LA PARETE ETERNA

A cura di SIMONE GABBIA

Collaborazione di MARIO AGATEA

Computer grafica a cura di MATTEO SCALABRIN

 

 

In un pomeriggio di luglio, mentre attraversavo dei pascoli splendidi in direzione del rifugio, mi tornavano alla memoria le frasi del mio caro amico, il maggiore Rosengarten, riguardo alla via che avrei dovuto intraprendere la mattina seguente.

Frasi che, anche al più sicuro alpinista, avrebbero fatto accapponare la pelle: -"Una via lunga diceva, difficile da individuare, che in caso di mal tempo scaricava cascate d’acqua mista a sassi, una parete"-, sentenziò alla fine, "- che aveva portato verso l’alto dei cieli la maggior parte degli alpinisti che l’avevano affrontata"-. Dal mare verde dell’alpe guardavo la via, non aveva l’aspetto così temibile come mi era stata descritta, era sì lunga ripida, con dei tetti strapiombanti a tre quarti di parete, ma non era così diversa da altre vie che avevo già affrontato. In fin dei conti non mi aveva creato grossi problemi neppure la parete nord dell’Eiger, perché avrei dovuto temere una cima dolomitica ! Due ore dopo, lungo il sentiero che dai pascoli porta al rifugio, mi si presentò la parete in tutta la sua maestosità : novecento metri di verticale bellezza. Vidi la mia via che si alzava tra torri e canalini rocciosi, poi traversava verso delle placche lisce e verticali fino a dei tetti, da dove oltrepassati quelli, le difficoltà finivano e probabilmente una facile cresta inclinata portava in cima ( dico probabilmente poiché una nuvola nera aveva inghiottito la cima cancellando ogni cosa sopra i tetti ). In quel momento nel guardare quella parete di cui non vedevamo la fine, fui pervaso da una sensazione di impotenza che nessun’altra parete mi aveva mai dato.

Restai fermo sulla terrazza del rifugio assieme al mio compagno di cordata per alcuni minuti, poi visto che la nuvola non si alzava, anzi tendeva a scendere lungo la parete, decidemmo di entrare. L’atmosfera dentro era quella dei vecchi rifugi alpini ancora legati alla tradizione. Con noi nella calda sala da pranzo c’erano solo due austriaci, come noi e un gruppo di italiani dalla grappa facile.

Verso le otto notai che la canna del camino tirava poco: - "Che la pressione stesse calando ?"-, pensai. Mi alzai e andai sulla terrazza del rifugio a guardare il cielo, mi riconfortai: nonostante la temperatura non fosse bassa il cielo si era rasserenato, anche la grande nuvola che avvolgeva la nostra parete si era dissolta, donandoci la vista dell’ultimo raggio di sole rosato sulla cima della montagna. Rientrammo in rifugio, ci facemmo preparare due termos di tea e andammo a dormire.

Alle cinque della mattina uscimmo dal rifugio, albeggiava, la mite temperatura non lasciava prevedere nulla di buono, ma noi quella mattina non volevamo credere a un cambiamento del tempo, anche perché le previsioni parlavano di tempo stabile per tutta la settimana. In breve arrivammo alla base della parete, individuammo il camino e iniziammo la salita. I primi otto tiri di corda erano facili : roccia buona, ben appigliata, orientamento banale; procedevamo spediti, protetti da quel lungo camino che tagliava la parete tra torrioni e guglie dolomitiche. Arrivammo ad una cengia dove tirammo un po’ il fiato, guardammo nella gola duecento metri più in basso il rifugio e ci compiacemmo per la velocità con cui avevamo superato il primo salto roccioso. Il sole intanto aveva superato la cima della nostra montagna e illuminava le pareti di fronte e i prati dell’alpe. Camminammo lungo la cengia in cerca della continuazione della via, ma non fu un impresa semplice: la relazione parlava di una placca che portava a un diedro dove c’erano due chiodi per far sicura; percorremmo la cengia da destra a sinistra per venti minuti, ma dei chiodi neanche l’ombra; alla fine quando stavo per decidere di rinunciare, il mio compagno Erik trovò due buchi ai piedi di una placca liscia che portava effettivamente a un diedro strapiombante.

Innervosito da quella perdita di tempo iniziai ad arrampicare lungo la placca, ma con parecchia fatica. Sfruttando ogni piccolo appiglio per le mani, dovetti più volte spostarmi in cerca del passaggio più opportuno, ma finalmente, dopo svariati tentativi riuscii e guadagnare il diedro, che si alzava per quindici metri fino ad un misero ballatoio, dove mi assicurai e feci salire Erik. La via portava lungo un traverso che ci spostava sul versante ovest della montagna ; guardai in alto e attaccando la seconda placca della parete mi accorsi che sopra di noi il cielo era di un celeste pallido, sbiadito dall’umidità che non accennava a diminuire. Cercai di accelerare la progressione in parete, conscio delle parole dettemi dal maggiore Rosengarten, ad ogni sosta, appena Erik arrivava e mi assicurava, io ripartivo con ossessiva rapidità verso il tiro successivo.

Eravamo circa a metà della parete su un terrazzino quando un fronte nuvoloso molto simile ad una cortina fumogena scavalcò la cresta della montagna che avevamo di fronte e annerì rapidamente il cielo sopra di noi . Subito la montagna cambiò faccia : divenne scura e inospitale, anche i prati sul fondo del ghiaione erano diventati grigi e monocromatici, e un aria fredda e umida ci investì repentinamente. Approfittammo di questa sosta abbastanza comoda per infilare le giacche a vento e continuammo la nostra salita, che ben presto si tramutò in una vera lotta per la sopravvivenza. Infatti, dopo pochi minuti, mentre ero intento a passare uno spigolo molto esposto un bagliore squarciò il cielo, seguito da un tuono fortissimo che rimbalzò tra le pareti come una palla da bigliardo.

