Quando trattare l’aritmia extrasistolica ventricolare

(tratto e modificato da "RASSEGNA INTERNAZIONALE DI CARDIOLOGIA"

a cura di Paolo Pucci – Scientific Press s.r.l. – Firenze)

L’extrasistolia ventricolare è una turba del ritmo che si riscontra molto frequentemente, sia nei cardiopatici che in soggetti sani.
Deve essere valutata in relazione a tre aspetti:
1) se costituisce un fattore potenzialmente capace di innescare aritmie pericolose per la vita
2) se interferisce sfavorevolmente con la funzione di pompa
3) se è causa di disturbi soggettivi che incidono sulla qualità di vita del paziente

I criteri di valutazione del rischio hanno avuto un’evoluzione negli ultimi anni; inizialmente si teneva conto soprattutto della frequenza dei BEV e della loro forma e complessità: vedi tab. 1 e 2

                     Frequenza delle extrasistoli

Classe 0 Nessuna extrasistole
Classe I Rare (< 1 BEV/ora)
Classe II Infrequenti (1-9 BEV/ora)
Classe III Intermedia (10-29 BEV/ora)
Classe IV Frequenti (>30 BEV/ora)

                               Tab. 1

 

                            Forma delle extrasistoli

Classe A Monomorfe (monofocali)
Classe B Polimorfe (polifocali)
Classe C Forme ripetitive (coppie, salve 3.5 battiti)
Classe D TV non sostenuta (> 6 battiti; < 30 secondi)
Classe E TV sostenuta (> 30 secondi)

                                                   Tab. 2

Recentemente si è cercato di precisare meglio il grado di pericolosità dell’aritmia integrando la valutazione quantitativa-qualitativa con aspetti patologici, emodinamici, sintomatologici e ECGrafici; sulla base di questi criteri sono state classificate aritmie ventricolari benigne, potenzialmente maligne. (tab. 3).

                                                      Classificazione clinica (tab. 3)

 

Benigne

Potenzialmente

Maligne

Maligne

Rischio morte improvvisa Molto basso o assente Moderato Alto
Presentazione clinica Asintomatiche o palpitazioni Asintomatiche o palpitazioni Palpitazioni o sincope

Arresto cardiaco

Patologia associata Assente Presente Presente
Ipertrofia o pregresso IMA Assente Presente Presente
Frequenza BEV Bassa o moderata Moderata o alta Moderata o alta
Coppie BEV o TVNS Assente Comune Comune
TVS spontanea Assente Assente Presente
TV inducibile Assente Assente o presente Presente
Conseguenze emodinamiche Assenti Assenti o lievi Moderate o severe

Malgrado questa classificazione rappresenti un buon riferimento, in realtà l’entità del rischio dipende da molti altri fattori, solo parzialmente noti, tra i quali l’azione del sistema neurovegetativo, le alterazione metaboliche e la condizione patologica responsabile dell’aritmia.

Fino agli anni ’80 era opinione comune che un farmaco antiaritmico (ben tollerato e capace di ridurre significativamente l’incidenza dell’aritmia) fosse sempre utile per il paziente in quanto si riteneva che l’abolizione dell’aritmia o anche la sola riduzione delle forme complesse comportasse di conseguenza la riduzione di aritmie maligne. Questo convincimento ha ricevuto di recente una clamorosa smentita proprio nella cardiopatia ischemica postinfartuale, infatti in questo stato patologico l’abolizione o la riduzione dell’aritmia non comportano necessariamente una riduzione della mortalità.

 

L’extrasistolia ventricolare in assenza di cardiopatia

Entità del rischio
In soggetti clinicamente sani una registrazione casuale dell’ECG rileva un’aritmia extrasistolica ventricolare nello 0.7% dei casi; questa prevalenza aumenta fino al 40-50% se si esegue ECG dinamico Holter; anche durante sforzo fisico massimale, in soggetti sani, non è infrequente (15-44% dei casi) rilevare BEV; solo in una minoranza di casi si riscontrano forme complesse.
Il significato prognostico dell’aritmia ventricolare complessa nel soggetto sano è stato valutato in uno studio prospettico: si è osservato che l’aritmia extrasistolica, anche complessa, in soggetti asintomatici non comporta un rischio aggiuntivo di eventi se non è associata una patologia cardiaca. Talora però è difficile rilevare la presenza di una patologia cardiaca iniziale che in alcuni soggetti con BEV solo a distanza di mesi o anni è stata evidenziata una chiara patologia cardiaca: la probabilità che a distanza venga riscontrata una cardiopatia risulta essere tanto maggiore quanto più grave è l’aritmia ventricolare.
Pertanto di fronte ad una aritmia extrasistolica ventricolare complessa per frequenza o per morfologia e persistente si deve comunque fare una riserva sulla possibile esistenza di una patologia organica, anche quando al momento dell’osservazione mancano riscontri oggettivi in proposito.
Recentemente è stato segnalato che l’ECG ad alta risoluzione può essere utile per individuare, fra i soggetti sani con BEV, quelli che svilupperanno una cardiopatia e perciò più esposti al rischio di una evoluzione sfavorevole dell’aritmia. Perciò l’ECG signal averaging per la sua facilità di esecuzione e ripetibilità, si prospetta come una delle migliori metodiche per individuare i soggetti con BEV e cardiopatia inapparente.

