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RITORNO SUL DON (seconda parte)
Immagine:
In una piazza di Rossosh, foto di gruppo dei partecipanti
al pellegrinaggio sul Don organizzato dall'associazione Reduci di Russia
di Belluno.
I Monumenti.
Forse in Russia è previsto dalle disposizioni del
partito che tutti i turisti vedano i monumenti eretti agli eroi sovietici
di quella che per loro è stata "La Grande Guerra Patriottica":
ma non ne ho mai visti tanti come in questi giorni fra Kiev, Mosca e Charkov
e di molto simili ne avevo già visti anche a Bucarest e a Sofia.
Sono monumenti pieni solo di retorica, con le statue che sembrano fatte
in serie: ieratiche figure di donne che con una mano accarezzano la testa
dei bambini che si riparano timidi fra le loro lunghe gonne di forti contadine
e con l'altra indicano "là", verso "il sol dell’avvenir".
Il soldato al loro fianco, arma pronta alla mano, sta per
partire e con la sua imponente figura di eroe protegge Bimbo, Madre, Famiglia
e Patria.
Non voglio irridere al valore del soldato sovietico né
alla grande virtù e unità di un popolo che col sacrificio
di venti milioni di suoi cittadini ha combattuto e vittoriosamente difeso
la sua terra dagli invasori: intendo solo dire che si potrebbero ricordare
le guerre in maniera meno enfaticamente superficiale. Ma è una considerazione
inutile perché la retorica di chi vince è sempre uguale in
tutto il mondo.
Anche da noi.
Quanti non sono i monumenti sparsi per l'Italia in ricordo
della la Guerra Mondiale dove soldati nudi, ma con elmetto e giberne, stanno
volando verso il cielo della gloria?
Però a Charkov un monumento mi ha particolarmente
colpito. È stato eretto in un bosco, sul luogo dove quasi
sessantamila cittadini sono stati uccisi dai tedeschi e sepolti in grandi
fosse comuni: avevano la sola colpa di aver tentato di resistere all'invasore
per difendere la loro terra. È una tomba di marmo lunga forse quaranta
metri: simboleggia la fossa comune e sul suo fianco, in bassorilievo, sono
ricordati i tragici momenti che la città ha vissuto. La fossa è
custodita da un'alta figura di donna, le mani sul grembo, sul volto i segni
del dolore: è la Madre che veglia sui suoi figli Caduti mentre un
lento e forte tum... tum... tum... cadenza il tempo che passa o forse i
palpiti del Suo cuore.
Anche questa può essere retorica, ma non lo è
più se il pensiero va alle Vittime di quell'eccidio i cui resti
sono ancora qui, così vicini.
Uno scossone improvviso mi fa tornare anche con l'attenzione
su questo pullman che dondola e sobbalza a ogni buca, a ogni dosso, a ogni
asperità di questa strada malandata che mi sta portando verso il
Don.
Natascia ha appena terminato di dare alcune informazioni
sulla Repubblica Federativa di Russia nel cui territorio siamo entrati
da poco.
Per tenerci allegri qualcuno, in fondo al pullman, intona
qualche vecchia canzone, poi alcuni lieti cori di montagna e infine risuonano,
gravi e tristi i nostri canti di guerra: canti di soldati che rivivono
il tango e il freddo nelle trincee, il ricordo dei compagni Caduti, il
dolore dei parenti e la nostalgia di tornare a casa. Così l'allegria
della comitiva si smorza.
Siamo per lo più reduci e familiari di Caduti e Dispersi
in Russia. Stiamo andando sul Don, vogliamo arrivare dove si è tragicamente
fermata la vita di tanti fratelli e dove è finita la gioventù
di tutti, anche di noi che siamo tornati, perché in quei giorni
siamo diventati vecchi, dentro.
Qui ora stiamo portando tutti un peso, per noi reduci il
peso dei ricordi e per i familiari il peso del dolore e dell'ansia di sapere.
Fra tutti mi considero il più fortunato. La nostra
meta è Nova Kalitva, a un tiro di schioppo da quel bunker dove ho
vissuto gli ultimi giorni della mia avventura sul Don. Ma nemmeno io so
se potrò cercare e trovare quel buco nella steppa. Gli altri Reduci,
ad eccezione degli alpini della "Julia", non hanno mai sentito
nemmeno nominare Nova Kalitva; i familiari poi non sapranno nemmeno come
e dove sono rimasti Quelli che ora vengono a ricordare.
Ma per tutti il Don è la meta, è la realizzazione
di un sogno, di un desiderio e sono certo che ci appagherà tutti.
Viaggiamo ormai da quattro ore. La strada, anche se la chiamano
"autostrada", non consente velocità medie che superino
di tanto i 40 chilometri all'ora. Sarà ancora lunga.
Natascia, la bravissima interprete che ci accompagna, sta
rispondendo alle domande che la nostra curiosità le pone sulla loro
vita, sulla loro situazione sociale, politica, culturale ed economica.
Ci interessa sapere come sentono e vivono la perestroka di Gorbaciov: le
sue risposte sono precise ed esaurienti e ascolto con attenzione, ma ogni
tanto gli occhi guardano dal finestrino del pullman e allora la mente si
distrae.
