Appunti e ricette storiche

Una ricerca accurata di documentazioni certe sulla vita che si svolgeva nelle nostre ville ha portato al reperimento di materiali straordinari - a volte salvati in extremis da sicura distruzione - riguardanti l'alimentazione e la gastronomia:appunti e ricette scritti su foglietti rinvenuti casualmente in cassetti di antiche credenze, in biblioteche oramai in abbandono, in archivi conventuali, in case di contadini. Si tratta talvolta di piccoli capolavori letterari, tra l'altro di sgrammaticate pagine culinarie, o di serene e semplici annotazioni quasi tutte datate tra gli inizi del secolo XVIII e il successivo, qualcuna anche piu'- recente. Moltissime riguardano la cucina in villa, immagini di una ricca e raffinata ospitalità, legate ai formalismi dell'epoca, altre frutto di saggia cultura familiare, di esperienze scambiate con altre famiglie, immagini di una gastronomia campagnola che segue i ritmi dellestagioni, il ripetersi, in un territorio ben delimitato, di ricette e abitudini uguali o molto simili, induce a pensare che già allora, all'epoca dei Tiepolo, esistesse una precisa consuetudine gastronomica vicentina o, per lo meno, ben legata all'economia agricola del contado berico. A poco più di due secoli dalla scoperta dell'America, e di conseguenza dall'introduzione di tante nuove culture agrarie, dopo un lungo periodo di accanite diffidenze e ostilità per questi nuovi prodotti (la storia della loro introduzione coinvolge tutta l'Europa), il Veneto tutto e il Vicentino in particolare si ritrovano ad affrontare un rinnovamento veramente sconvolgente. I tradizionali cereali in uso fin dai tempi dei romani, come il frumento, la segala, il farro, l'avena, l'orzo, il miglio, vengono ora affiancati, e in molti casi sostituiti, dal mais americano, chiamato anche grano turco, e dalla patata. Il mais trova accoglienza e coltivazione inizialmente solo nel territorio di Schio, a Marano Vicentino (ecco il nome ancora attuale di Mais Marano o Maranello e nel basso territorio veronese: inizia così nel Veneto l'era della polenta. Altri alimenti nuovi che irrompono provocando la piu' straordinaria rivoluzione della cucina popolare e di villa sono il pomodoro, i grossi fagioli che, essiccati, si possono conservare a lungo, i peperoni, le melanzane e infine il tacchino, una gallina grande e guisa di pavone, come lo definisce nel 1788, bia-ulra.Tra i cibi tradizionali, ancora fondamentali nella cucina venera, ricordiamo quelli forniti dagli animali domestici, il latte e i suoi derivati, la selvaggina da pelo e da penna, la cui caccia, tra l'altro, costituiva uno dei passatempi preferiti dai signori. Una tale varietà di alimenti tradizionali e di nuova importazione da vita a una cucina molto ricca, spesso estremamente raffinata, anche se di facile esecuzione, che attenua molto l'uso delle costose spezie veneziane, e che considera pregiato non solo il pesce di mare, ma anche quello di acqua dolce. E' una cucina aperta alle innovazioni della Mittel-Europa, sensibile alle raffinate abitudini francesi, che arrivano nel Veneto attraverso i cuochi stranieri stipendiati da molte ricche famiglie. L'elenco dei cibi presenti nella cucina vicentina del Settecento sarebbe lungo e noioso. Ricordiamo solo lo zucchero, elemento primario nei dolci veneti dell'epoca, in sostituzione del miele di antica data; l'olio di oliva e il burro, al posto dello strutto, del lardo e del grasso di oca, per ottenere, come scrive l'Acanti, <<cibi sempre piu' raffinati nel gusto e nel bell'aspetto, ai nostri superbi vini, adatti>>. Il Settecento è anche il secolo del rinnovamento dell'arredo da tavola. La tradizione veneziana si arricchisce di nuovi modelli di argenteria e di rami battuti; di broccati e tovagliati magistralmente ricamati da pazienti mani di artisti; di posate con l'immagine del SanMarco; di candelabri di evidente ispirazione inglese; di attrezzi da cucina e di caffettiere. Splendide nella loro preziosa semplicità, le ceramiche, vanto delle manifatture di Venezia, Treviso, ma soprattutto di Bassano, Angarano, Este, Vicenza, che erano spesso opera di ceramisti celebri, quali il Caffo, i Terchi, Manardi, Antonibon, Dalla Valle, ed altri. Sembra che le ceramiche settecentesche fossero al novanta per cento, <<contenitrici di gastronomia>>, secondo una definizione del marchese Vicentini del Giglio, che operava con la sua grande manifattura di stoviglie, già dal 1788, in Borgo S.Croce, a Vicenza. Purtroppo queste ceramiche, a volte vere opere d'arte, sono state per la maggior parte disperse o sono andate distrutte a causa della loro fragilità. Per fortuna se ne conserva ancora qualche pezzo nei musei e nelle collezioni private. Per avere, però, un'idea della ricchezza degli arredi delle tavole settecentesche basta osservare attentamente la pittura veneta che racconta, attraverso i pennelli degli artisti, la vera storia delle abitudini della nobiltà in villa. E le "cene" ne sono un soggetto frequentissimo, con tutti i particolari delle grandi tovaglie, delle ceramiche, dei vetri, dei peltri, argenti, caffettiere, cioccolatiere e soprammobili.
<Immagine><Immagine: alexbn.gif (3110 byte)>Biblioteca Universitaria AlessandrinaCataloghi
Voci di Roma
 
