ben di-stinte: l'antologia dei menù, e i testi, d'introduzione e di commento, dell'autore  Indubbiamente, il tempo fa sentire il suo peso su quella che dev'essere considerata la parte essenziale del libro, Vale a dire i menù che danno il titolo al volume. Escoffier era convinto di aver sfrondato e ridotto al minimo le liste lasciategli in eredità dai grandi, da Carème a Urban Dubois: e, probabilmente, la clientela dei suoi tempi era d'accordo con lui. Ma l'evoluzione del gusto e i nuovi orientamenti dietetici, che già allora il grande chef aveva « sentito » nell'aria, ci fanno considerare improponibili, per troppa abbon-danza, traducibile in calorie e in difficoltà di dige-stione, anche i suoi menù ridotti al minimo, almeno secondo i criteri di allora.
Meno lontane dalla realtà d'oggi, quelle che Escof-fier definisce le « cartes du jour » dei ristoranti, e che i direttori e il personale chiamano ancora « gran-de carte ». Sono, certamente, enormi, riuniscono un numero di voci pari a circa il triplo di quelle di una lista analoga di grande albergo attuale (penso all'Ho-tel de Paris di Monte Carlo, salone Impero - al grill tutto è più semplice - o al Connaught di Lon-dra). Ma l'ossattura resta quella, anche se, nelle «ca-se » maggiori, dove i ristoranti interni sono cinque o sei - il Plaza di New York - il computer, elaborando proposte e richieste, interviene senza misericordia, eliminando tutti quei piatti che non raggiungono il minimo stabilito. I piccoli menù, come li chiama l'autore, sono an-cora validi, come numero di voci, se sostituiscono la grande carte: assolutamente improponibili invece se, come prevedeva Escoffier, ogni menù deve essere ser-vito integralmente a una tavolata, da sei a dodici per-sone, e nel corso di un solo e unico pasto. Senz'al-tro accettabili, specie per le categorie petits hótels e a prezzo medio, le liste per le table d'hóte, vale a dire, lo si è notato, le offerte analoghe, specie in località di villeggiatura, a quelle delle nostre pensioni «tutto compreso». In genere, possibilità di scelta, dopo la minestra, fra due piatti caldi, con l'alternati-va offerta da una carne fredda, dal prosciutto o simili. Considerazioni ben diverse per quel settore di me-nù che possiamo definire «storici». Qui si può ve-ramente parlare di documenti di costume, specie nel capitolo dedicato al Carlton Hotel di Londra, la « ca-sa » dove Escoffier ebbe modo, anche per ragioni di tempo e di luogo, di dare libero corso alle sue ini-ziative, e nell'altro capitolo, ancor più importante, dal punto di vista rievocativo, dei pranzi definiti da Escoffier, con quella enfasi che i francesi identificano con panache, «presidenziali, imperiali e reali». Si tratta di documenti raccolti dall'autore, quasi sempre come elemento di studio e non per vantare la pro-pria bravura. Per il gruppo più numeroso dei « reali e imperiali », quello dei banchetti alla corte inglese, Escoffier cita anzi l'autore, lo chef delle cucine bri-tanniche Henri Cédard, degno erede, questo lo anno-tiamo noi, di quel Charles Elmé Fracantelli, italo francese, che aveva organizzato e retto, per decenni, le cucine di Vittoria regina. Del « gruppo inglese » fanno parte non solo i menù di pranzi e cene servite a Buckingham Palace, e di buffet e « luncheons » di Ascot e Windsor, ma anche le liste relative al viag-gio effettuato da re Giorgio V fra il novembre del 1911 e il febbraio dell'anno seguente, a bordo della nave Medina della Royal Navy, per