Fuori il piatto paesaggio autunnale scorre lentamente, monotono
e freddo: a grandi estensioni di steppa con l'erba dei pascoli ormai ingiallita
si alternano altrettanto grandi estensioni di campi coltivati, coperti
dai verdi germogli di grano che sarà raccolto la prossima estate.
I viaggi che attraversiamo sembrano tutti uguali: una più
o meno lunga doppia fila di isbe ai lati della strada e poi di nuovo la
steppa. Dei paesi più lontani si intravedono solo i bassi tetti,
le isbe sembrano immerse in un mare di terra. Tento di leggere i cartelli
indicatori ma i caratteri cirillici che allora avevo imparato a decifrare
sono troppo difficili ora per me.
Uno però mi riesce di leggerlo: "Scebekino".
Chiediamo una sosta e scendiamo.
Scebekino: qui ebbe termine finalmente la marcia disperata
del Corpo d'armata Alpino e qui, i superstiti, ebbero i primi soccorsi
e la prima assistenza da parte dei nostri servizi d'Armata.
Guardo le isbe lontane allineate ai bordi della strada interna
e rivedo il paesaggio di sempre: piccole isbe ognuna al centro di un piccolo
appezzamento recintato e, attorno, sconfinate e vuote distese di terra
fino all'orizzonte.
Ben presto su queste pianure, su questi villaggi, si poserà
la neve e tutto sarà come allora.
Riprendiamo il viaggio e verso le due del pomeriggio una
grande scritta su un'altissima colonna di cemento ci annuncia che siamo
a Valujki.
Qui finì il peregrinare dei resti della "Cuneense",
della "Vicenza" e degli ultimi uomini della "Julia":
qui, dopo aver vagato dieci giorni nella steppa, dopo 10 giorni di continui
combattimenti per aprirsi un varco "verso baita", spossati, affamati,
congelati, feriti, furono costretti alla resa assieme ai Comandanti delle
loro Divisioni.
A Valujki ci fermiamo per il pranzo nella salamensa di un
Kollioz. Un gruppo di case, una chiesa, un mercato ora chiuso e il vento.
Ho ritrovato il vento della steppa. Chissà da dove
arriva, ma freddo e furioso mi sferza il viso e il corpo come allora. Non
ci sono ripari alla sua forza, al suo andare, in questa pianura piatta
e senza niente che ne possa rompere l'impeto.
Avremmo tutti bisogno di una toilette, dopo sei ore di pullman:
ce n’è una, fuori della mensa, ma chi vi si è avvicinato
dice che è inaffidabile.
Dopo il pranzo risaliamo sul pullman e riprendiamo il viaggio.
Mentre facciamo a ritroso la strada che fecero allora gli alpini per uscire
dalle sacche, con i vicini si parla di questi luoghi e di quello che allora
vi è accaduto: qualcuno chiede, chi è in grado di farlo risponde.
Io guardo la steppa, guardo questa pianura che continua sempre uguale,
sempre la stessa: sembra vuota e morta. I villaggi, se ci sono, sono lontanissimi
l'uno dall'altro e raramente si vedono, infossati come sono nelle baite
dove trovano un po' di riparo dal vento che non smette mai di soffiare.
E ripenso alla mia avventura: come abbiamo fatto io, il Borsa e il Buratto
ad attraversare a piedi questo deserto ricoperto di neve, da soli? Non
ci vuole molto a sbagliare direzione quando la nebbia a malapena ti lascia
intravedere la pista.
Verso sera arriviamo a Rossosh
dove aveva sede il Comando del Corpo d'Armata Alpino.
Dopo cena andiamo a visitare il museo di guerra. Lo ha creato
e diretto il prof. Alim Morosov, simpatico e disponibile, profondo conoscitore
dei luoghi e degli avvenimenti che hanno interessato la zona di Rossosh
durante la 3a Guerra Mondiale nel periodo della occupazione dapprima da
parte dei tedeschi arrivati da conquistatori e poi da parte degli alpini.
Nel museo, in una sezione italiana, sono raccolti reperti, cimeli, parti
di armi, foto, cartoline, gavette e altre cose che testimoniano la nostra
presenza.
Una foto di un T34 che corre nella
neve e nel freddo mi ricorda il mio T34, quello che mi ha fermato sulla
strada per Kantemirovka. Un'altra foto, scattata allora proprio a Kantemirovka,
mostra le croci di un cimitero e vi si leggono ancora i nomi di alcuni
fanti del 90° Fanteria della mia divisione "Cosseria". Ci
sono foto delle nostre postazioni, delle nostre armi. È certo difficile
riconoscere i luoghi ma penso che ogni Reduce riveda se stesso dentro quelle
buche, in quei camminamenti negli ultimi giorni tremendi, con i morti nelle
trincee scoperte in attesa che la "vasellina" venisse a portarli
via.
Mi colpisce la cordialità con la quale veniamo ricevuti
e soprattutto la bandiera tricolore, che è stata esposta in nostro
onore nel museo, anche se è attaccata all'asta per il colore sbagliato.
Da Rossosh vorrei spedire alcune cartoline a casa e ai parenti.
Le cerco ma ci sono solo vedute di Voronez, capitale della Provincia.
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