Sei anni or sono io pubblicava
con questo titolo nella Rassegna Emiliana di Modena (I, 655 segg.) uno
scritterello, che ottenne accoglienza superiore ai suoi meriti. Esso aveva la
scopo di far notare un fatto curioso e prima non avvertito; di chiarire, cioè,
che i cinque capitoli del Boiardo furono scritti in servizio di
un giuoco di tarocchi. Chiunque legga infatti quei capitoli nell'ediz. di Giambattista
Venturi [Poesie di M. M. Boiardo, Modena,
1820, pp. 125 sgg.] proverà qualche meraviglia osservando come
sono costrutti. I primi quattro capitoli risultano tutti di 14 terzine e
trattano successivamente del Timore, della Gelosia, della Speranza,
dell'Amore. In ciascun capitolo ogni terzetto comincia con la medesima parola,
che esprime l'affetto a cui il componimento è consacrato. I primi dieci
terzetti di ogni capitolo trattano dei varî effetti morali che sogliono produrre
i sentimenti di cui si discorre; gli ultimi quattro terzetti invece
sono destinati ad addurre esempi mitologici. Il capitolo quinto ha diversa
composizione. S'intitola: Trionfo del vano mondo e risulta di 22 terzine. Al principio d'ognuna di esse è qui pure un essere
astratto, nel seguente ordine: mondo (pazzo), ozio, fatica, desio,
ragione,
secreto, grazia, sdegno, pazienza, errore, perseveranza, dubbio, fede,
inganno, sapienza, caso, modestia, pericolo, esperienza, tempo, oblivione,
fortezza. Ciascuno di questi enti morali personificati richiama un esempio
storico o mitologico, che con esso è in rapporto immediato.
L'ufficio di questi bizzarri
ternarî mal si comprende quando non si ponga mente a due sonetti, che stanno
con essi in intima connessione e che il Venturi, con infelice pensiero, ha
creduto bene d'omettere. Sonetti e capitoli leggonsi insieme (e da ciò
s'argomenta la loro fortuna) in parecchie stampe cinquecentiste con gli Amori
di Girolamo Benivieni e con la Caccia dell'Egidio [Edizioni 1523, '26, '32, '33, '35, '37,
'38]. Lasciando
in disparte il sonetto excusato, che chiude il giuoco, e che ne' suoi versi
stiracchiati non sa dirci nulla che veramente ci interessi, ripeteremo qui il
sonetto introduttivo, che bene o male è la chiave di tutto:
Argumento de li ditti capituli
di Matteo Maria Boiardo
sopra un novo gioco di
carte.
|
Quattro passion de l'anima signora
hanno quaranta
carte in questo gioco;
a la più degna la minor dà loco,
e il lor significato le colora.
|
Quattro figure ha ogni color
ancora, che ai debiti
suo' offici tutte loco, con vinti et un trionfo; e al più vil loco
è un folle, poi che 'l
folle el mondo adora.
|
Amor, speranza, gelosia e timore
son le passion, e un
zerzetto han le carte per
non lassar chi giocarà in errore.
|
Il numero ne' versi si comparte,
uno, due, tre, sin al
grado maggiore,
resta mo' a te trovar del gioco l'arte.
|
E di trovare appunto del gioco
l'arte io mi industriai non senza qualche successo. Ora peraltro una fortunata
scoperta dell'amico mio Angelo Solerti muta in certezza alcune mie congetture,
dissipa i miei molti dubbi, rettifica qualche errore, chiarisce le non poche
oscurità che il giuoco presentava. Un urbinate, Pier Antonio Viti, ha fornito
i capitoli del Boiardo d'un accuratissimo commentario, che si legge in un
codicetto della collezione privata del march. Antaldi di Pesaro, ed il solerti
pubblica le rime e il commento nella sua edizione de Le Poesie volgari e
latine del Boiardo (pp. 315 sgg.). Avendomi egli, buono e gentile come sempre,
messo a parte in tempo della sua scoperta, mi è grato di ritornare qui sui
tarocchi e di valermi questa volta, per spiegarli, anziché della mia povera
penetrazione critica, dei dati di fatto che mi porge un documento sincrono di
tanta importanza.
Prima di addentrarmi
nell'argomento speciale, siami concesso di ripetere qui le poche notizie sulla
storia dei tarocchi, che pubblicai già nella suddetta Rassegna. Per esse, o
m'inganno, il giuco boiardiano vien posto nella luce gli si conviene.
II.
Sull'origine delle carte da
giuoco molto si è fantasticato. Io non voglio qui accennare ai parecchi
antichi che le ritennero inventate da Palamede sotto Troia [Ne indico qui soltanto uno, notevolissiomo fra gli
italiani, Pietro Aretino nel Ragionamento del gioco. Vedi La terza et ultima
parte de' ragionamenti del divino P. A., ediz. Melagrano, 1589, c. 70 v.° e
147 v.°.]; un' origine eroica e favolosa, che ebbero commune con
gli scacchi [Vedi, tra i molti, T. Tasso,
nel Gonzaga secondo, in Prose filosofiche, Firenze, 1847, I, 391, e fra i
trattatisti speciali del giuoco, F. Piacenza, I campeggiamenti degli scacchi,
Torino, 1683, p. 32. Ma questa opinione era già stata combattuta da un celebre
trattatista del sec. XIII, Jacopo da Cessole. Cfr. Volgarizzamento del libro
de' costumi e degli offizii de' nobili sopra al giuoco degli scacchi di frate
Jacopo da Cessole, ed. P. Marocco, Milano, 1829, p. 3. Secondo Raffaele da
Volterra, Palamede, all' assedio di Troja, avrebbe inventato aleam, vale a
dire i giuochi di pura sorte (d'azzardo), tra i quali quelli coi dadi furono i
più diffusi ed i più funesti ( Raphaelis Volaterrani commentariorum urbanorum
libri, Lugduni, 1552, col. 901). Come erroneamente si sia ritenuto che il
vocabolo alea potesse alludere anche alle carte, può vedersi nei Trattatelli
dello Speroni, Opere, Venezia, 1740, V, 441. In questo errore cadde anche il
Burckhardt (Civiltà, II, 183, n. 2) ove dice che il vescovo Wiboldo di
Cambray, intorno 979, suggerì "una specie di tarocco spirituale, con non meno
di 56 nomi di virtù rappresentate da altrettante combinazioni delle carte." Il
Burckhardt desume la notizia davvero sbalorditoia da una cronaca antica (v.