Ne seguì un altro e un altro ancora, fino a che cominciò a piovere sempre più forte.

Con un ultimo balzo guadagnai una cengia dove mi assicurai e feci salire Erik. Fu proprio lui, che salendo, si ricordò che la relazione parlava di una seconda cengia da dove si poteva accedere a una grotta, unico punto di riparo di tutta la parete. Ci incamminammo lungo la cengia immersi ormai nelle nubi, con la pioggia che ci cadeva addosso a secchi e i lampi che scaricavano la loro tensione sulle dentellate creste attorno a noi. Finalmente la grotta : vi entrammo, ci allontanammo dall’ingresso per evitare di essere folgorati dai fulmini e aspettammo bagnati fradici la fine del temporale. Cercammo di riscaldarci con il tea caldo che avevamo nei termos, e per la prima volta mi colse la paura di rimanere bloccato in parete. Il temporale aveva oscurato completamente il cielo e continuava a piovere a dirotto goccioloni misti a grandine. La temperatura si era abbassata repentinamente gelandoci addosso gli indumenti umidi che avevamo. Osservammo attentamente la relazione: sopra di noi avevamo ancora una placca ed un tetto poi saremmo usciti sulla cresta della montagna, dove con un percorso facile avremmo raggiunto la cima, da qui si poteva scendere per la via normale, lunga, ma abbastanza sicura: se il temporale cessava potevamo riuscire nella nostra impresa. Rincuorati da quelle constatazioni, aspettammo con impazienza la fine del nubifragio, che però non voleva concedere tregua alla nostra montagna. Nel primo pomeriggio, quando ormai ci eravamo rassegnati a passare la notte in quella angusta caverna la pioggia parve cessare, il cielo si fece più chiaro e delle macchie di azzurro si aprivano la strada tra le nubi della perturbazione. Uscimmo velocemente dalla caverna e ci riportammo sulla nostra via. Riscaldati da qualche raggio di sole che faceva timidamente capolino tra le nuvole, iniziai a salire verso i tetti strapiombanti della parete, la roccia era bagnata e dovevo fare particolarmente attenzione a non scivolare. Guardavo giù e vedevo il rifugio, settecento metri sotto di me, da dove lontani escursionisti si affrettavano a ritornare verso casa prima di un nuovo temporale. Cosa che non tardò a farsi sentire. Arrivati sotto il tetto, infatti, in lontananza ricominciò a tuonare e il sole sparì nuovamente tra dense nuvole che risalivano dalla valle e condensavano via, via che salivano lungo la parete. Ormai eravamo alla fine, dovevo assolutamente passare il tetto prima che ricominciasse a piovere, se no, avremmo dovuto improvvisare un bivacco in parete.

Un secondo tuono, più forte dell’altro, mi fece capire che dovevo affrettarmi. Mi ci volle quasi un’ora; un’ora che per il mio amico Erik fu interminabile.

Io purtroppo non avevo altra scelta: il passaggio era estremamente delicato, non c’erano chiodi e dovetti attrezzare la parete tutta da me per passare in sicurezza ed utilizzare anche per un ragno, lavorare orizzontali con un salto di settecento metri, non è la cosa più semplice di questo mondo. Nonostante tutto, dopo ripetuti tentativi riuscii a passare una mano oltre il tetto ed a tirarmi su sulla cresta che portava alla cima.

Dopo poco mi ritrovai con Erik sulla cresta in direzione della croce di vetta. Incalzati dal temporale e dalla notte che ormai era alle porte, non ragionavamo più.

L’unico desiderio era ormai arrivare al bivacco e riposare sani e salvi. I tuoni erano sempre più violenti e i fulmini che li precedevano elettrizzavano l’aria tutto attorno. Fu quando arrivammo in cima che ci rendemmo conto della violenza del temporale che stava arrivando: un muro di nuvole ad una diecina di chilometri da noi ribolliva, folgorando la terra con un fulmine dietro l’altro, con fragori inauditi.

Mentre il fronte avanzava lungo i prati dell’alpe verso di noi, Erik ed io girovagavamo, tra la poca luce rimasta, per la piatta cima in cerca della via normale per scendere. Il paesaggio era apocalittico: la grande croce della cima si stagliava nel cielo plumbeo ogni qual volta veniva illuminata dal bagliore di un fulmine, il vento rinforzava richiamato dalla perturbazione, e nuvole sempre più alte e minacciose circondavano la montagna.

Finalmente trovammo un ometto di pietre sopra un canalone: era la via normale di discesa. Ci calammo nell’oscurità, terrorizzati dalle visioni di vetta, verso il fondo del canalone da dove una stretta cengia portava al bivacco. La sua visione fu per noi pari a quella del marinaio che approda a un lido amico durante una tempesta; ci gettammo dentro e ancora tremanti per la paura, il freddo, la tensione nervosa, attendemmo l’arrivo del temporale che manifestò la forza di tutti i suoi elementi per tutta la notte.

La mattina dopo scendemmo dalla via normale e arrivati al rifugio sapemmo che il nubifragio a cui noi eravamo miracolosamente scampati aveva causato danni gravissimi. Noi ci ritenemmo molto fortunati di essere usciti vivi da quella tremenda avventura, anche se ci resteranno sempre nella memoria gli scenari fantastici e terribili che abbiamo vissuto in cima.

A cura di Simone Gabbia

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Ultimo aggiornamento: 08 Dicembre 1997.

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