Obiettivi della terapia
Lo scopo del trattamento è quello di controllare i sintomi spiacevoli, tanto maggiori quanto migliore è la funzione ventricolare sinistra.
Pertanto la decisione di iniziare il trattamento antiaritmico è condizionata dalla rilevanza della sintomatologia soggettiva e viene presa solo se la semplice rassicurazione o un preventivo trattamento ansiolitico risultano insufficienti.

Effetto proaritmico dei farmaci antiaritmici

Viene definito effetto proaritmico la comparsa di nuove aritmie o l’aggravamento di quelle esistenti (per incremento della durata o frequenza, facilitazione di innesco, maggiore difficoltà di interruzione).
Tale effetto deve essere distinto dall’effetto tossico in quanto il fenomeno non si verifica per un sovradosaggio ma a concentrazioni ematiche comprese nel range terapeutico.
L’effetto proaritmico è raro in assenza di cardiopatia e, nel caso di cardiopatia, si verifica di regola con frequenza e gravità tanto maggiori quanto più grave è la disfunzione ventricolare; di norma si verifica subito dopo l’inizio del trattamento e generalmente entro la seconda settimana.

 

L’aritmia extrasistolica ventricolare in presenza di cardiopatia

 

Cardiopatia ischemica

Infarto miocardico acuto

Entità del rischio
Nelle prime 4 ore dall’esordio dei sintomi dell’IMA un’aritmia extrasistolica ventricolare è presente in oltre il 90% dei casi, ma il 50% dei casi la fibrillazione ventricolare (FV) insorge senza essere preceduta da extrasistoli. Quindi il riscontro di BEV prima della FV non indicherebbe un nesso causale ma rappresenterebbe piuttosto un reperto del tutto casuale. Anche l’importanza del fenomeno R su T, ritenuto della massima pericolosità nell’ordinamento di Lown, è stata messa in dubbio; esso ha un valore predittivo sufficiente per individuare i soggetti a rischio e non consente di discriminare quelli che avranno FV da quelli che non l’avranno.
Studi recenti documentano che il rischio di FV più che dalla presenza dell’aritmia extrasistolica dipende dalla sede anteriore, dall’estensione della necrosi ed in particolare dall’entità dell’attivazione simpatica e dall’eventuale presenza di ipokaliemia.

Obiettivi della terapia
Dato che l’extrasistolia ventricolare non può essere ritenuta premonitrice di TV e di FV, l’eventuale trattamento non mira a prevenire aritmie ventricolari maggiori ma ad evitare che, in una condizione di precarietà emodinamica, la turba del ritmo possa favorire l’insorgenza di insufficienza cardiaca o causare una riduzione della perfusione miocardica che potrebbe aggravare l’ischemia.
Perciò la terapia viene riservata ai casi che presentano una frequenza elevata di extrasistoli ventricolari o extrasistoli in ritmo bigemino.
Il farmaco da somministrare resta la lidocaina o, in alternativa, la mexiletina; solo nei casi resistenti può essere indicato l’uso dell’amiodarone.
 