raggiungere l'In-dia e celebrarvi il Dunbar, ossia la grande festa del-l'incoronazione, a Delhi. A bordo, e durante gli « alt di caccia » nel Nepal, i pasti sono piuttosto sbrigativi e semplici: ma si cerca di rifarsi nelle grandi occa-sioni, anche se il caldo deve aver preoccupato non poco quanti, in cucina e in sala, dovevano realizzare e servire i filetti di sogliola salsa tartara e i gelati Marquise (nessuna preoccupazione, invece, per l'a-gnello: in India si gioca, per così dire, in casa). Fra i menù molto importanti: quello del diner of-ferto dal presidente Loubet, a Compiègne, il 20 set-tembre 1904, allo zar e all'imperatrice, e leggenda-rio - fin troppo: a volte dubito della sua autenti-cità - quello del Café Voisin, al 261 di Rue Saint Honoré, messo in tavola per il Natale del 1870, no-vantesimo giorno dell'assedio di Parigi da parte delle armate prussiane. È il pranzo in cui avrebbero figu-rato, fra l'altro, il consommé di elefante, il cammello arrostito all'inglese, il civet di canguro e simili: tutto ottenuto « elaborando » gli animali del Jardin des Plantes, abbattuti per soddisfare la fame di qualche privilegiato. Fra l'altro, Escoffier era, in quei giorni, lontano dalla capitale: prestava servizio alla mensa della commissione di armistizio a Wiesbaden.Una considerazione fondamentale, su quei menù importanti, valida per i grandi alberghi, le feste da ballo, le nozze e, lo si veda, i pranzi reali; sono di una monotonia esasperante. Non si riesce a sfuggire alla « apertura » con le ostriche, il caviale, l'aragosta, il melone cantaloup, seguiti dalle immancabili due zuppe - il brodo di tartaruga per quella « chiara », una crema dal nome di fantasia per quella densa -e, in seguito, pochissime qualità di pesce, carne li-mitata a pollame e agnello (raro il bue) quasi obbli-gatori gli asparagi in ogni stagione - un allievo di Escoffier, il già citato Herbodeau, confessa che il mae-stro usava quelli in scatola, confezionati dalla ditta Caressa di Nizza - e il dessert. Più, naturalmente, la cacciagione e, qualche volta, a fine pasto, prima dei dolci, il foie gras. Nessuna apertura alle cucine « po-vere», né a quelle veramente regionali. Solo una volta troviamo il pot-au-feu, ossia il grande pezzo di manzo bollito, e le fave al lardo alla brettone. Ma si tratta di un « diner fraterne! » offerto ai volontari franco-canadesi, il 29 giugno 1911, in occasione di un incontro di ex combattenti.
Altra considerazione importante: Escoffier non sembra dare alcuna importanza a quello che è uno degli incubi degli organizzatori d'oggi: il giusto abbi-namento di cibi e vini. Come è facile constatare, po-chissimi sono i menù in cui i vini sono indicati: quan-do i nomi appaiono, sono r aggruppa ti alla fine, senza indicare il momento del servizio. Inoltre, se figurano i millesimi, sono tali da stupirci: possibile si servis-sero bottiglie tanto vecchie? Siamo, ricordiamolo (prima edizione), nel 1912, e si indicano, per i ban-chetti di Natale, non solo un Chateau Latour del 1875 e un Grand Musigny di dieci anni prima, ma addirittura uno champagne Lanson brut del 1900, e un Veuve Clicquot del 1884, quindi di ben ventotto anni. Può venire il dubbio che i menù siano molto più vecchi del libro; ma, a toglierci ogni perplessità, per quanto riguarda gli anni, sta il « diner presiden-tiel » del 2 maggio 1903, con il suo Haut Brion del 1877 e, ancora, il Moèt Brut Imperiai del 1889 (e quattordici anni, per uno champagne, sono qualcosa).
