Passò un anno e ancora
non si erano avute notizie delle spie del Re; i generali e i soldati cominciavano
a sperare che non tornassero mai più, ma il Re cominciava a dare
segni d'impazienza, radunò il consiglio e chiese ai suoi saggi perché
secondo loro, il manipolo non era ancora tornato. I saggi si ritirarono
in meditazione e dopo tre giorni, comunicarono al re il loro illuminato
parere: le spie non erano ancora tornate perché il regno più
potente del mondo era molto lontano e perché gli dei volevano dar
tempo al Re, prima della prossima guerra, di mettere al mondo un erede
per il suo grande regno.
Il sovrano, che quasi sempre
teneva nella dovuta considerazione i pareri dei saggi, decise allora di
prendere moglie; ordinò che fossero convocate a corte tutte le figlie
e le nipoti dei Re che fino ad allora aveva sottomesso per scegliere la
donna che sarebbe stata la madre del suo erede.
Quando tutte le principesse furono
al castello, egli ordinò ai suoi saggi di sottoporle a delle prove
e di scegliere quella che si fosse rivelata la più degna.
I saggi esaminarono a fondo le
pretendenti ed alla fine decisero che erano rimaste in lizza solo due principesse,
tra le quali il Re poteva liberamente scegliere.
Allora il sovrano convocò
le due donne nella sala del trono: erano tutt'e due ugualmente belle, così
il Re disse loro che avrebbe scelto per moglie quella che, con le parole,
avrebbe saputo convincerlo.
La prima a parlare fu la principessa
Ebe, figlia del re di Càstera: "Mio sovrano," disse "sono forte
e sana e sicuramente ti darò un maschio, ti amerò e ti ubbidirò
se sarai tanto saggio da scegliere me."
Poi il Re diede la parola all'altra
principessa: "Sono Gioia, figlia di Saro e di Mara" disse lei alzando gli
occhi per incontrare lo sguardo del re, cosa veramente inconcepibile per
l'etichetta di corte, e proseguì: "Non so se potrò darti
un maschio e non so nemmeno se potrò amarti, ma se sceglierai me,
farò il possibile per renderti felice".
Il Re rimase in silenzio per
un po' con gli occhi persi nel blu degli occhi di Gioia, poi si alzò
e le si avvicinò, la prese per mano e le disse: "Scelgo te, principessa
Gioia, e ti prometto che saremo felici".
I festeggiamenti per il matrimonio
durarono giorni e giorni e tutti erano felici perché convinti che
non ci sarebbero state più guerre, ora che il Re aveva una moglie
così bella e dolce.
Passò un altro anno e il
Re radunò il Consiglio per annunciare che la Regina era in attesa
di un figlio; furono tutti molto contenti dell'annuncio, perché
la Regina era riuscita a farsi amare da tutto il popolo: aveva sempre una
parola di conforto per chi soffriva e pregava il Re di essere clemente
ogni volta che questi doveva giudicare un suddito. Anche il Re era al settimo
cielo e sembrava aver dimenticato le sue velleità guerrafondaie.
Furono chiamati i migliori medici
del regno perché seguissero la gravidanza della Regina e il Re le
era sempre accanto, perché amava sua moglie più di qualsiasi
altra cosa.
Arrivò il giorno in cui
la Regina fu pronta a mettere al mondo l'erede; il Re aspettava notizie
nella sala del trono, pieno di felicità e di speranza; pensava che
mai avrebbe abbandonato la sua Regina e il suo erede, che mai più
sarebbe andato in guerra.
Entrò il ciambellano di
corte e disse: "Mio Re, hai una figlia, ma... la Regina é morta".
Il Re pianse e si disperò,
rifiutò persino di vedere la figlia, perché incolpava lei
della perdita della sua amata moglie. La bambina venne chiamata Gioia,
come la madre, e fu affidata ad una nutrice, ma il Re, chiuso nel suo dolore,
non ne chiedeva mai notizie.