Infarto miocardico pregresso

Entità del rischio
L’Holter mostra la presenza di BEV nell’85% dei pazienti non trombolisati e nel 65% di quelli trombolisati.
Il maggior rischio è correlato con la numerosità dei battiti extrasistolici e con la loro complessità.
La mortalità a sei mesi aumenta più del doppio nei soggetti in cui il monitoraggio rileva BEV con frequenza media superiore a 10 battiti/ora; la mortalità aumenta anche in relazione al grado di complessità dell’aritmia. In presenza di forme complesse la mortalità è circa doppia che nell’extrasistolia comune.
Quindi la presenza di 10 o più battiti/ora o di un’aritmia ventricolare complessa sono eventi che hanno valore predittivo per mortalità improvvisa.
Esiste una relazione statisticamente significativa fra l’incidenza dell’aritmia (battiti/ora) e la mortalità anche a distanza di un anno dall’episodio acuto infartuale.
Tuttavia va sottolineato che la probabilità di individuare i soggetti che presenteranno eventi (TV, morte improvvisa) risulta bassa anche se si selezionano i pazienti con la maggiore numerosità di extrasistoli o con extrasistoli ventricolari complesse. Per migliorare il valore predittivo, insieme all’extrasistolia ventricolare, vanno considerati altri parametri come la presenza e la gravità della disfunzione di pompa del ventricolo sinistro, il rilievo di potenziali tardivi ventricolari, la riduzione della normale variabilità della frequenza sinusale.
Gli indicatori di rischio hanno però una elevata capacità di individuare i soggetti che non avranno eventi aritmici ma sono insufficienti per segnalare quelli che viceversa sono destinati ad averli e per i quali potrebbe essere indicato un eventuale trattamento antiaritmico preventivo.
Per migliorare il valore predittivo sono state proposte numerose strategie: nei soggetti con BEV > di 10/ora o con BEV complessi, il rischio potrebbe essere meglio precisato valutando con l’ecocardiogramma la funzione ventricolare sinistra ricercando la presenza di potenziali tardivi con l’ECG signal averaging (positività di una sola variabile individua una categoria di pazienti con probabilità di eventi fra il 4 e 14%; la contemporaneità il 35%).
Altri Autori suggeriscono invece una valutazione in 2 fasi: la prima si avvale solo di esami non invasivi e valuta la riduzione della funzione ventricolare sinistra all’eco (FE < 40%), l’aumento di durata del QRS filtrato all’ECG signal averaging (>106 msec), la presenza di 2 o più episodi di TV non sostenuta al monitoraggio delle 24 ore; il verificarsi di 2 delle 3 condizioni permetterebbe di raggiungere un valore predittivo positivo per eventi aritmici gravi del 44%. Solo in questi soggetti dovrebbe essere eseguita la seconda fase di indagine che prevede lo studio elettrofisiologico.

        

                                                            Classificazione dei farmaci antiaritmici

Classe Azione Farmaci
I Stabilizzante membrana  

                                                                   Moderata

                                                              

 

 

 

Depressione velocità depolarizz.                Lieve

 

 

 

                                                       Marcata

 

                                                                                                                                                                               

 

 

 

Chinidina

Procainamide

Disopiramide

 

 

Lidocaina

Mexiletina

Difenilidantoina

 

Flecainide

Encainide

Propafenone

II Blocco dei beta-recettori Propranololo

Altri beta-bloccanti

III Prolungamento periodo ripolarizzazione Amiodarone

Sotalolo

IV Blocco dei canali del Calcio Verapamile

Diltiazem

 Antiaritmici della Classe I
Encainide e flecainide sono stati saggiati contro placebo (studio CAST); nonostante fossero soggettivamente ben tollerati, i soggetti trattati hanno mostrato un eccesso di mortalità cardiaca in confronto al gruppo cui è stato somministrato placebo. Questo risultato ha indotto ad interrompere anticipatamente lo studio. In questo studio il rischio di morte o di arresto cardiaco era risultato minore nei casi con infarto con onda Q in confronto ai casi con infarto non Q: questo rilievo fece ipotizzare che l’effetto negativo sulla prognosi potesse essere proprio in relazione con eventi ischemici aritmogeni. L’aumento della mortalità registrato nei soggetti trattati con flecainide o con encainide potrebbe essere stato conseguenza di un effetto proaritmico secondario, cioè collegato ad un evento, l’ischemia acuta, che determina un’improvvisa variazione del substrato aritmogeno.

Antiaritmici della Classe II
E’ accertato che la terapia beta-bloccante riduce la mortalità improvvisa che occorre entro un’ora dall’esordio dei sintomi; il beneficio del trattamento beta-bloccante è maggiore nei pazienti a più elevato rischio di morte improvvisa (cioè quelli con funzione ventricolare sinistra depressa e con aritmia ventricolare complessa). Questo risultato è ottenuto nonostante che il beta-bloccante possieda un effetto di soppressione delle extrasistoli ventricolari inferiore agli altri antiaritmici, e in effetti la riduzione della morte improvvisa non è risultata strettamente correlata al grado di soppressione dell’aritmia, per cui l’abolizione o la riduzione della stessa non rappresenterebbero un prerequisito necessario per ottenere la riduzione della mortalità improvvisa.