Ragione di tanta monotonia, e di vini così vecchi? Escoffier spiega la prima, chiaramente, nel testo in-troduttivo ai menù del Carlton, dopo averlo segnalato nella prefazione: è la clientela a imporre tali scelte. La cultura gastronomica, lo abbiamo detto, era, specie fra i danarosi, molto limitata. Per esser certi di prevalere, si pretendeva solo quanto costava molto. Lui per primo, ripetiamolo, se ne lamenta. Ma osserva quello che è, in ogni settore, il principio fondamentale del mercato libero: il cliente ha sempre ragione. E già questa sincera ammissione dell'autore fa capire quale sia il carattere e l'importanza della parte meno evi-dente, ma più «ragionata» del libro: i testi introduttivi, dall'« avant propos » a quelli che « aprono » i diversi capitoli. Diversi princìpi fondamentali di quella che po-trebbe essere chiamata la filosofia culinaria di Escof-fier sono già stati presi in esame, nelle pagine pre-cedenti, parlando, in particolare, della sua intuizio-ne - o, addirittura, preveggenza - a proposito dei nuovi orientamenti gasstronomici e alimentari, desti-nati a prevalere in futuro. Fra le altre considerazioni opportune, vi sono quelle che riguardano la parte più intimamente legata al tema del libro, vale a dire la predisposizione tecnica delle liste. Un confronto fra « allora » e oggi è significativo. Escoffier definisce gli antipasti e le minestre - si tratta, per lui, esclu-sivamente di creme, consommé e potages: i farinacei all'italiana, se appaiono, vengono serviti come guar-nizione, più tardi — degli aperitivi, sostenendo che il pranzo o la cena veri e propri cominciano con il « relevé », ossia il « grosso pezzo » di carne, un tem-po già presente in tavola, mantenuto a temperatura accettabile dal réchaud, all'inizio del banchetto, e, nei giorni in cui il nostro scriveva, affettato in cu-cina, in modo da consentire un servizio rapido, e con arrivo in tavola di vivande ancora calde. Qualcosa del vecchio cerimoniale resta, ai giorni nostri, con il « giro in sala » effettuato dallo chef o dagli stessi camerieri, quando si vuoi far vedere, sul carrello o nel vassoio, il « pezzo » ancora intatto, anche per di-mostrare l'abilità della cucina. Vittime maggiori di queste reminiscenze del passato - per certe presen-tazioni « in corteo » si ritorna al Rinascimento -sono la cacciagione di pelo rosso o nero (caprioli e cinghiali), la sella all'Orloff, il filetto «in crosta» dedicato al duca di Wellington e, se si passa alla mangiata popolaresca, la porchetta intera, con l'im-mancabile arancia in bocca.L'architettura, chiamiamola così, dei menù della Belle Epoque imponeva - si veda il testo - una o più « entrées » (secondo Escoffier, sembra escludessero il pesce), poi gli arrosti, le mousses e i soufflés, le galan-tine, persine il prosciutto freddo, il foie gras e, un tempo comunissimi e oggi scomparsi, i gamberi di fiume. Si finiva con gli « entremets » che prevede-vano non solo dolci, ma anche verdure. Questo schema riconferma quanto la lettura delle liste indica con chiarezza: troppa roba e troppo ri-corso sempre alle stesse cose. La « progressiva » di Escoffier è oggi improponibile: non solo in Italia, dove l'abbiamo sempre rifiutata in quanto « respinge » i nostri piatti preferiti, risotto e pasta asciutta, ma oltre frontiera e, in linea di massima, anche in Francia. I « vertici » ne danno l'esempio. Grazie alla genti-lezza della Segreteria del Quirinale, ho una piccola collezione di menù dei pranzi ufficiali della presidenza della Repubblica. Sono di una semplicità assoluta: di solito un timballo di riso o pasta, un piatto di carne, molto raramente un secondo, di pesce, poi subito il dessert. « Anche perché » mi ha detto il cavalier Nibbi, pri-mo chef del Quirinale « mi danno, in media, qua-ranta minuti per il servizio completo, e non so mai a che ora esatta verranno a tavola. E, qualche volta, si tratta di cento, centodieci persone». Quanto alla Francia, uno degli esempi più celebri di cena di gala dell'ultimo trentennio resta quello del banchetto offerto dal generale De Gaulle al presidente Kennedy (e signora) il 1° giugno 1961 nella Grande Galerie des Glaces di Versailles. Messa in scena ec-cezionale: sulle tavole, il sourtout di ventun pezzi, in vermeil, fatto eseguire da Napoleone I. Per i due-cento invitati, la posateria d'argento con aquila im-periale. La lista appare una specie di condensato dei princìpi di Escoffier: un potage (vellutata Sultana), una entrée di pesce (timballo di filetti di sogliola Join-ville), un relevé (filetto arrosto), uno chaud-froid de volaille e un'insalata come piatti freddi e, per finire, il gelato. Più ricco — sei portate, con il sorbetto a metà lista - il pranzo per celebrare i 2500 anni della fondazione dell'impero persiano, offerto dallo scià, il 14 ottobre 1971, a Persepoli, sotto a una grande tenda, con una spesa che diede, pochi anni dopo, un elemento in più ai rivoluzionari per defenestrare il loro sovrano.
Restiamo fedeli, invece, a quelle che Escoffier defi-nisce « regole formali, alcune accettate da molto tem-po, e generalmente osservate ». Riguardano, allora e oggi, l'alternanza dei tipi di carne, i divieti di ripe-tizioni, specie in materia di salse e di guarnizioni.