Pertz, Scriptores, VII, 433 sg.). Ivi è detto di quel dabben prelato: "Iste
siquidem cericis aleae amatoribus regularem ludum artificiose composuit, quo
videlicet in scolis se exercentes, karitate vitia vincere assuescerent,
saecularemque et iurgiosam aleam refugerent". La cronaca descrive minutamente
il giuoco complicato ed edificante, che è certo curioso, ma non ha nulla a
vedere con le carte. Le varie virtù sono subordinate ad un numero, che
rappresenta le somme di tre gettate di un dado, ovvero d' una gettata di tre
dadi. Tanto è vero che le cifre coefficenti non oltrepassano mai il 6. Quindi
in quel luogo alea e aleator non si riferiscono punto a giuochi di carte. Si
tratta dei tre dadi usati per il Bugiardello e per altri giuochi di ventura.
Cfr. Rossi, Calmo, pp. 446 sgg.]. Ma anche quando la
considerazione storica si portò partiolarmente su questo ritrovato, non
mancarono le più bizzarre e contradditorie ipotesi. Come quasi sempre suole
avvenire allorchè riescono oscuri i principî di qualche cosa, si ricorse
all'Oriente, nella cui immensa e misteriosa antichità si può trovar posto per
tutto. Le carte si vollero recate in occidente dagli Arabi, o direttamente o
per mezzo degli zingari, ed agli Arabi si pretese fossero giunte dall'India,
rilevando arcane analogie fra i giuochi di carte ed alcuni giuochi di scacchi
indiani [Il più valoroso tra i sostenitori
di questa origine è il Chatto nell' opera Facts and speculations on the origin
and history of playing cards, London, 1848. I suoi argomenti sono riassunti
nella Revue archéologique, XVI, I, 198-201.]. Altri le
derivarono dalla Cina; altri dall'Egitto [Qui non è il luogo di estendersi su tutte queste congetture. Chi
voglia vedere riassunti i risultati dei primi critici che si occuparono delle
carte da giuoco, Menestrier, Daniel, Bullet, Heineken, Rive, Court de Gebelin,
Breitkopf, Jansen, Ottley, Singer, consulti Gab. Peignot, Recherches hist. et
litt. sur les danses des morts et sur l'origine des cartes à jouer, Dijon,
1826, pp. 203-282. In breve, ma assai bene, riassume i principali fra questi
dati il Cicognara nelle Memorie spettanti alla storia della calcografia,
Prato, 1831, pp. 114-117. Una notizia bibliografica abbastanza copiosa dei
lavori che vi sono intorno alle carte da giuoco è in fondo all' articolo del
Lacroix, che avrò occasione di citare in seguito.]. A me sembra
assai convincente la maniera con cui rifiuta ogni derivazione orientale il
Merlin, nel suo bel lavoro sulle carte da giuoco [Nouvelles recherches sur l' origine des cartes à jouer, in Revue
archéologique, an. XVI, 1859, P. I e II.], che è il meglio
corredato di fatti ed il più critico fra quanti io ne ho potuti vedere.
Non sembra probabile nè che le
carte fossero conosciute in Europa prima della seconda metà del sec. XIV, nè
che venissero di molto lontano. È ben vero che fu più volte portato innanzi un
passo, in cui si accenna alle carte da giuoco, nel trattato del governo della
famiglia di Sandro di Pippozzo, scritto nel 1299 [Vedi Tiraboschi, Storia, ediz. Antonelli, VI, 1580]. Ma
tale attestazione, riferita dalla Crusca e poi dal Tiraboschi, venne
combattuta con buona argomentazione da Pietro Zani [Materiali per servire alla storia dell' origine e de' progressi dell'
incisione in rame e in legno, Parma, 1802, pp. 154 e 160-161.],
il quale mostrò come il cod. di cui si servirono gli accadmici non è sincrono
all' autore del trattato, e rimonta solo al sec. XV, onde ogni verosimiglianza
porta a ritenere che il brano, ove si accenna alle carte, sia interpolato. Lo
Zani peraltro va troppo oltre nella sua critica negativa quando mostra credere
che prima del sec. XV le carte non fossero conosciute e trova rincalzo a
questa opinione, che non fu soltanto sua [La
aveva fuggevolmente espressa il Bettinelli nelle note al suo poemetto Il
giuoco delle carte. Cfr. Opere ed. ed ined., vol. XVI, Venezia, 1800, p.
280-81.], nella riflessione che il Petrarca nel De remediis
utriusque fortunae parla di diversi giuochi, ma delle carte non fa
motto. È molto probabile che quando il trattato petrachesco fu scritto,
fra il 1360 ed il 1366 [Gaspary, Geschichte,
I, 440.], le carte non si usassero, e se anche si cominciavano
ad usare, era certo invenzione recentissima, e l' indole medesima del libro
del Petrarca non richiedeva che se ne discorresse. Ma ciò non toglie che già
prima della fine di quel sec. XIV le carte fossero conosciute e diffuse in
Europa. Le attestazioni che si addussero furono di molto ridotte di numero
dalla critica; ma talune si possono ritenere inconfutabili. Appoggiandosi su
di esse il Duchesne, in una memoria troppo poco avvertita di mezzo secolo fa
[Observations sur les cartes à jouer, in
Nnuaire de la société de l' hist. de France, 1837. Questo lavoro io conosco
solo per ciò che ne dice il Merlin.], poneva la prima conoscenza
delle carte fra il 1369 ed il 1392. Il primo termine egli ricavava
dall'assenza del nome delle carte nella lunga enumerazione di giuochi proibiti
da una ordinanza di Carlo VI del 1369; il secondo termine gli era dato da un
conto di Carlo Poupart, tesoriere di Carlo VI di Francia del 1392, in cui si
parla del pagamento fatto al pittore Gringouner per tre mazzi di carte a oro e
a colori. Ulteriori risultati convalidano i due termini posti dal Duchesne. Un
divieto di Giovanni I di Castiglia ci mostra le carte conosciute nel 1387 a
Burgos; dal libro rosso di Ulma, conservato nell'archivio di quella città,
appare proibito il giuoco delle carte nel 1397 [È da vedersi P. Lacroix, Cartes à jouer nel vol. II dell' opera Le
moyen âge et la renaissance, Paris, 1849.]; ma la precedenza
cronologica (nonostante il naufragio di Sandro di Pippozzo) resta pur sempre
all'Italia, ove Giovanni di Covelluzzo, nella sua cronaca di Viterbo, ci dice
che le carte furono colà introdotte nel 1379. Il fiorentino Giovanni Morelli,
nella sua cronaca cominciata nel 1393 [Vedi
P. Giorgi, Sulla cronaca di Giovanni di Paolo Morelli, Firenze, 1882, p.
8.], interdice ai fanciulli i dadi e consiglia le carte. Questa
apparizione delle carte in documenti così diversi della seconda metà del sec.