Antiaritmici della Classe III
L’amiodarone ha dimostrato di poter ridurre la mortalità dei pazienti che hanno superato un infarto miocardico acuto, ma non è certo che l’effetto sia ottenuto per l’azione antiaritmica.
Il sotalolo è stato saggiato in confronto ad altri 6 farmaci antiaritmici della classe I, rispetto ai quali ha ridotto in maniera statisticamente significativa il rischio di morte.

 

Effetto dei farmaci antiaritmici in presenza di scompenso cardiaco post-infartuale

In caso di insufficienza cardiaca l’aritmia extrasistolica ventricolare, se molto frequente tanto da realizzare un ritmo bigemino o trigemino, può aggravare i sintomi dello scompenso. Il BEV è infatti meno efficace sul piano meccanico e può comportare una riduzione della gittata sistolica perché riduce il tempo di riempimento ventricolare e si perde il contributo atriale. Ciò indurrebbe a trattare l’aritmia ma è necessario tenere presente che l’uso degli antiaritmici in corso di scompenso deve essere prudente perché una eventuale azione inotropa negativa del farmaco può aggravare l’insufficienza cardiaca e perché in caso di scompenso il rischio di un effetto tossico o di un effetto proaritmico è maggiore.
Nello scompenso cardiaco è l’amiodarone l’antiaritmico che sarebbe da preferire.
Non ci sono tuttavia dati che dimostrino che la correzione di una aritmia extrasistolica ventricolare nello scompenso postinfartuale si traduce in un beneficio sulla sopravvivenza. E’ noto invece che gli ace-inibitori migliorano la prognosi dei pazienti con scompenso cardiaco, ed una terapia che corregge lo scompenso può anche, in alcuni casi, ottenere una riduzione delle extrasistoli ventricolari.

 

Altre cardiopatie

 Dopo che il CAT ha dimostrato che un trattamento antiaritmico soggettivamente ben tollerato ed efficace sull’aritmia può comportare una prognosi peggiore, diviene opportuno rivalutare le indicazioni al trattamento dell’aritmia extrasistolica ventricolare anche in patologie diverse dalla cardiopatia ischemica, avendo presente che il risultato non può essere misurato solo sul grado di soppressione dell’aritmia ma deve considerare se la terapia migliora la prognosi riducendo gli eventi aritmici maggiori e la mortalità.

 Miocardiopatia dilatativa (CMD)

Entità del rischio
I soggetti affetti da questa patologia presentano in grande maggioranza extrasistoli ventricolari e incidenza elevata di morte improvvisa. Alcuni Autori hanno rilevato che la morte improvvisa è più frequente nei casi che presentano maggiore numerosità e complessità dei BEV, ma altri studi non hanno segnalato tale relazione.
Il significato prognostico dell’extrasistolia ventricolare nella cardiomiopatia dilatativa si differenzia da quello della cardiopatia ischemica cronica perché il substrato aritmogeno è molto diverso.
Nei soggetti con CMD la presenza di potenziali tardivi e l’inducibilità di una tachicardia ventricolare monomorfa sostenuta sono nettamente meno frequenti che in quelli con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale. Nella CMD l’ECG signal averaging, l’analisi della variabilità R-R e lo studio elettrofisiologico non risultano, per valutare l’entità del rischio di morte improvvisa, così utili come nei pazienti con IMA pregresso.
E’ stato inoltre rilevato che in una quota non irrilevante di pazienti con CMD la morte improvvisa non sia causata da TV o FV (38%) ma l’evento terminale sia rappresentato da una dissociazione elettromeccanica o da asistolia.