Uno dei migliori direttori generali di grandi al-berghi dei nostri giorni, Natale Rusconi, ha così sintetizzato queste regole, nel suo testo introduttivo all'edizione italiana dell'ylr/e della cucina di Pellaprat, un autore che molti considerano l'erede spiri-tuale di Escoffier:
- niente antipasto la sera, con le sole eccezioni di caviale e salmone affumicato (e, aggiungo, di un eccezionale prosciutto); - idem, niente antipasto se si propone un farinaceo, a mezzogiorno (una regola ben difficilmente fatta rispettare); - niente pasta asciutta o risotto alla sera (anche qui, ognuno fa a modo suo); - mai due cotture eguali (pesce sobbollito - bollito misto; grigliata mista di pesce-filetto ai ferri); - mai due salse eguali (gli spaghetti al pomodoro escludono le bistecchine alla pizzaiola); - mai due guarnizioni o contorni utilizzando gli stes- si vegetali, a meno che non si tratti di un pranzo« tutti asparagi », « tutti funghi » o, addirittura, se uno si vuoi rovinare, tutto con i tartufi; - mai verdura e frutta conservate - in sscatola, sur-gelate - se il mercato le offre fresche di stagione. Per i vini, aggiungiamo, studiare gli abbinamenti con cura, ma senza farsene un dramma: ogni tanto spunta un gastronomo, trionfalmente presentato in TV, che sovverte le regole (ostriche col vino rosso e magari, lo abbiamo letto, vino clinton col soufflé di cioccolato alla menta) e il mondo va avanti lo stesso. Il maggior contrasto con Escoffier penso si basi, oggi, su un principio fondamentale. Maestro indi-scusso, autorità accettata da tutti, egli appare, anche in queste pagine, molto accondiscendente, talvolta pronto all'ossequio, nei confronti della sala. Ordinate, sembra dire, e noi eseguiremo. Ciò dipendeva non solo da un presupposto, forse avallato dalla autorità di Cesare Ritz, che lo chef comprensivo e di buon carattere - non mancavano certo, anche allora, i per-malosi e gli arroganti — accettava come principio indi-scutibile, ma anche, e ancor più, dalla bravura pro-fessionale dei capi-partita, assecondati dai loro staff di esecutori attenti e solleciti (nel suo Metodo di suddivisione che chiude il libro Escoffier prevede una brigata di sessanta persone: la si trova, oggi, in po-chissime « case » e, raramente, su qualche superstite grande nave da crociera).
Situazione, per noi, completamente cambiata: po-chi veri chef - qualche centinaio, in Italia, su oltre centornila ristoranti, hotel e trattorie - e necessità di ridurre al minimmo la lista del giorno. Uno dei mi-gliori « posti » italiani, l’Harry's Bar di Venezia, si limita "a una quindicina di proposte, con pieno con-senso della clientela, sicura di poter contare su « fre-sco, rapido, raffinato ».  Da questo, un principio fondamentale, che caratterizza la ristorazione dei nostri giorni: non è più la cucina che deve adattarsi alla sala, ma, al contrario, la sala che deve adattarsi alla cucina. Senza tuttavia arrivare alla « prepotenza » di certi chef-artisti, che, ispirandosi alla pittura astratta e al Giappone, pretendono di imporre piatti singoli, « montati » in cucina, e che non lasciano al commen-sale nessuna possibilità di scelta, sia per la qualità che per la quantità. Bisogna rispettare le regole fon-damentali del servizio: vivanda nel piatto di portata, diritto del cliente di dire: «Mi dia questo, quello, lasci al caldo, forse ne vorrò ancora». Discorso semplice, ma valido:  lo chef propone, in base alle conoscenze professionali e a quanto passa il convento, il cliente sceglie e aspetta senza impazientirsi. Niente risotto in cinque minuti, ma nemmeno in tre quarti d'ora.
Comprensione reciproca, favorita ora da una in-dubbiamente più sviluppata coscienza gastronomica dei consumatori e da maggior comprensione da en-trambe le parti in causa. Proprio quello che, alla fine della sua carriera, Escoffier si augurava per « mante-nere intatte le tradizioni del passato, che debbono restare per sempre».
 

Testo ad uso di solo studio

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