Cronaca di una iniziazione
di Giuseppe M. Licitra
 

Roma, novembre del '59, tempo di caccia alle matricole. Biagio "Baffo" Camponeschi, studente di Geologia di lungo (fuori)corso e notissimo cacciatore di matricole, si presenta in Università sfoggiando all'occhiello un vistoso pipistrello smaltato che accende il mio interesse.
    "Cosa rappresenta?", gli chiedo incuriosito. "È un distintivo speleologico", risponde lui con sussiego, dall'alto dei suoi numerosi bollini, e prosegue: "Sai, io faccio speleologia, andavo per grotte col Circolo, ma ora abbiamo fondato lo Speleo Club che è ancora meglio...", e mi dà l'indirizzo dello SCR, al quale mi suggerisce di rivolgermi per ogni ulteriore informazione.
 
    La "grotta", immaginata come un antro buio e misterioso, è uno di quei miti che hanno solleticato la mia fantasia fin da bambino, è un luogo che finora ho visto soltanto al cinema e in qualche rara fotografia, un luogo che mi incuriosisce, mi affascina, e non mi sembra vero di poter riuscire finalmente a toccarlo con mano.
    Dunque mi reco al Club diverse volte, fino a quando riesco a trovarlo aperto. È un bugigattolo di fronte al Colosseo, una via di mezzo tra una cantina, un magazzino e un ripostiglio; in una stanza semibuia una scaletta metallica pende da un gancio nel soffitto e scompare nel buio in una botola nel pavimento. Nella stanza accanto, in un angolo, un tizio batte a macchina sotto l'unica debole lampadina appesa ad un filo elettrico nudo, mentre altri tre chiacchierano e ridono tra loro.
    "Salve!", dico intimidito - ho riconosciuto nei presenti alcuni assistenti di Petrografia, Mineralogia e Geografia fisica - "ho avuto il vostro indirizzo da "Baffo" Camponeschi, mi ha detto di rivolgermi a Giorgio per iscrivermi al club e per fare speleologia...".
    "Benvenuto!", tuona uno dei quattro con un vocione baritonale, "io sono Giorgio, Giorgio Pasquini. Ti presento Antonello Angelucci, Giancarlo Negretti e Lamberto Laureti...", e mi sommerge con un fiume di parole e di pacche sulle spalle.
    "Hai mai fatto speleologia? Hai l'attrezzatura? No? Bene! Io ti presto la tuta, tu pensa a comprare un paio di stivali di gomma, una lampada a carburo - bada che sia una "Stella" con parabola! - tre metri di cordino, due moschettoni d'acciaio e un casco di plastica da cantiere. Firma qui, scuci tre piotte a Lamberto per il mese, e sei dei nostri. Tutti i venerdì siamo aperti, non sempre gli altri giorni. Vieni quando vuoi, sarai sempre benvenuto. Adesso comincia ad esercitarti su quella scaletta mentre noi finiamo la riunione, poi andiamo tutti a farci una pizza".
    Torno il venerdì; si presentano altri tre giovani, Nino Toro, Nietta Sinibaldi e Carlo Casale, studenti di Geologia come me; anche loro vogliono fare speleologia, vogliono iscriversi. Io mi sento già un "anziano", ho messo piede sulle scalette prima di loro, li squadro dall'alto in basso.
    "Domenica andiamo a fare la prima uscita, una grotta semplice: si va tutti a Pozzo Sventatore", annunzia Giorgio col suo vocione. "Adesso, però, è l'ora della pizza!".
 
