Quell'omaccione in jeans e maglione rosso
(ricordando il mio primo incontro con Giorgio Pasquini)
di Lamberto Laureti
 

Il mio primo impatto con la speleologia risale agli anni in cui frequentavo ancora il liceo. Su di un giornalino per studenti, a cui inviavo speranzoso i miei parti poetici, avevo letto, inizialmente con curiosità, poi con vivo interesse, alcuni articoli sulle esplorazioni sotterranee di Norbert Casteret in cui si raccontava, e la cosa mi colpì molto, come egli cominciò ad andare in grotta facendosi luce con un moccolo di candela.
    La mia attenzione a questo genere di cose non sarebbe probabilmente andata oltre se non avessi fatto, di lì a poco, un’esperienza concreta: durante un’afosa estate, già matricola universitaria, stavo preparando il mio esame di zoologia (che poi mi avrebbe fruttato il primo e unico trenta della mia carriera), nella fresca aria dell’alta valle dell’Aniene, ospite di amici nell’assonnato paesino di Jenne (località in seguito divenuta una delle basi più frequentate per le imprese dello Speleo Club). Da essi mi giunse la proposta, per rompere la monotonia di quelle giornate, di una gita giù al fiume, con una visita alla Grotta dell’Inferniglio, una delle tante attrattive di quei luoghi, già celebri, del resto, sia per gli anfratti che fornirono rifugio a San Benedetto (in seguito proclamato patrono degli speleologi), sia per i romantici soggiorni di Antonio Fogazzaro.
    L’esplorazione (tale fu, almeno per me, quell’impresa) dell’Inferniglio, condotta anch’essa, in ricordo e ad imitazione di Casteret, a lume di candela, mi portò, al di là del senso di meraviglia e dell’ammirazione per gli aspetti così affascinanti del sottosuolo, alla scoperta di un vero e proprio cimitero di pipistrelli, i cui poveri scheletrini, soprattutto il cranio, mi riempirono di eccitazione, quasi avessi trovato chi sa quale tesoro. La permanenza in grotta fu piuttosto lunga anche perché quella volta il sifone iniziale era praticamente asciutto, facilitando così la prosecuzione. Finite le vacanze estive e ripresi i corsi all’università, l’interesse e non più la semplice curiosità mi spinse a documentarmi, anche dopo aver trovato nella biblioteca di famiglia una vecchia guida delle grotte di Postumia.
    Ma sarà solo nei mesi successivi, in autunno inoltrato, che potei fare il mio ingresso ufficiale nei ranghi della speleologia attiva. Come fresco studente del secondo anno di Scienze geologiche avevo cominciato a frequentare le lezioni di Paleontologia, quando un giorno fui colpito da un avviso esposto sulla porta dell’Istituto di Geologia dal suo direttore, il buon Carmelo Maxia, che invitava i giovani studenti ad iscriversi al Circolo Speleologico Romano. Fu così che, come Giulio Cesare, visto, letto e fatto, mi ritrovai a scendere le scalette che immettevano nella grande sala che costituiva la sede del Circolo.
    La mia curiosità era anche motivata dall’aver visto, qualche settimana prima, un servizio fotografico su Epoca, che illustrava le fasi della spedizione internazionale al Gouffre Berger alla quale aveva preso parte anche uno speleologo romano. Che fu poi il primo omaccione che mi venne presentato, con deferenti sorrisi, da quelle due vecchie talpe del Circolo che erano Franco Pansecchi e Mariano Dolci. Foderato di jeans e maglione rosso, mentre armeggiava con una carburo, venni portato al cospetto di Giorgio Pasquini che, sbattendo i tacchi, mi strinse calorosamente la mano.
    Il suo largo sorriso ed il suo spontaneo cameratismo subito mi conquistarono, insieme con la sua estroversa confidenzialità ed il suo dilagante decisionismo che automaticamente trasmettevano una forte carica di entusiasmo. Questa capacità di coinvolgimento altro non era che un aspetto, certo uno dei più significativi, del suo carisma. Perché fu proprio questo il carattere distintivo di Giorgio, rispetto agli altri: quello di essere stato una figura carismatica, nel senso pieno del termine, e al di là dei suoi difetti e delle sue virtù.
 
    Come tutte le personalità carismatiche, infatti, egli era in grado di trasfondere in chi lo frequentava l’essenza delle sue qualità, così da realizzare un vero e proprio stato di sintonia, che solo una forte capacità di riflessione e di autocontrollo da parte dei suoi interlocutori poteva mettere in discussione. Il che avveniva, a volte, con reazioni particolarmente violente e capaci di generare irriducibili antagonismi che, tuttavia, nel suo intimo, lo ferivano in quanto, al di là di certi suoi propositi battaglieri, il suo animo era fondamentalmente buono ed onesto e la sua generosità morale praticamente senza limiti. Ci vorrà, comunque, ancora del tempo per poter mettere a fuoco, nella giusta misura, la personalità di Giorgio Pasquini che, oltre le impressioni dei singoli, ha avuto risvolti sicuramente complessi, soprattutto a giudicare dalle alterne e non di rado contraddittorie vicende che hanno caratterizzato la sua vita e i suoi rapporti sociali. Ed altrove occorrerà mettere ben in luce l’entità del suo apporto allo sviluppo della speleologia romana e nazionale, sia sul piano tecnico sia sotto il profilo scientifico.
    Durante i lunghi anni del nostro sodalizio abbiamo avuto molteplici occasioni di confidarci i nostri problemi e di confrontare le nostre esperienze personali, reciprocamente accettando i dissenzienti giudizi o addirittura i rimproveri, in quanto consapevoli l’uno dell’altrui onestà morale. I luoghi di queste occasioni erano di solito apparentemente inusuali: dal campo sul Plateau de Sornin durante la spedizione al Berger al rifugio Donegani in Apuane, dal duro pavimento di un’osteria di Rovere sulla strada per i Piani di Pezza in una polare notte dicembrina alle ombrose gole che precedono l’antro del Bussento, ma anche lunghe conversazioni telefoniche in ore notturne o antelucane.
    Il mio cruccio attuale, insieme con la remora a scrivere queste poche righe, derivano dal non essergli stato vicino negli ultimi difficili anni della sua vita. Forse, al di là di qualche modesto sostegno materiale, avrei potuto dargli o, meglio, restituirgli un poco del tanto che da lui ho ricevuto. Nel bilancio consuntivo del nostro rapporto le sue voci sono infatti largamente in attivo rispetto alle mie. Lo dimostra l’avvio del mio percorso scientifico e professionale, iniziato solo grazie al suo stimolo ed ai suoi incitamenti, mentre a lui devo tutto quello che ho imparato nel campo speleologico ed alpinistico.
    Quando ci siamo rivisti, un anno fa, in quella fredda cappella del San Camillo, lui con la sua sahariana e gli immancabili calzettoni rossi, ho capito quanto mi fosse veramente mancato in questi ultimi venti anni e quanta parte di me se ne fosse andata con lui.
 

Roma, maggio 1999.

© 1999 di Lamberto Laureti.


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