 

SCHEDE

2) Agli amanti di mangiar frittelle Agli amanti di mangiar frittelle. Quà gni male se guarisce tutto. / Speciarmente chi tiè ntaccato er petto / Bona pasta, bon ojo e [m]ejo strutto, / Ve lo dice er seguente [m]io sonetto, / SONETTO / Bigna vení, si, bigna vení da mè, / ... [Roma, 1868?] Foglio volante; 58.5x42 cm. Fac. Lett. Misc. B.200; inv. 4392 Sul verso, manoscritto a matita da G. Zanazzo: Sonetto avuto da un Friggitore / di Trastevere l'anno 1868 / Zanazzo.
 

40) Berneri Giuseppe Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. A cura di Bartolomeo Rossetti Roma, Avanzini e Torraca editori, 1966. 438 p.; 17 cm "I Classici per tutti. Collana diretta da Bruno Cagli, 21". p. 5-49: introduzione critica con la bibliografia dell'A. Coll. 3418/21; inv. 636890 Raccolta Carducci

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64) Carnacina Luigi A magnà e... / a grattà tutto sta / a incomincià. Cucina romana in versi su ricette di Luigi Carnacina. Presentato da Luigi Carnacina e Giorgio Roberti. A cura del Centro Romanesco Trilussa [Torino?], Grafiche Alfa Editrice, 1976. 207 p.: ill., ritr. fot.; 23 cm. p. 7-14: Introduzione, di Luigi Carnacina (Er Cochetto de Piazza Bologna); p. 15-22: Quattro chiacchiere... in cucina, di Giorgio Roberti, presidente del Centro Romanesco Trilussa; p. 31201: ricette in versi di Roberto Ortenzi, Giulio Delle Fratte, Armando Ceretti, Mario Berenato, Romeo Collalti, Elio Spasiano, Elio Banal, Nino Capriccioli, Giacomo "Palmiro" Bompadre, Alfredo Bargagli, Aldo Dolfini, Clara Raimondi, Augusto Bellini, Tommaso Casieri, Adele De Nicola, Umberto Del Grande, Giorgio Roberti, Giuliano Malizia, Pino Carciotto, Ugo Antonini, Jole Petrini, Pippo Di Spes, Alfredo Bargagli, Mirella Miliacca, Umberto Borzelli ("Spianuzza"), Luciano Luciani, Renato Merlino, Renato Ranaldi, Carlo Bardella, Giuseppe Gioacchino Belli, Filippo Chiappini, Augusto Marini, Adolfo Giaquinto, Augusto Jandolo, Francesco Possenti, Renato Savelli, Luigi Carnacina; sul risvolto ant. della cop.: nota biogr.; ill. di Debey, Pino Grammatico ("Pigra") e di Gigi Huetter. Collezione privata
 

98) Crociani Alfredo Teatro romanesco. La ballata der vino. Qui Trastevere. ...e una "zumata" di versi vari dell'autore composti sulla via della "pennichella"... [Roma], Il Campidoglio Editrice, 1973. 145 p.: ill., musica; 21 cm. "Contemporanei viventi: Collana diretta da Vincenzo Morra. Teatro". p. 115-136: Zumata di versi vari; in appendice: antologia critica. Coll. 5256/4; inv. 698107 Raccolta Carducci

172) Fabrizi Aldo Nonno Pane. Ricette e considerazioni in versi. Con 16 tavole a colori di Mauro Pucciarelli e 20 disegni di Gianni Isidori Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1980. 178 p.: ill., ritr. fot.; 23.5 cm "Libri Illustrati Mondadori". Sui risvolti della sovraccop.: nota biogr. Raccolta Carducci