    Domenica mattina. Cade una pioggiolina sottile, di quelle che penetrano fin dentro il midollo. Sto tutto intirizzito a Porta Pia, ai piedi del bersagliere, in attesa che passino a prelevarmi. Il giorno prima ho rimediato da Giorgio la tuta - una robusta mimetica con vistosi polsi gialli fluorescenti, che mi accompagnerà per parecchi mesi; ci nuoto dentro, ma è meglio che niente, tanto più che ho dato fondo alle mie magre finanze per comprare il resto dell'attrezzatura.
    Arrivano. Mi imbarcano nell'auto del Negretti e via di corsa verso Mentana, poi, superato il paese, giù per una fangosa stradina di campagna. La comitiva, stipata in due auto, è composta da Giancarlo Negretti, Giorgio Pasquini, Franco Burragato, Marco Feraudi, io e gli altri tre nuovi soci, più una certa Marisa, belloccia e formosetta, con gonna stretta e tacchi a spillo, e un tipo magrolino ed emaciato (Silvio Durante) che chiamano "Vitamina", boy friend della ragazza.
    La prima sorpresa mi attende quando, lasciato il tepore dell'auto, arriviamo alla grotta: non si tratta dell'imboccatura di una caverna nella quale ci si addentra in posizione eretta (chissà perché la mia idea di grotta si era ancorata a quell'immagine?), ma di un repellente buco nel terreno, con i bordi piuttosto fangosi e costellati di cespugli che fuoriescono dalle pareti.
    Io e gli altri novizi ci guardiamo l'un l'altro titubanti, mentre i nostri mentori ancorano le scalette ad un albero poco distante ed armano la discesa. Giancarlo scende per primo, Giorgio e Franco si alternano a far sicura, mentre lui va giù velocemente. La sua figura sempre più piccola viene inghiottita ben presto dalle tenebre, non si vede più neppure la fiammella della lampada; poi è la volta di Nino, poi di Nietta. Dal basso, attutite dalle pareti del pozzo, giungono le loro vibrate proteste per la difficoltà della discesa.
    "Io avrei cambiato idea: non mi va più la speleologia, non ho voglia di sporcarmi e non voglio calarmi là dentro. E poi c'è troppo freddo... Ho deciso di non scendere!". Risate omeriche.
    "Vuoi forse restare a reggere il moccolo a Marisa e "Vitamina"?", mi fa Giorgio, ironico (i due sono rimasti a passeggiare nel fango, abbracciati sotto un ombrello). "Ti bagneresti ancora di più, e poi qui fa più freddo!... Dai, è meglio la grotta". La prospettiva di restare solo sotto la pioggia è poco invitante, forse Giorgio ha ragione, mi lascio convincere.
    "Ma dove c*** sono gli scalini?", e giù, uno dopo l'altro, scalini e moccoli in colonna, in una teoria che sembra non aver fine. La scala continua verso il basso, si perde nel buio; è una faticaccia d'inferno, ma dopo un tempo che a me sembra un'eternità riesco ad approdare su uno scivolo fangoso e sdrucciolevole che si perde in una specie di imbuto.
    "Attento a dove metti i piedi, se scivoli finisci dritto nel lago che c'è più sotto!...", mi fa Giancarlo. "Be', è finito? Tutta qui, la grotta? Tutta 'sta fatica per così poco?", faccio io al colmo dell'irritazione. "Nient'affatto", risponde serafico, "siamo solo a metà; ora c'è l'altro salto e passiamo nella caverna principale, vedrai che ne vale la pena".
    Srotoliamo l'attrezzatura e armiamo: altri trenta metri di scale vengono inghiottiti da una scomoda fessura poco distante. Ormai rassegnati al nostro destino, io e i tre colleghi ci lasciamo legare alla sicura e, uno dopo l'altro, atterriamo su una stretta lama di roccia in una grande caverna della quale si distinguono a stento i contorni. Tutto attorno è il vuoto, il buio totale, il nulla.
    Impreco tra i denti contro me stesso, le mie fantasie infantili, la mia sciocca curiosità, la mia stupidità, che mi hanno condotto fin qui, con tanto fango, umido, freddo, fatica... Intanto arrivano Giorgio e Giancarlo, che calano altre scalette sotto la nostra piattaforma e scendono ancora fino al lago.
    "Volete scendere anche voi? È bellissimo!...". Noi quattro, rannicchiati in un angolo, ci limitiamo a scuotere il capo, ormai distrutti. La stanchezza ci attanaglia, quasi ci paralizza.
    Giancarlo si lascia intenerire e decide che per noi è ora di risalire. Si inerpica su per le scalette, seguito a ruota da Marco; uno dopo l'altro scompaiono nella volta del cavernone. Io, Carlo, Nietta e Nino, li seguiamo mogi mogi, lasciando che siano loro a guidarci, a decidere per noi.
    Mentre Giancarlo assicura Giorgio che torna su col materiale, Franco dà l'assalto al pozzo d'ingresso, poi sale Giorgio, e Giancarlo - il più metodico e umano - rimane con noi a dirigere e controllare la ritirata. Ad uno ad uno ci lega in vita la sicura, spiegandoci come fare la gassa d'amante. E ricomincia il nostro calvario.
    "Tira!...". Nietta si ferma a metà scala, non vuole più continuare. "Tira!...". "Dai, è facile, solo qualche scalino ancora, ormai sei fuori!...". "Tiraaa!...".
    Carlo è il più in gamba di noi quattro, se la cava con onore e con una sola sosta a metà scala. "Tiraaaaa, porc***!...". Io e Nino tiriamo a sorte a chi va prima; tocca a me. Sarei rimasto volentieri laggiù, pur di non dover rifare quella scala. Alcuni pipistrelli mi svolazzano attorno, vanno verso l'alto: siamo già all'imbrunire.
    Lassù, a migliaia di miglia di distanza, si intravede l'imboccatura del pozzo, una minuscola gemma luminosa incastonata nel velluto nero. C'è anche un pezzetto di cielo azzurro, non più ingrigito dalle nubi.
    "Tira, accidenti: non ce la faccio più!...". Sono a pezzi, ogni scalino richiede uno sforzo titanico. Mi fermo a pochi metri dall'uscita, con un nodo di pianto in gola. "Tira, porcaccia miseria!...". Gli ultimi metri volano via veloci, con Giorgio e Franco che tirano di buona lena e mi recuperano quasi di peso.
    Mi abbandono esausto sull'erba bagnata, mentre escono anche Nino e poi Giancarlo, e si recupera il materiale. Giuro a me stesso che non entrerò mai più in una grotta finché campo, neppure in portantina... ma il vocione di Giorgio interrompe le mie elucubrazioni: "E adesso tutti a Mentana, all'osteria: ci aspettano i più favolosi spaghetti del mondo!...". E i miei propositi rinunciatari svaniscono nell'eccitante attesa dell'uscita successiva.
 