Obiettivi e risultati della terapia
Anche nella CMD la riduzione del numero e della complessità dei BEV ottenibile con una appropriata terapia antiaritmica non si accompagna sempre ad una effettiva riduzione del rischio.
I farmaci della classe I, sebbene efficaci per sopprimere l’aritmia, hanno un impatto sulla sopravvivenza generalmente non favorevole; una della cause è probabilmente da ricercare nell’effetto cardiodepressivo. Tra quelli di più recente introduzione solo la mexiletina, avendo un effetto inotropo negativo molto lieve, non comporta generalmente il rischio di aggravare il grado di disfunzione ventricolare sinistra in pazienti con scompenso cardiaco.
I farmaci della classe I dotati di effetto cardiodepressivo hanno una efficacia minore quando lo scompenso è più grave, cioè proprio nei casi più esposti al rischio di eventi e con manifestazioni aritmiche generalmente più gravi.
Risultati più incoraggianti sono ottenuti con l’amiodarone, un farmaco gravato solo da un limitato effetto cardiodepressivo. Alcuni dati fanno ritenere che nella CMD l’amiodarone possa avere un effetto più favorevole di quanto documentato in soggetti con cardiopatia ischemica scompensata.
Al contrario di quanto dimostrato nella cardiopatia ischemica, nella CMD non è certo che l’impiego dei farmaci beta-bloccanti possa ridurre la mortalità da causa aritmica; il propranolo non ha ridotto significativamente l’incidenza della morte improvvisa nonostante sia stato registrato un effetto favorevole sulla funzione ventricolare sinistra e sulla condizione clinica dei pazienti.

 

Displasia aritmogena del ventricolo destro

Entità del rischio
E’ una malattia che interessa soggetti giovani e si manifesta con aritmie ipercinetiche ventricolari spesso coincidenti o esacerbate dall’esercizio fisico. All’Holter, con frequenza anche maggiore dell’aritmia extrasistolica ventricolare, spesso si registrano periodi di tachicardia ventricolare non sostenuta e tachicardia ventricolare sostenuta.
Questi pazienti sono esposti ad un rischio di aritmie ventricolari gravi e di morte improvvisa, la cui entità non è ben precisata. Il rischio aritmico è notoriamente elevato in caso di ipocinesia di 2 o più segmenti del ventricolo destro o di dilatazione dello stesso.
Per individuare i soggetti a rischio risulterebbe utile lo studio elettrofisiologico (valutando l’inducibilità della TV).

Obiettivi e risultati della terapia
E’ stato ampiamente dimostrato un effetto favorevole della terapia antiaritmica sulla prognosi dei pazienti con displasia aritmogena del ventricolo destro: i migliori risultati sono stati ottenuti con l’impiego del sotalolo.

 

Miocardiopatia ipertrofica

Entità del rischio
L’insorgenza di aritmie in questa patologia è facilitata dalle tipiche alterazioni strutturali delle fibrocellule miocardiche, da alterazioni delle giunzioni intercellulari, da ispessimento delle membrane basali ed aumento del tessuto connettivo che riducendo la velocità di conduzione favoriscono l’insorgenza di aritmie da rientro.
La semplice aritmia extrasistolica non avrebbe importanza per la prognosi, ma il rischio di morte improvvisa sarebbe sette volte maggiore nei soggetti in cui l’Holter documenti la presenza di tachicardia ventricolare sostenuta.
Alcuni Autori hanno osservato che i pazienti con cardiomiopatia ipertrofica che più frequentemente vanno incontro a sincope, sono quelli nei quali, per una sovrastimolazione dei meccanorecettori parasimpatici del ventricolo sinistro durante sforzo fisico, si determina una inappropriata vasodilatazione periferica da riflesso vagale con caduta pressoria.
L’alterazione emodinamica con aumento del gradiente del tratto di efflusso del ventricolo sinistro ed ischemia da ipoperfusione sarebbe il fattore scatenante l’aritmia ventricolare fatale.

Obiettivi e risultati della terapia
I beta-bloccanti possono ridurre il gradiente dinamico della stenosi subaortica e svolgere un’azione anti-ischemica: nonostante questi effetti non è dimostrato che riducano l’incidenza della morte per aritmia ventricolare fatale mentre risulta che possono migliorare la sintomatologia soggettiva. Miglioramento soggettivo è stato tuttavia ottenuto anche con verapamil o diltiazem che di norma non hanno azione antiaritmica sull’extrasistolia ventricolare.
Qualche risultato positivo sulla prognosi quoad vitam è stato riportato con l’amiodarone.

 

Cardiopatia ipertensiva

Entità del rischio
In pazienti ipertesi con ipertrofia ventricolare sinistra è stata riscontrata extrasistolia ventricolare frequente (media oraria di 475 battiti) cioè 40 volte maggiore rispetto a quella rilevata in ipertesi senza ipertrofia. In numero e complessità delle extrasistoli aumentano in relazione al grado di ipertrofia ventricolare, senza che questa comporti un consistente rischio per morte improvvisa.