173) Fabrizi Aldo La pastasciutta. Ricette nuove e considerazioni in versi. Con 16 tavole a colori di Enrico Ferorelli e 20 disegni di Ferruccio Bocca [Milano], Arnoldo Mondadori Editore, 1971. 174 p.: ill., ritr. fot.; 24 cm. 4. ed. (1. ed., settembre 1970); sui risvolti della sovraccop.: nota biogr. Raccolta Carducci

192) Fofi Gaetano Pane ar pane vino ar vino Roma, Tipografia Editrice "Italia", 1966. 109 p.: ritr.; 21 cm. p. 5-6: Presentazione, della moglie Iole Dari; p. 7-11: nota biogr. e antologia critica. 362.c.3; inv. 660758 Raccolta Carducci

Le ricette: Il Rinascimento a tavola
A cura del Dott. Alessandro Giacomello
 

Il piacere per la buona tavola accompagna da sempre le umane vicende.
Attraversando i fasti delle nobili corti o gli umili focolari domestici, fra ostentazione e miseria, la cucina del passato parla di noi e della nostra storia. E' a quelle antiche tradizioni, evolutesi nei secoli, che dobbiamo il successo delle pentole in rame Nico Marin. Ma anche se abbiamo recuperato i preziosi strumenti di quella cucina, i sapori che la caratterizzano, risultano spesso sconosciuti.
Dal Medioevo e dal Rinascimento giungono a noi elementi di una gastronomia spesso inaspettata, sia per la varietà delle sue componenti che per l'audacia degli accostamenti.
Con questa collezione di 27 ricette medioevali e rinascimentali, articolata in 9 gruppi di 3 ricette ciascuno, ognuno abbinato ad un modello delle pentole Nico Marin, vogliamo proporvi uno spaccato di questo mondo antico che tante sorprese saprà riservarvi. Ad ogni ricetta, riportata come appare nei testi originari dei quattro autoti, segue un elenco degli ingredienti, una traduzione che ne faciliti la lettura e alcune note storiche accompagnate da varie curiosità. Per chi, inoltre, desiderasse approfondire l'argomento, riportiamo una bibliografia essenziale. Sarà interessante tentare la realizzazione di queste ricette, tenendo però ben presente che possono esservi difficoltà non solo nei dosaggi e nel reperimento di alcuni ingredienti (es. agresto), ma anche nell'eseguire procedimenti che oggi sono desueti (per cui consigliamo, anche se antistorico, l'utilizzo dei nostri cari elettrodomestici).
Inoltre, è bene dirlo, dovrà essere il nostro amore per la gastronomia, a farci soffermare su abbinamenti e sapori imprevedibili, ma in grado di conquistare i nostri palati affamati di cultura.
 
 

Nico Marin snc - corso Roma, 90 - 33097 Spilimbergo (PN) Italia - tel. & fax +39.427.50550

ANONIMO MERIDIONALE - Libro A

Limonia
Affare limonia suffrigi li pulli con lardo e con cepe. Tria le amandole che siano mondate et sì le distempera con lardo de carne de porco, et sì le coci colli dicti pulli et con spetie, et se tu non ay amandole, spessa lu dicto brodo con ruscio de ova, et quando serrà presso ora de menestrare, mitice suco de lumuni o de citraculi. petti di pollo
lardo
cipolle
mandorle
(eventualmente rossi d'uovo sodi)
spezie
succo di limone Per fare limonia soffriggi il pollo in lardo e cipolle. Trita le mandorle, che siano già pelate, e poi stempera con lardo di maiale, e poi mettile a cucinare assieme al pollo con spezie; e se non hai mandorle ispessisci il detto brodo con rossi d'uovo, e quando sarà ora di servire mettici succo di limoni o di limoni amari.

CENNI STORICI

Tutti i trattati italiani medievali e rinascimentali presentano diverse ricette chiamate limonia, lumonia, lomonia o limonea, più o meno semplici oppure con l'aggiunta di molti altri ingredienti. Composizioni chiamate laymuwiya compaiono in testi arabi almeno dal XIII secolo e anch'esse possono essere molto semplici o complesse (con bietola, riso, yogurt, prezzemolo, melanzane, porro, carote, coriandolo, zenzero, menta), ma tutte in generale prevedono la carne di pollo, le mandorle e, naturalmente, il succo di limone. La salsa, dal gusto acido o agrodolce se dolcificata con miele o zucchero, veniva servita per accompagnare sia carne che pesce, come è attestato, tra tanti esempi possibili, dal pranzo tenutosi a Milano nel 1368 in occasione del matrimonio di Violante Visconti e Lionetto d'Anversa, duca di Clarence: al settimo servizio furono portati "caponi & carne in limonia, con pesce in limonia".