XIV, mentre prima non se ne ha parola [I due
tipi principali di giuoco di fortuna nel medioevo sono quelli dei dadi e delle
tavole. Lud. Zdekauer nel suo lavoro su Il giuoco in Italia nei sec. XIII e
XIV, in Archiv. stor. it., Serie IV, vol. XVIII, fasc. 4° dice che i giuochi a
tavole uscirono di moda quando nel sec. XV si diffusero quelli con le carte, e
aggiunge che un giuoco di tabole detto imperiale "ritorna in modo strano nel
giuoco dei tarocchi" (p. 28). Si desiderebbe saperne di più; ma in quella
memoria essenzialmente giuridica, lo Z. non dà che pochi cenni sui vari
giuochi.], può con sicurezza farci riporre in quel tempo il
primo uso di esse, nè credo sia accecamento d'amor proprio nazionale il
ritenerle comparse dapprima in Italia, ove se ne trova la più antica menzione.
In ciò convengono, del resto, anche dotti stranieri, come esplicitamente il
Duchesne ed il Merlin, implicitamente il Lacroix.
Il Covelluzzo dice "fu recato in
viterbo il gioco delle carte, che venne de Saracenia e chiamasi fra loro naib". E naibi chiama il Morelli le carte che consiglia per trastullo ai
ragazzi, e il nome viene latinizzato nelle prediche di S. Bernardino (1423) e
nella somma teologica di S. Antonino (1459), e si riscontra in molti passi di
scrittori e documenti del sec. XV e XVI, che sarebbe agevole il mettere
insieme [Vedi Cicognara, Op. cit., pp.
119-120.]. A questo termine, che credo anch' io col Campori
radicalmente straniero, si vollero dare da alcuni radici arabe od ebraiche che
portano con sè l' idea di profezia o predizione, da altri gli si trovò un
corrispondente, pure arabo, che sta a designare un grado militare. E siccome
in spagnuolo le carte da giuoco si dissero e si dicono tuttora naipes, non si
dubitò che gli Arabi portassero le carte prima in Ispagna e di là poscia esse
passassero in Italia col medesimo nome [È
questa la vecchia opinione dell' abate Rive (1750), riprodotta da parecchi.
Cfr. Peignot, Op. cit., pp. 220-27 e Breitkopf, Versuch den Ursprung der
Spielkarten ecc. in Europa zu erforschen, Leipzig, 1784, p.
12.]. Nè io, pur respingendo la mediazione spagnuola, che non ha
ragione di essere, negherò la importanza che ha la attestazione del
Covelluzzo. Ma, come ho già accennato, le ragioni che militano contro questa
introduzione oreintale sono, a parer mio, di tanto peso, che non valgono certo
a sopraffarle la sola stranezza del nome e l' affermazione di un cronista. Due
specialmente ne voglio accennare, il non esservi nelle carte antiche né elle
moderne, di nessun paese, alcun vestigio serio di provenienza dall'oriente, e
l' essere agli Arabi per la loro religione severamente vietato di ritrarre e
tenere ritratta la figura umana. Ma questo problema delle origini, insolubile
forse con assoluta sicurezza, non può essere quì discusso
opportunamente.
I naibi erano carte; ma non tutte
le carte erano naibi. Carte era nome generico: esse si dividevano in
carticelle e in naibi, detti anche carte da trionfi. Tale distinzione è
costante in tutti gli scrittori del sec. XV che accennarono alle carte [Vedi Merlin in Rev. Arch., XVI, I, 297-98;
Campori, Le carte da giuoco dipinte per gli Estensi nel sec. XV, p. 13 e
documenti.]. Ed in che si distinguessero le carticelle dai naibi
è facile il dirlo. Le une erano le nostre carte comuni., divise in 52 pezzi,
cioè in quattro serie, di 10 carte numerali e tre figure ciascuna: i secondi
erani i tarocchi [Il Bellincioni dice,
accennando sicuramente ai tarocchi: Ebbe gran prudenza // chi pose in ne'
naibi que' contrari // che sian vinti da' meno e' più denari. Rime, ed.
Fanfani, II, 90]
Io non starò qui ad esporre le
bizzarre interpretazioni che furono proposte a spiegare le molteplici figure
dei naibi e le loro funzioni nel giuoco dei tarocchi: esse non hanno forse,
che le superino in istranezza, se non alcune fantastiche idee espresse intorno
al significato originale del giuoco degli scacchi. Nei tarocchi si vollero
vedere intendimenti misteriosi, un riflesso della vetusta sapienza egiziana,
ed a spiegarne la disposizione si chiamarono in aiuto l' archeologia, la
filosofia e la cabala. Questi sogni cominciano col court de Gebelin nel secolo
passato [Cfr. il discorso Du jeu des tarots
inserito nella sua opera Monde primitif, vol. I, Paris, 1779, pp. 265 seg. Una
esposizione di questo sistema diedero il Breitkopf, Op. cit., pp. 20 seg.; il
Peignot, Op. cit., pp. 227-239; il Merlin, Rev. Arch. XVI, I, 286 e specialm.
