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Un pallone aerostatico plana su un prato verdissimo tra Oxford e Londra. Un uomo anziano cerca di scenderne, ma rimane goffamente impigliato in una fune. Dai quattro angoli del prato corrono verso il pallone imbizzarrito alcuni soccorritori che tenteranno senza successo di trattenerlo. Uno di loro morirà e agli altri resterà il compito impossibile di farsi una ragione di quella tragedia inutile. In particolare, Joe Rose si troverà invischiato in una storia di ossessione amorosa assurda e grottesca, perseguitato da un altro dei soccorritori, Jed Parry, un giovane che, avendo vissuto insieme a lui quell'avventura terribile, si è convinto di doverlo amare e di doverne essere riamato.
recensione di Rognoni, F., L'Indice 1997, n.11
Benché l'amore di cui tratta quest'ultimo romanzo di Ian McEwan sia anche senza dubbio "fatale", il titolo originale, "Enduring Love", porta in tutt'altra direzione. Quella di un sentimento possente ma nient'affatto distruttivo, paziente, che resiste ("endures") al tempo e a ogni tribolazione; e con connotazioni semmai bibliche (Giobbe), piuttosto che elleniche (il fato), quindi romantiche, decadenti, e infine smaccatamente cinematografiche (come in "Attrazione fatale" e nel più opaco "Passione fatale").
Ciò detto (e precisato anche che una traduzione letterale, e altrettanto efficace, probabilmente è impossibile), mi sembra che lo schietto titolo italiano funzioni comunque benissimo: anzi, forse sia addirittura più appropriato del titolo originale, che certo è più bello e ambizioso. Ma anche, temo, assai pretenzioso: troppo impegnativo - ironico e al tempo stesso profondamente "morale" - per una vicenda che vivacchia del proprio intreccio, e tutto il resto che tira in ballo (ed è moltissimo: da Milton e Keats al neodarwinismo, da Lewis Carroll alla nevrosi delle coppie senza figli, al triste e comico tramonto della cultura hippy, ecc.) è soprattutto zavorra.
Appunto quella (la zavorra) che manca al pallone aerostatico della smagliante, e decisamente "fatale", scena iniziale. Cinque uomini vi si aggrappano per trattenerlo a terra, e salvare il ragazzino intrappolato dentro: ma il vento è troppo forte, il pallone si solleva e, uno dopo l'altro, i soccorritori sono costretti a mollare la presa - tutti tranne l'eroico (?) John Logan, che resiste inutilmente finché non è troppo tardi, e in pochi secondo appare come "un rigido bastoncino nero" contro il cielo. "Non ho mai visto una cosa più atroce di quell'uomo che precipitava", commenta Joe Rose, le cui disgrazie sono ancora tutte da cominciare.
E infatti, da qui in poi la storia è quella dell'amore assoluto che Jed Parry, un altro dei soccorritori superstiti, fanatico religioso e visibilmente folle (la diagnosi finale sarà di un'astrusa "sindrome di de Clérambault"), si convince di "ricambiare" per il detto Joe Rose. Il quale, poveraccio, che non è più "gay" di tanti eterosessuali felicemente sposati (cioè forse un filino, e molto molto latentemente), di punto in bianco si ritrova perseguitato da un innamorato tanto dolce quanto implacabile: che lo chiama a notte fonda, gli si piazza davanti a casa, lo sommerge di lettere appassionate di pagine e pagine (e dire che Clarissa, la bella moglie di Joe, studiosa di poesia romantica, darebbe l'anima per scoprire una letterina inedita di Keats all'amata Fanny Branwe...!). Ma Jed è anche astuto e fortunato, e riesce a "isolare" Joe, cioè a sconvolgergli l'esistenza senza che gli altri abbiano il tempo di simpatizzare con lui: la stessa Clarissa, esasperata dalle ossessioni del marito, fa le valige e si trasferisce a casa del fratello (anche lui fresco di separazione), mentre la polizia non ha i motivi né la volontà di intervenire, e si limita a consigliare del Prozac (a Rose, non al matto!). Così che al pacifico Joe non resta che procurarsi una pistola... e meno male che avrà il coraggio di usarla, altrimenti il frangente si sarebbe risolto con molto più sangue di quello che sarà effettivamente versato.
Ci sono almeno altri due colpi di scena dopo la sparatoria (che è dove le storie di "attrazioni fatali" di solito si concludono al cinema), e il romanzo si guadagna un suo sobrio "happy end" per tutti (Jed incluso), l'amore che dura, che resiste, trionfando su quello "fatale" e distruttivo: anche se l'implicazione - a questo punto inevitabile - è che, in amore, fra patologia e normalità, follia e salute, non c'è nessuna vera soluzione di continuità. Così che se, ora della fine, il sacrificio di John Logan (l'uomo che era restato attaccato al pallone) acquista un significato luminoso, anche il delirio di Jed - il terribile solipsismo di quel suo riflessivo "bisogno di abbracciar"mi"" - appare autenticamente liberatorio. E non solo: quasi la "condizione" dei veri abbracci - gli abbracci "a due" (o "a tre" ecc., se dalla coppia si passa alla famiglia) - della gente normale.
È possibile che io sia ingeneroso con questo romanzo di uno scrittore che m'ha sempre interessato, e al quale sono convinto che si debbano alcune delle pagine più belle della letteratura inglese contemporanea, e almeno un piccolo capolavoro ("Il giardino di cemento", Einaudi, 1980, ed. orig. 1978). Ma nell'"Amore fatale" riesco a trovare solo quello che nella scrittura di McEwan mi irrita: la macchinosità, il congegno "troppo" perfettamente oliato, e il compiacimento di chi lo fa funzionare. Tutto mi sembra costruito a tavolino, "voluto", e la ricerca d'ogni singolo effetto e dell'effetto globale è così preoccupata che, inevitabilmente, appare sempre in filigrana; anzi spesso cancella l'immagine rappresentata, come per un eccesso di visibilità - a differenza di "Lettera a Berlino" (Einaudi, 1990, ed. orig. 1989)," L'amore fatale" probabilmente ci guadagnerà sullo schermo. Per non dire dell'opposizione schematica di freddo razionalismo (Joe è un divulgatore scientifico) e primato dell'emozione e della fantasia (Clarissa, l'esperta di Keats), e del suo prevedibile capovolgimento: ma uno stereotipo rovesciato non cambia natura, solo resta a gambe all'aria...!
Sembra che Keats abbia affermato che Newton aveva distrutto la poesia dell'arcobaleno "riducendolo a un prisma colorato"; e qui Joe ha buon gioco a smentirlo dimostrandoci quanto possa essere "poetica" la descrizione "scientifica" di un fiume come un immenso scivolo sinuoso, su cui si rovesciano miliardi e miliardi di luccicanti H2O (p. 257). Ma Keats diceva anche di odiare "la poesia che ha un disegno palpabile su di noi - e se non siamo d'accordo sembra mettersi le mani nella tasca dei calzoni" (lettera a John Reynolds del 18 febbraio 1818), ed è per questa ragione, non perché riscatta la visionarietà della scienza, che - sospetto - "L'amore fatale" non sarebbe piaciuto neppure all'autore della "Belle dame sans merci".
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