CRISTOFORO MESSISBUGO

A fare frittelle con fiore di sambuco per piatti sei
 

Piglia di farina oncie 4, povine fresche tre o di formaggio fresco libbra una, e di formaggio duro libbra mezza grattato, di formaggio salato oncie tre, e tanto levaturo quanto è mezzo uovo; e pista bene ogni cosa nel mortaio. E ponigliuova sei battute seco, e uno bicchiero di latte, e oncie 3 d'acqua rosa; e mescola bene ogni cosa insieme. E se ti paresse che il detto pastume fosse troppo duro, gli aggiungerai un poco di latte, tanto che stia bene, e oncie 3 d'uva passa; e per tempo d'estate gli porrai una oncia di fiore di sambuco a pistare secco. E poi con una gucchiara farai le tue frittelle, grandi e piccole, secondo che ti parerà. Poi le cuocerai in grasso colato o butiro, o dileguito libbre 3. E come saranno cotte, e per imbandirsi, gli ponerai sopra di zucchero grattato oncie quattro. farina ricotta (formaggio fresco) formaggio da grattugiare
formaggio salato lievito uova latte acqua rosa uva passa fiori di sambuco unto (burro, strutto)
zucchero Prendi quattro once di farina, tre ricotte di giornata oppure una libbra di formaggio fresco, una libbra e mezza di formaggio grattugiato, tre once di formaggio salato, la quantità corrispondente a mezzo uovo di lievito e pesta ogni cosa nel mortaio. Aggiungi al composto sei uova sbattute, un bicchiere di latte, tre once d'acqua rosa e fai amalgamare bene. Se il composto dovesse risultare troppo denso, allungalo con una quantità adeguata di latte e tre once d'uva passa. Nel periodo estivo pesterai assieme aglialtri ingredienti anche un'oncia di fiori di sambuco. Poi con un cucchiaio farai le frittelle grandi o piccole, a tuo piacimento. Le friggerai nell'unto, o nel burro, o in tre libbre di strutto. Quando saranno pronte da servire le spolverizzerai con tre once di zucchero in polvere. CENNI STORICI La parola 'frittella', come il verbo 'friggere', ha un'origine etimologica onomatopeica: deriva il suo nome dal "rumore", dallo sfrigolio dell'unto nella padella. Era una pietanza, e un metodo di cottura, allora come oggi, molto comune e non è difficile reperire anche nei testi letterari la loro menzione; Teofilo Folengo, ad esempio, nomina le "frittolae" e le "fritellae", oppure il Burichiello le "fritelle erbate". Anche i libri di cucina contengono quindi molte ricette per fare frittelle, spesso raggruppate in un capitolo apposito (Martino Rossi, Plaina, ecc.). Le frittelle potevano essere dolci o salate, con carne o pesce, con frutta o legumi, ma anche senza nulla dentro, come le famose "frittelle piene di vento" di Maestro Martino, "che si gonfieranno le frittelle che pareranno piene e saranno vote", una ricetta di tanto effetto da essere riproposta anche da Cristoforo Messisbugo.
MARTINO ROSSI Herbolata de maio Piglia altretanto cascio frescho como è dito di sopra et pistalo molto bene, et habi quindici o sidici bianchi d'ova con un quarto vel circha di bon lacte; et pigliarai de le vietole in bona quantità, cioè per la maiore parte, et de la maiorana pocha, salvia assai, menta pocha, petrosillo assai. Et tutte queste herbe pistarai insieme molto bene premendone fora il sucho, et passandolo per la stamegna. Il qual sucho mettirai insieme con le cose sopra ditte mettendo con esse meza libra di bono strutto, overo butiro frescho; et prendirai poche foglie di petrosillo, et pochissime foglie de maiorana, et con un coltello le tagliarai et le battirai più menute che sia possibile, et macinarale molto bene nel mortale incorporandole con le sopra ditte cose, agiongendovi meza oncia di zenzevero biancho, et otto oncie di zuccharo. Et fa' che tutta questa composizione sia ben mescolata in uno vaso, il quale metterai sopra le brascie lontano da la fiamma del focho, menando continuamente col cocchiaro, o altro intrumento atto a questo, tanto che ti para che se incomenci a pigliare a modo d'un brodetto. Et facto questo haverai apparecchiata in la padella una pasta sottile, et mettirali dentro queste cose sopra ditte, cioè pieno, daendoli il focho temperatamente ad ascio di sotto et di sopra. Et quando ti pare che sia presa abastanza, cavala fore, et metteli di sopra del zuccharo