307-9. Il Cicognara, che pure ci si ferma (Op. cit. pp. 130-134), chiama
ingegnosa questa teoria, cui non presta fede. Oh sì, troppo
ingegnosa!] ed oggi ancora trovano proseliti [Nell' anno di grazia 1888 è uscito in Inghilterra
un libro di L. Mac Gregor Mathers, The tarot, its occult signification ecc.,
London, Redarus, che sostiene l' origine egiziana dei tarocchi e spiega i
grandi misteri di sapienza antica e veneranda che essi
trasmettono.]. Ma ben più di queste interpretazioni fantastiche
a noi importa lo stabilire se i tarocchi siano da giudicarsi anteriori o
posteriori alle carte semplici. Il Breitkopf gli reputa posteriori [Op. cit., p.
25.] e si appoggia
sulla testimonianza di Raffaele Maffei detto il volterrano (n. 1451, m. 1522),
che dice i tarocchi nuova invenzione, ne' suoi Commentarî scritti verso il
1480. Ma il Breitkopf non conosce la testimonianza del volterrano se non a
traverso il Garzoni ["Alcuni altri sono
giuochi da taverne, come la mora, le piastrelle, le chiavi, le carte, o
communi, o tarocchi di nuova inventione, secondo il Volaterrano". Garzoni. La
piazza universale di tutte le professioni del mondo, disc. LXIX, Venezia,
1617, c. 244 r.°. Il Garzoni, che ha per i giuocatori una vera antipatia (cfr.
anche la sua Sinagoga degl' ignoranti, Venezia, 1617, p. 43) dice altrove
nella Piazza: "Ma perchè del gioco et delle sue tristitie discorrerò più
lungamente nel trattato de' giocatori, per ora basti questo cenno, rimettendo
i lettori a un più ampio discorso in quel luogo particolare". (c. 375 r.°).
Questo trattato dei giuocatori non potei vedere, e dubito assai che il Garzoni
l' abbia composto. Io mi diedi tutta la cura per rintracciare il luogo del
Volterrano, ove si paral dei tarocchi, ma non mi riuscì di trovarlo. Dei
trattatisti speciali che mi fu dato consultare nessuno lo cita esattamente.
Solo il Lacroix (op. cit.) pare deduca direttamente dai Commentari l' ordine e
le figure dei tarocchi, ma egli cita una ediz. tarda dell' opera, senza rinvio
preciso. Io vidi i Commentari urbani in due edizioni del cinquecento; ma il
passo in questione non seppi rinvenirlo. Nel capitolo particolarmente
destinato ai giuochi trovai solo questo passo allusivo alle carte: "Chartarum
vero et sortium divinationis ludi priscis additi sunt, ab avaris ac perditis
inventi, non solum nostro dogmati, sed publicis veterum moribus una cum alea
reiecti, caeteri cessationis gratia viros vel summos quandoque occupatos
habuere." (ediz. cit. del 1552, col. 901).]; nè, qualunque essa
sia, mi sembra atta ad infirmare la importanza del fatto che le prime
attestazioni italiane del sec. XIV parlano di naibi, con che certamente si
intendava alludere ai tarocchi e non già alle carte comuni, cui deve
aggiungersi che durante tutto il sec. XV, sin dai primi anni di esso, abbiamo
indizî numerosi che il giuoco dei tarocchi era usitato [A me sembra giusta l' opinione del Merlin (Rev.
cit. XVI, II, 747) che i giuochi con le carte semplici o carticelle non siano
che und derivazione dai naibi-tarocchi. Ilgiuoco dei tarocchi con le sue
complicazioni non poteva piacere ai giuocatori volgari, avvezzi alla
agevolezza spicciativa dei dadi. Quindi sie eliminarono i trionfi, che
portavano la maggiore difficoltà nel giuoco. Un appoggio valevole mi sembra
anche di trovare nel Ragionamento del gioco dell' Aretino. Ivi le carte, che
sono introdotte a parlare col Padovano cartaio, accennano chiaramente al
prevalere delle carticelle sui tarocchi: "domanda del perchè, dicono esse, noi
ci scostiamo ogni dí più da' Germini e da' Tarocchi, e vedrai, ch' ella
ti dirà, che imitiamo gli eserciti, i quali fanno pochissimo conto degli
huomini d' arme, guerreggiando a la leggiera et la pedona." (c. 124 r°. dell'
ediz. cit.)].
Il giuoco di tarocchi che può
chiamarsi fondamentale, siccome il più generalmente usato e probabilmente il
più antico, è quello di origine veneto-lombardo. Esso consta di quattro serie
(denari, coppe, spade, bastoni), ognuna delle quali ha dieci carte
numerali, più quattro figure. Una quinta serie, tutta figurata, è quella che
risulta di 21 trionfi, più il matto. Sono dunque in tutto 78 carte. - Notevole
antichità ha pure il tarocchino di Bologna, che si dice inventato prima del
1419 da Francesco Fibbia, il quale, siccome ritrovatore di questo giuoco,
avrebbe ottenuto dai riformatori di Bologna il diritto di porre il suo stemma
sulla regina di bastoni e quello di sua moglie, che era una Bentivoglio, sulla
regina di denari [Vedi gli scritti citati
del Cicognara e del Lacroix.]. Il tarocchino bolognese è una
riforma dei primitiv naibi: parecchie carte numerali vi sono soppresse, sicchè
il mazzo viene a contare soli 62 pezzi; ma i trionfi sono uguali di numero
come nei tarocchi veneto-lombardi, e presentano solo qualche lieve mutazione
nel loro ordine. - Abbiamo finalmente le minchiate di Firenze, il più
complesso fra tutti i giuochi di tarocchi, in cui le carte sommano a 97, delle
quali 56 sono cartacce (numerali, più quattro figure per serie), 40 tarocchi
(o trionfi o germini [Il nome germini è
forse più antico che minchiate, per indicare la specialità toscana dei
tarocchi. L'Aretino, nel Ragionamento cit., che pur nomina una volta le
minchiate, come qualità di giuoco (vedi c. 127 v.°.)., distingue sempre i
germini dai tarocchi (cc. 73 v.°, 74 r.° e v.°, 103 v.°, 124 r.°, 198 v.°). In
un luogo accenna alle più alte dignità dei germini, vale a dire alle trombe ed
al mondo. Infatti, oltre i 35 germini numerati, che sono nel mazzo delle
minchiate, ve ne ha cinque senza numero, cui sono date le maggiori dignità, e
sono stella, luna, sole, mondo, trombe. Le trombe (cioè la fama) costituiscono
nelle minchiate la prima dignità, il quarantesimo trionfo. Un curioso uso
delle antiche minchiate è quello che fu fatto nel rarissimo poemetto del sec.