Obiettivi e risultati della terapia
La riduzione o l’abolizione dell’aritmia nei pazienti con cardiopatia ipertesiva è ottenibile non solo con gli antiaritmici ma anche con alcuni farmaci ipotensivi, soprattutto se hanno la proprietà di far regredire l’ipertrofia ventricolare (ace-inibitori, verapamil, diltiazem, beta-bloccanti).

 

Cardiopatie valvolari

Entità del rischio
I pazienti con vizio valvolare aortico hanno una elevata prevalenza di extrasistoli ventricolari, anche complesse; la gravità dell’aritmia è tanto maggiore quanto più elevata è la tensione parietale ed avanzato il grado di compromissione della funzione sistolica ventricolare sinistra.
Nonostante l’elevata incidenza, l’aritmia extrasistolica ventricolare non sembra condizionare in maniera importante la prognosi.
Anche nell’insufficienza mitralica cronica l’aritmia è un reperto frequente; le extrasistoli ventricolari complesse sono ritenute un segno prognostico severo, anche se il fattore determinante la cattiva prognosi sembra essere l’entità della disfunzione ventricolare sinistra più che l’aritmia stessa.
Nell’insufficienza mitralica da prolasso valvolare, il significato prognostico dell’aritmia è dubbio.

 

Conclusioni

Prima di iniziare una terapia dell’aritmia extrasistolica ventricolare è necessario valutare non solo l’entità della turba del ritmo indicata dalla numerosità e complessità dei battiti ectopici e l’entità della sintomatologia soggettiva correlata ma, soprattutto, se la presenza di aritmia condizioni un rischio di eventi aritmici maggiori o di morte improvvisa e se il trattamento farmacologico possa apportare qualche reale beneficio.
Questa valutazione non può prescindere dall’analisi della condizione patologica che è causa delle extrasistoli perché il rischio di aritmie ventricolari maggiori è fortemente condizionato dalla presenza e dal tipo di cardiopatia.
Nel soggetto esente da cardiopatia il rischio di aritmie maggiore è minimo o assente e la decisione di trattare l’aritmia ventricolare dipende unicamente dalla presenza di una sintomatologia che arreca disturbo al paziente sul piano somatico o psicologico. In questo caso, dopo aver escluso la presenza di fattori endocrinologici, metabolici o iatrogeni che possono aver determinato o favorito l’insorgenza dell’aritmia, può essere giustificato ricorrere ai farmaci antiaritmici se altri provvedimenti più semplici come la rassicurazione o un blando ansiolitico non sono risultati sufficienti.
In assenza di cardiopatia la probabilità di ottenere la soppressione totale o parziale delle extrasistoli e quindi il controllo dei sintomi soggettivi è elevata mentre è improbabile un eventuale effetto proaritmico. Se non esiste un rischio di aritmie maggiori e il paziente è asintomatico la terapia antiaritmica non è giustificata.
Quando la turba del ritmo si verifica in soggetti affetti da cardiopatia è importante individuare i casi in cui l’aritmia extrasistolica rappresenta un rischio per il paziente (indagini che valutano la funzione di pompa del ventricolo sinistro, la presenza o meno di potenziali tardivi, la variabilità dell’intervallo R-R, l’inducibilità di tachicardie ventricolari sostenute mediante stimolazione ventricolare).
Il tipo di cardiopatia condiziona anche il risultato della terapia antiaritmica per quanto riguarda sia la possibilità di ottenere la soppressione della turba del ritmo sia la possibilità di migliorare la prognosi. Bisogna comunque ricordare che, anche quando l’aritmia rappresenta con certezza un fattore di rischio di eventi aritmici gravi o di morte improvvisa, la riduzione o anche la completa soppressione dell’aritmia extrasistolica non possono essere considerate sufficienti per affermare che il trattamento è utile per migliorare la prognosi.
Se da una parte la riduzione o l’abolizione dell’aritmia non possono essere ritenute garanzia di una prognosi migliore, può anche accadere che un farmaco solo parzialmente efficace sull’aritmia sia invece molto utile sul piano prognostico perché capace di ridurre l’incidenza della morte improvvisa, come è stato dimostrato dai beta-bloccanti nella cardiopatia postinfartuale.
Poiché il risultato ottenuto sull’aritmia può non coincidere con quello relativo alla prognosi non in tutti i casi è opportuno perseguire con la terapia solo quello che è stato definito "effetto cosmetico", vale a dire la semplice soppressione dell’aritmia extrasistolica ventricolare.

 

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