Un giorno, infine, tornarono i
soldati che il Re aveva mandato per il mondo per scoprire quale fosse il
Regno più ricco e più potente. Il Re sembrò scuotersi
dal suo torpore per ascoltare ciò che le sue spie avevano da riferire:
il Regno più potente del mondo era molto lontano, in riva all'oceano,
era talmente ricco che i suoi monumenti erano scolpiti nell'oro e nelle
pietre preziose, il suo popolo viveva nell'ozio e il Re aveva dieci mogli
tutte giovani e belle. Quel regno era così ricco e potente, perché
il suo Re aveva al suo servizio la maga più potente del creato:
Magda, che poteva creare ricchezze inenarrabili e proteggere il Regno da
qualsiasi nemico.
Il Re, che aveva ascoltato in
silenzio, si alzò e disse: "Non credo che la maga Magda potrà
difendere quel regno anche contro il mio grande esercito, ordino che le
truppe si preparino alla partenza!"
A niente valsero le parole dei
saggi che cercavano di dissuadere il Re da quella pazzesca impresa; in
un mese l'esercito fu pronto a partire. Il Re si allontanò dal suo
castello, alla testa delle sue truppe, senza neanche voltarsi, senza un
pensiero per sua figlia, né un rimpianto.
Passarono molti anni: il Re ed
il suo esercito avevano subito sconfitte che avrebbero fatto desistere
chiunque, ma il Sovrano continuava la sua guerra contro un Regno felice,
lui che felice non sarebbe stato mai più. Neanche una volta, in
quegli anni aveva pensato a sua figlia, neanche una volta si era chiesto
se lei fosse viva o morta, o che aspetto avesse.
Un giorno, un soldato entrò
nella tenda del Re e gli disse che una donna voleva vederlo e che nessuno
sapeva come lei avesse fatto ad arrivare fin lì, senza che le sentinelle
del campo la vedessero. Quando la donna fu al cospetto del Re disse: "Sono
Magda, e ti ordino di ritirare le tue truppe e di tornartene a casa; se
domani mattina il tuo campo sarà ancora qui, tramuterò tua
figlia in gelido alabastro."
Prima che il Re potesse aprire
bocca, la donna era sparita e a nulla valsero le ricerche fatte al campo.
Pieno di rabbia, Yaso radunò le sue truppe e sferrò un potente
attacco alla cittadella nemica, ma non riuscì a superare le difese
avversarie neanche questa volta.
La sera, nella sua tenda, il Re
Yaso si trovò a ripensare alle parole della maga e provò
un vago malessere; cercò di addormentarsi, ma i suoi sforzi furono
vani. Pensò di mandare un manipolo di soldati al suo castello perché
si accertassero che tutto andava bene, ma chissà quanto tempo ci
avrebbero messo ad andare e tornare, così decise di lasciare la
guerra in mano ai suoi generali, almeno per il momento, e di tornare a
casa.
Quando Yaso rivide la fertile
campagna del suo regno, provò una gioia che mai avrebbe pensato
di poter provare, lanciò al galoppo il suo cavallo, sentendosi nel
cuore una pace antica. In città la gente si inchinava al suo passaggio,
ma nessuno faceva festa per il suo ritorno, il Re lanciò al galoppo
il suo cavallo, preso dalla smania di arrivare al castello.
Lo accolsero i saggi con le facce
cupe, senza guardarlo negli occhi e Yaso provò una stretta al cuore;
chiese di sua figlia, ma nessuno ebbe il coraggio di rispondergli.
La cercò per tutto il
castello e quando la trovò rimase annichilito: immobile, con gli
occhi tristi era il ritratto della donna che Yaso aveva amato più
del suo regno, più della sua stessa vita.
Dopo tanti anni, Yaso pianse.
Pianse sulla sua compagna perduta, su sua figlia, sulla sua vita. Pianse
incurante dei saggi che gli erano accanto, della sua dignità, pianse
per il dolore che provava e per il dolore che aveva cagionato. E le sue
lacrime bagnarono le mani della statua che ripresero vita e si posarono
sulla testa del Re: "Padre," mormorò Gioia, "solo il tuo dolore
ed il tuo amore hanno potuto salvarmi."
Il Re Yaso ritirò le sue truppe dall’assedio al regno felice e visse gli anni che gli rimanevano, insieme a sua figlia, tra i suoi sudditi, felici di aver ritrovato il Re giusto e umano di una volta.