XVI intitolato I germini sopra quaranta meretrice della città di Fiorenza. In
questo bizzarro componimento, che fu di recente ristampato, (vedi
Bibliotechina grassoccia, disp. 8, Firenze, 1888, pp. 51 segg.), 36 delle 40
carte dette germini rappresentano cortigiane celebri fiorentine; gli altri
quattro germini (cioè i num. 19, 18, 17, 16, che nel giuoco sembra fossero
detti salamandre (cfr. pp. 56 e 64) per una ragione che mi sfugge) funzionano
da ruffiane, ognuna delle quali presenta nove meretrici. I germini sono qui
posti in ragione progressiva, dai più ai meno elevati, in modo tale che molte
volte si rilevano chiaramente le loro figure. Specialmente chiari risultano i
primi cinque: 40 trombe, 39 mondo, 38 sole, 37 luna, 36 stella. Ma parecchie
curiosità di questo poemetto, fra le altre anche la comparsa del Padovano, che
giudico non esser altri che il Padovano cartaio dell'Aretino, non è qui il
caso di rilevare.]), più il matto, che si confà con ogni carta e
con ogni numero. Si hanno dunque nelle minchiate 20 nuovi trionfi oltre quelli
degli altri giochi, e la aggiunta è costituita dalle tre virtù teologali, da
una delle cardinali, dai quattro elementi e dai 12 segni dello zodiaco [Su tuttociò vedi Merlin, XVI, I, 283-85. Intorno
alle minchiate non mi fu accessibile il libro di Saverio Brunetti, Giuochi
delle minchiate, ombre, scacchi ed altri d'ingegno, Roma, 1747; ma utilizzai
le belle note del Minucci e del Biscioni, nel Malmantile racquistato di
Perlone Zipoli con le note di Puccio Lamoni e d' altri, Firenze, 1750, II,
664-68.].
D' onde sieno tratte le figure
dei trionfi e quelle più numerose dei germini, è cosa molto difficile a dire.
Vi sono in qualche museo alcune di incisioni bellissime del sec. XV conosciute
tradizionalmente presso gli amatori col nome di carte del Mantegna [Il Lancy credette ravvisare in quelle incisioni la
scuola del Mantegna e difatti la riproduzione di una di esse, che ho potuto
vedere nel Lacroix, mi ricorda assai la maniera di quei meravigliosi affreschi
mantegneschi che sono nella cosidetta sala degli sposi nella Corte vecchia di
Mantova. Ma in materia così ardua io ben mi guardo dallo esprimere una
opinione personale. L'Ottley stette per la scuola fiorentina e credette
trovarvi la mano di Baccio Baldini o di Sandro Botticelli. Lo Zani, il
Pasavant, il Cicognara ed altri ritengono che il giuoco sia di origine veneta
e forse più propriamente padovana. Vedi, oltre le opere citate, il bell' album
tirato a cento esemplari Die Spielkarten der Weigel'schen Sammlung, Leipzig,
Weigel, 1865, pp. 37-38.]. L'analogia tra
queste figure (che sono 50, divise in cinque serie di dieci pezzi, ciascuna
delle quali contrassegnata con le lettere A. B. C. D. E, in ordine inverso)
con i tarocchi fu già osservata da molto tempo: ma chi diede a tale
somiglianza il massimo peso fu il Merlin, il quale formulò sulle carte del
Mantegna la sua ingegnosa teoria intorno alla origine dei tarocchi. Egli vide
un nesso logico rigoroso nella disposizione che hanno le figure in quei
disegni, sicché non esitò a dar loro la importanza simbolica di un sistema
filosofico, che si estende a tutto lo scibile. Sarebbe troppo lungo il
riferire qui il suo ragionamento. Basti l' aggiungere che 15 tra le figure dei
tarocchi veneto-lombardi egli riconobbe nelle carte dette del Mantegna, tra le
quali egli trovò pure le 20 minchiate, in più del giuoco fiorentino. Né solo
questo; ma anche nell' ordine volle stabilire delle somiglianze. Secondo lui
(a mo' d' esempio) il mondo avrebbe il posto più alto nei tarocchi perché corrisponde nel giuoco del Mantegna alla prima causa, che ha il n.° 50; ed il
matto, cioè lo zero dei tarocchi, che è la più debole tra le figure,
corrisponderebbe al n.° 1 del giuoco del Mantegna, che è il misero. Ma
naturalmente il Merlin non crede che questo giuoco del Mantegna, relativamente
così tardo, fosse l' originale dei tarocchi: i punti cronologici che ho
fissati di sopra ne sarebbero una aperta smentita. Egli reputa che quelle
figure avessero il loro antecedente nel sec. XIV. In Italia, nel trecento,
sarebbe esistito un album di figure molto adatto a divertire e ad istruire i
fanciulli, giacché era una nomenclatura delle cognizioni di allora, un aiuto
alla memoria, una specie di enciclopedia per gli occhi. Di queste figure
abbiamo una copia nelle incisioni anonime, attribuite, a torto o a ragione, al
Mantegna. Si chiamarono naibi, ed era ad esse che alludeva il buon cronista
Morelli, consigliandole ai fanciulli. Ma verso la fine del sec. XIV un bello
spirito, forse per sistogliere i giuocatori dal pericoloso e inspido giuoco
dei dadi, avrebbe tratto dai naibi il giuoco dei tarocchi, il quale avrebbe
conservato il nome di naibi ancora per qualche tempo [Merlin, XVI, I, 286-95 e
302-4].