    Da allora sono trascorsi quasi quarant'anni, non vado più in grotta ormai da tempo, se non in casi eccezionali e che non comportano alcun impegno fisico, per problemi di salute; ma da quel giorno - soprattutto per merito di Giorgio - il fango di grotta mi è entrato nelle vene e la speleologia fa parte della mia quotidianità.
    Dopo la mia partenza da Roma, nel '60, ho riincontrato Giorgio ancora qualche volta, in giro qua e là per l'Italia speleologica, poi ci siamo persi di vista.
    Dalla lista degli speleointerdetti ho appreso che Giorgio ci ha lasciati per sempre un anno fa, ma il suo ricordo in me è sempre vivo: io, infatti, ricordo sempre con commozione, affetto e nostalgia, quell'uggiosa giornata di novembre ormai così lontana, e la mia terribile ed esaltante esperienza a Pozzo Sventatore, quell'esperienza in cui proprio Giorgio, con la sua carica di entusiasmo, di allegria, di umanità, ha guidato i miei primi passi sotto terra e mi ha insegnato che la speleologia è qualcosa che devi sentire dentro...
    "Benvenuto!... Scuci tre piotte a Laureti e firma qui. Ed ora che sei dei nostri, vieni con noi a farti una pizza!".
 

© 1999 di Giuseppe M. Licitra.


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