Quantunque il
sempre oculato ed autorevole Campori mostri di accogliere simpaticamente
questa teoria, io non mi dissimulo la sua arditezza e le serie obbiezioni a
cui può andare soggetta. Che le cosidette carte del Mantegna, nella loro
espressione e disposizione, rientrino nella pittura simbolica tanto praticata
nell' evo medio, non mi pare sia dubbio. Ma nulla ci licenzia veramente a dire
che la casuale simiglianza con alcuni tarocchi indichi derivazione di questi
da quelle, anziché di quelle da questi. Ed anche senza ammettere derivazioni
di sorta, si potrebbe benissimo ritenere independenti, da una parte i trionfi
dei tarocchi, con le loro disordinate serie di figure, riferentisi a cose
svariate, dall' altra i disegni del Mantegna, rappresentanti ordinatamente
nelle loro cinque serie gli stati della vita, le muse, le scienze, le virtù,
il sistema cosmografico. Era così agevole il pensare a quelle figure,
specialmente in tempi portati a personificare le astrazioni, che davvero le
coincidenze non devono recar meraviglia. Nè è fuori di ogni verosimiglianza la
ipotesi messa innanzi dal Cicognara che i disegni attribuiti al Mantegna
potessero servire a passatempi di natura affatto diversa dai giuochi di
ventura, di cui nei libri del Fanti e del Marcolini abbiamo esempi così
complessi e splendidamente illustrati [Cicognara, Op. cit., pp. 170-71
].
III.
Ma io sono
andato anche troppo oltre. Sta il fatto
che nel XV secolo i tarocchi si usavano in varie foggie, dipinti ed anche
stampati. Ed erano giuoco eminentemente aristocratico, quantunque molto più
tardi il Garzoni, di cui notai l'antipatia per tutti i giuochi ed i
giuocatori, gli relegasse nelle taverne. Ma già il Berni, gran lodatore della
primiera, che si faceva con le carte basse o carticelle, avea avuto parole di
sarcasmo per i tarocchi, le cui complicazioni non dovevano andargli troppo a
genio ["Un altro più piacevolone di
costui, per intrattenere un poco più la festa e dar piacere alla brigata a
guardare le dipinture, ha trovato che Tarocchi sono un bel gioco, e pargli
essere il regno suo quando ha in mano un numero di dugento carte, che appena
le può tenere, e, per non essere appostato, le mescola così il meglio che può
sotto la tavola. Viso proprio di Tarocco colui a chi piace questo gioco; chè
altro non vuol dir Tarocco che ignocco, sciocco, balocco, degno di star fra
fornari e calzolari e plebei a giocarsi in tutto un dì un carlino in quarto a
Tarocchi, o a Trionfi, o a Sminchiate che si sia: chè ad ogni modo tutto
importa minchioneria e dapocaggine, pascendo l' occhio col sole e con la luna
e col dodici, come fanno i putti." Commento al capitolo della primiera, nella
ediz. Virgili, Firenze, 1885, p. 376. Il commento non muove direttamente dal
Berni, ma egli forse vi collaborò e certo poi approvava interamente. Cfr.
Virgili, Francesco Berni, Firenze, 1881, pp. 125-129]. La quale ragione medesima era certamente stata quella che
avea fatto prevalere i tarocchi nelle classi più elevate, che erano schife
dalla facile volgarità dei dadi e aveano famigliarità con gli scacchi [Tuttavia di vari giuochi che si
facevano con le carticelle anche da personaggi elevati vedi notizie in
Luzio-Renier, Mantova e Urbino, Torino, 1893, p. 63, n. 3. Cfr. anche l' ediz.
Cian del Cortegiano, p. 162].
Dissi che nel
quattrocento i tarocchi si usarono dipinti a mano ed anche stampati. A
dimostrare le prime origini delle carte stampate si reca comunemente un
decreto del Senato veneto, che ha la data 11 ott. 1441, con cui si proibisce
la introduzione in Venezia di carte da zugare e figure depinte stampide
[Tiraboschi, Storia, ed. cit., VI, 1581]. Ma è certo che prima e dopo questo
tempo le famiglie principesche usarono di far dipingere le carte da appositi
pittori [Intorno alle carte dipinte
per ordine degli Estensi dal 1422 in poi dà copiose notizie il Campori, Op.
cit., pp. 4 e 7-11. Regge ancora l' idea del Bettinelli (Opere, XVI, 286) che
i primi giuochi di carte "servissero solo ad intertenimento di principi e
cortigiani, il che dimostrano l' oro e i colori in essi adoperati da pittori
di professione, e la paga loro data di molto prezzo. Poco a poco divennero,
come le mode sogliono, più comuni, sinchè trovata poi l' arte di far modelli e
stampi, giunsero a sollazzar fin la plebe."]. E queste pitture a mano raggiungevano talora una preziosità
eccezionale, se non è da reputarsi esagerato il prezzo di 1500 scudi d' oro,
che secondo il Decembrio sarebbero stati pagati al pittore Marziano da Tortona
per un mazzo di carte eseguito pel duca Filippo Maria Visconti [Muratori, R. I. S., XX, 61. Il Cicognara (Op.
cit., pp. 149-158) credette di potere identificare questo celebre mazzo con
uno posseduto già dalla contessa Amelia Visconti Gonzaga ed ora dal duca
Visconti di Modrone; ma il Campori (Op. cit., p. 6 n.) mostrò come quest'
ultimo mazzo non corrisponda punto alla descrizione del Decembrio. Di ciò si
era avveduto anche il Merlin, che appoggiandosi appunto alle parole del
Decembrio, secondo le quali quelle carte ritraevano Deorum imagines
subjectasque his animalium figuras et avium, ritenne che si trattasse di una
riproduzione molto ricca delle carte dette del Mantegna (Rev. cit., XVI, I,
299-302). Ma questa non sembra fosse l' opinione del volgarizzatore pseudonimo
inedito della Vita Phil. Mar. Vicec., di cui diede notizie il Campori (p. 5
n.), il quale volgarizzatore parla espressamente di carte da triumphi. Non
vedo infatti come possa trovarsi strano che in quelle carte di lusso fossero
effigiate anche delle figure che non appaiono propriamente nella serie dei
tarocchi. Tali figure erano di puro ornamento, e non dovevano togliere il loro
significato ai semi e ai trionfi]. Il
Cicognara dà notizia di altri mazzi di carte dipinti a mano verso la fine del
sec. XV [Op. cit., pp. 158
segg.], il che prova all' evidenza come
nell' uso delle corti le carte dipinte stentassero a lasciare il luogo alle
impresse. Fu solo nel secolo seguente che queste ottennero compiuta vittoria e
fu allora che Ferrara (sotto Alfonso I) raggiunse in questa industria un posto
segnalato [Campori, p. 12].
Certo su d'un mazzo apposito, dipinto a mano, condusse i suoi capitoli Matteo Maria
Boiardo, al quale è tempo che noi facciamo ritorno. A me sembra infatti, che
ben si apponesse il Venturi quando ravvisò in questi capitoli "uno de' primi
lavori poetici" del conte [Ediz. cit.
delle Poesie del B., p. 70]. È facile il
discernervi la poca esperienza nel poetare, la difficoltà nel trovare la rima,
qualcosa di stiracchiato e di legnoso, che è ben lungi dalla soave armonia del
canzoniere d' amore e dall' onda di molte ottave dell' Innamorato. Non credo
quindi di andar molto lungi dal vero ponendone la composizione nei primi anni
del soggiorno ferrarese del conte, allorchè egli, non ancora trentenne,
stabilì la sua dimora in Ferrara [Tiraboschi, Bibl. Moden., I, 293. Quindi verso il
1461.], ove si acquistò fama, non solo di
abile negoziatore, ma di "cavaliere spiritosissimo" e "adornato delle più
isquisite e singolarissime qualità" [Libanori, Ferarra d' oro imbrunito, Ferrara, 1665, P. III, p.
208]. Il giuoco poetico fu quindi destinato
ad uno di quei molti trattenimenti sociali, di cui si allietarono le nostre
corti del rinascimento.
IV.
Pier Antonio
Viti da Urbino, uomo sollazzevole com' egli stesso ci dice [Nel descrivere il matto dei tarocchi, chiosa: "et
da ciò che bono principio sia per me dato, de quello che è a me, per quello
che se ha dicto, simillimo, incomenzarò" (p. 327). E in fine si scusa per aver
descritto molto lungamente quella figura "per essermi de sangue assai
congiunta" (p. 328)], fu medico e nella
patria sua sostenne onorevolmente due volte, nel 1492 e nel 1498, la carica di
gonfalconiere. Nato verso il 1470 da Bartolomeo e da Calliope Alberti, fu, con
Pompilio, fratello al celebre pittore Timoteo Viti. Morì giovane in patria il
26 novembre del 1500 [Vedi Pungileoni, Elogio storico di Timoteo Viti, Urbino, 1835, pp.
3-4.]. Il padre Vernaccia lo disse anche
poeta, aggiungendo: "di lui abbiamo veduto presso Gio. Maria Antonio Viti, suo
discendente, un capitolo in quarta rima (sic), in cui colla figura del giuoco
delle carte rappresenta quattro passioni dell' anima: cioè l' amore, la
speranza, la gelosia, il timore" [Parole riferite dal Pungileoni, Op. cit., p. 3, n. Una copia
degli spogli biografici del Vernaccia è oggi nel ms. Oliveriano 1145.] Con le quali parole senza dubbio
intese il Vernaccia d' alludere al codicetto antaldiano [Il vecchio march. Antaldo degli Antaldi ereditò i
mss. e le cose d' arte della famiglia Viti]; ma errò nell' attribuire i capitoli del Boiardo al Viti
[Gli annotatori del Vasari (cfr. l'
ediz. Sansoni, IV, 492 n) ripeterono l' errore, aggiungendone per conto loro
un altro. Essi affermano che Pier Antonio prese in moglie Girolama di Andrea
Spaccioli. Non è vero. La moglie di lui fu Girolama di Andrea di Lodovico
Staccoli, nobile famiglia urbinate, che dopo la morte del marito prese il velo
nel monastero di S. Chiara. Fu Timoteo Viti, che nel 1501 impalmò Girolama di
Guido Spaccioli.], il quale non ne fu che l'
esplicatore. È ben vero che nel codice non è detto di chi i capitoli siano, ma
è pure vero che il Viti non se ne arroga mai la proprietà, ed in due luoghi
[A pp. 315 e 333 dell' ediz. Solerti,
alla quale sempre mi riferisco.] accenna in
terza persona al compositore di essi [Le varianti, in confronto col testo a stampa, non sono molte ed il
Solerti le ha indicate. L' ordine logico dei capitoli è quello dato dal Viti,
conforme a quello accennato nel sonetto esplicativo. In omaggio all' uso
letterario, i ternari nelle stampe si chiudono con un verso scempio, il quale
dovette mancare nell' originale, come manca nella trascrizione del Viti. Ad
ogni carta infatti erano assegnati tre versi e non più. La lezione del cod.
Antaldi è in genere migliore di quella a stampa
].
Che la chiosa
del Viti sia perfettamente conforme alle intenzioni del Boiardo ed al modo
come il giuoco praticavasi in Ferrara, non sembrami cosa dubbia. Il Viti, a
parer mio, non fece altro che esporre con ogni cura ciò che aveva appreso, per
uso e consumo d' una dama eccelsa urbinate, alla quale professa una
ammirazione sconfinata, si direbbe anzi quasi amore, se non si conoscesse il
frasario galante del tempo [Vedi p.
331, ove la colloca nel numero delle dee, e p. 330 ove la chiama fenice di
tutte le donne, accolta di tutte le grazie. Il Viti le si rivolge di continuo
chiamandola "illustre" o "illustrissima madonna" ovvero "patrona mia".]. Confesso che fui tentato d'
identificarla con la medesima Elisabetta d' Urbino; ma mi trattennero le
seguenti righe: "de questa moltitudine de versi non dico alcuna cosa,
existimando che assai ne la Corte de la Duchessa di Urbino ne serà decto, per
le egregie creature che vi sono" (p. 336). Non par dunque che la padrona e la
madonna del Viti sia Elisabetta. Ma lungi dalla corte non andrei davvero, e se
alcuno mi proponesse il nome d'Emilia Pia, l'intima amica della Duchessa,
chiamata poscia all' onore di presiedere al giuoco del Cortegiano, esiterei a
dir di no risolutamente.
Qualunque sia
la donna, il giuoco del Boiardo ci vien descritto con la massima chiarezza ed
io ho la compiacenza d' essermi apposto in molta parte della mia prima
interpretazione.
Le quattro
serie numerali sono rappresentate dai quattro primi capitoli, ciascuno dei
quali ha 14 terzine. Su di ogni carta è succesivamente scritta una delle
terzine: in mezzo, se sono carte numeriche, in alto, se sono carte figurate [Chi vuole avere un' idea precisa del
modo in che dovevano essere costrutte quelle carte e della collocazione del
breve con la terzina, veda nell' album calcografico del Cicognara la figura
del giuoco trivulziano rappresentata nella tavola IX.]. L' ordine delle carte numeriche è progressivo ed ogni terzina
ha nel primo verso indicato o accennato il numero dei semi, che deve avere la
carta a cui è destinata [Una semplice
occiata all' ediz. Solerti renderà la cosa chiarissima al lettore. L'
indicazione numerale delle terzine vi è sempre scritta in
corsivo.]. I semi, peraltro, non sono
conformi a nessun sistema comunemente usato [In Italia denari, coppe, spade, bastoni; in Francia cuori, quadri,
picche, fiori (trifoglio); in Germani cuori, sonagli, foglie, ghiande. Questa
varietà di semi è già indicata dall' Aretino, nel Raginam. cit., c. 94 r.° e
v.° e 114 r.°.]; ma sono invece desunti
dalla qualità della passione a cui si collegano. Amore ha dardi incrociati
come bastoni; Speranza ha vasi; Gelosia ha occhi; Timore ha flagelli. In luogo
dell quattro figure (fante, cavallo, regina, re) la serie d' amore ha Ciclope,
Paride, Venere, Giove; la serie di speranza ha Orazio Coclite, Giasone,
Giuditta, Enea; la serie di gelosia ha Argo, Turno, Giunone, Vulcano; la serie
di timore ha Fineo, Tolomeo, Andromaca, Dionisio siracusano: e le ragioni di
queste figure sono nei terzetti analoghi accennate e nel commentario
ampiamente dichiarate. Il lor significato le colora, dice nel sonetto
introduttivo il Boiardo. Il colore è nel campo su cui sono dipinti semi e
figure, e le figure medesime ritraggono, in qualche parte dell' abbibliamento,
di quel colore che indica la passione da esse rappresentata. Qui purtroppo non
in tutto ci soccorre la descrizione del Viti, perocchè mancano alcune carte
del codice (v. p. 325) in cui certo era detto il colore del timore. E a farlo
apposta per questa parte male ci servono eziandio le diverse trattazioni che
possediamo intorno al linguaggio cromico del rinascimento [Equicola, Libro di natura d' amore, Venezia, 1587,
cc. 247 sgg.; Simiani, Nicolò Franco, Palermo, 1890, pp. 68-70; Ringhieri,
Cento giuochi liberali e d' ingegno, Bologna, 1551, c. 38. Vedansi
specialmente, nell' opuscolo di v. Cian, Del significato dei colori e dei
fiori nel rinascimento italiano, Torino, 1894, estr. dalla Gazz. letteraria,
le pp. 15, 26, 35, ove sono riferiti i sonetti del Moretto e di Niccolò da
Correggio (quest' ultimo attribuito anche a Serafino Aquilano e a Giuliano de'
Medici), ed un altro trascritto dal Sanudo.]. Corrispondono invece perfettamente le indicazioni suddette ai
tre altri colori segnati dal viti: morello, cioè violaceo, per l' amore, verde
per la speranza, azzurro per la gelosia.
Le quattro
serie numerali di quattro colori diversi, con semi e figure mitologiche
speciali, dovevano naturalmente essere dipinte a mano a bella posta per questo
giuoco. Ma il lavoro più complicato e difficile era per la quinta serie,
quella dei tarocchi o trionfi. La minuta descrizione di essi, che il Viti ci
fornisce, è quanto di più caratteristico si può imaginare in quella miscela di
simbolismo eteico e di classicismo, che fu tanto cara al rinascimento nostro.
Confessa il Viti alla sua Madonna d' essersi con tanta minutezza trattenuto in
questi "novi Trionfi" perchè essa li possa "far dipingere senza essere ad
altri obbligata" (p. 337).
Il quinto
capitolo, adunque, è destinato ai naibi propriamente detti, cioè ai trionfi,
in numero di 21, più il matto. Perchè nella stampa questo capitolo s' intitoli
Trionfo del vano mondo è agevole il dirlo. Il mondo è la più elevata tra le
carte de' trionfi nel giuoco veneto-lombardo, ove ha il n.° 21, ed è una pura
consuetudine, peculiare, credo, alla terra oggi classica dei tarocchi, il
Piemonte, che l' angelo, 20 fra i trionfi, prenda il mondo nel giuoco,
quantunque abbia numero minore [Cfr.
su quest' uso Prammatica del giuocatore di tarocchi, Torino, 1846, p. 5 e
Grammatica del giuocatore di tarocchi, Torino, 1847, p. 9. L' uso d' una carta
effettivamente superiore al m ondo non v' è che nelle minchiate, le quali
seguono regole molto diverse dai tarocchi ordinari. Ivi, come accdennai, il n.
40 è delle trombe.]. Ora il Boiardo
ricongiunge il mondo col pazzo nella prima terzina del quinto capitolo, ed è
questo l' unico rimasuglio che nella serie boiardesca si ravvisi delle figure
dei tarocchi. Le quali figure mi si conceda, per maggior chiarezza, di
enumerarle quali usarono nel sec. XV e nel XVI, con a fronte quelle degli
odierni tarocchi subalpini [Rilevo le
prime dal Garzoni, Piazza, c. 244 r confrontato con Lacroix, che pare rimonti
direttamente al Volterrano; le seconde dai libretti piemontesi or ora citati]:
Uso
antico
|
Uso moderno
|
0.
matto |
0. matto |
1. bagattelliere |
1. bagattelliere |
2.
imperatrice |
2.
papessa |
3.
imperatore |
3.
imperatrice |
4.
papessa |
4.
imperatore |
5.
papa |
5.
papa |
6.
temperanza |
6.
amore |
7.
carro |
7.
carro |
8.
amore |
8.
giustizia |
9.
torre (fortezza) |
9.
eremita |
10.
ruota della fortuna |
10.
fortuna |
11.
vecchio |
11.
forza |
12.
appiccato |
12.
appiccato |
13.
morte |
13.
morte |
14.
diavolo |
14.
temperanza |
15.
fuoco |
15.
diavolo |
16.
stella |
16.
casa |
17.
luna |
17.
stella |
18.
sole |
18.
luna |
19.
angelo |
19.
sole |
20.
giustizia |
20.
angelo |
21.
mondo |
21.
mondo |
|