fino et dell'acqua rosata. Et simile torta o herbolata che vogliamo dire, quanto è più verde, tanto è migliore, et mostra più bella. formaggio fresco albumi latte bietola maggiorana salvia menta prezzemolo strutto (burro) zenzero zucchero pasta sfoglia o frolla acqua rosata Prendi tanto formaggio fresco quanto è indicato nella ricetta precedente [una libbra e mezza per la "Torta bianca"] e sminuzzalo molto bene e prepara quindici o sedici albumi e all'incirca un quarto di latte; prendi un buon quantitativo di bietole, che deve superare la quantità delle altre erbe, cioè abbastanza salvia e prezzemolo, e poca menta e maggiorana. Pesta tutte queste erbe facendone fuoriuscire il succo e passalo al setaccio. Aggiungi il succo agli ingredienti precedenti assieme a mezza libbra di strutto, oppure di burro; prendi ancora qualche foglia di prezzemolo e pochissima maggiorana, tritali con il coltello e fai un battuto finissimo pestato nel mortaio da incorporare poi agli altri ingredienti, aggiungendo mezza oncia di zenzero e otto di zucchero. Mescola bene il composto in un recipiente che metterai al fuoco lontano dalla fiamma, mescolando continuamente con un cucchiaio o un altro utensile adeguato, fino a quando incomincia a rapprendersi divenendo denso come un brodetto. Concluse queste operazioni fodera una padella con della pasta sottile e riempila con il composto, scaldandola lentamente sia sotto che sopra. Quando ti sembra che si sia rappresa sufficientemente, toglila dal fuoco e aggiungi di sopra zucchero e acqua rosata. Questa torta che si chiama erbolata, è tanto più buona e si presenta in modo migliore quanto è più di colore verde.
CENNI STORICI: L'erbolata era una ricetta molto comune, legata ai mesi primaverili e qui collegata specificatamente al mese di maggio. Poteva essere preparata con diversi tipi di erbe e compare in molti ricettari. Nel Libro de la cocina del XIV secolo è così descritta: "Di tutti i fiori e altre più erbe, quali che tu vuoli, puoi fare erbolato con cascio [formaggio] e ova e spezie, e desi [si deve] cocere nel forno o tra testi [disci di terracotta o altro materiale]: la crosta si chiama erbata". Si tratta quindi di una torta, una pietanza molto apprezzata che poteva essere dolce o salata. Purtroppo non è ancora ben chiaro l'ordine e la successione delle portate nei pranzi medievali e rinascimentali, soprattutto per quanto riguarda l'Italia, dove si possono riscontrare varie possibilità: se nel pranzo romano del 1513 in onore di Giuliano e Lorenzo de' Medici le torte vengono servite durante tutto il pasto e all'interno di moltiservizi (una torta verde, quindi probabilmente un'erbolata, viene proposta al dodicesimo servizio), di solito le torte venivano presentate dopo gli arrosti.
Bibliografia essenziale Cristoforo da Messisbugo, Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale a cura di Fernando Bandini, Venezia, Neri Pozza Editore, 1960.>Claudio Benporat, Storia della gastronomia italiana Milano, Gruppo Ugo Mursia Editore, 1990.Aldo Bertoluzza, Libro di cucina del maestro Martino de Rossi Trento, Edizioni U.C.T., 1993.Anonimo Meridionale, Due libri di cucina a cura di Ingemar Boström, Stockholm, Almqvist & Wiksell International, 1985 (Acta Universitatis Stockholmiensis, Romanica Stockholmiensia, 11).Emilio Faccioli, Arte della cucina. Libri di ricette, testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal XIV al XIX secolo Milano, Edizioni Il Polifilo, 1966, 2 voll.<Immagine>Jean-Louis Flandrin-Odile Redon, Les livres de cuisine italiens des XIV et XV siècles in "Archeologia medievale", VIII(1981), pp.393-408.<Immagine>Frammento di un libro di cucina del sec.XIV a cura di Olindo Guerrini, per "Nozze Carducci-Gnaccarini", Bologna, Zanichelli, 1887.<Immagine>Bruno Laurioux, Entre savoir et pratiques: le livre de cuisine à la fin du Moyen Age in "Medievales", 1988, n 14, pp.59-71.<Immagine>LVII ricette d'un libro di cucina del buon secolo della lingua a cura di Salomone Morpurgo, per "Nozze Franchetti-Henriquez", Bologna, Zanichelli, 1890.<Immagine>Bartolomeo Platina, Il piacere onesto e la buona salute a cura di Emilio Faccioli, Torino, Einaudi, 1985 (NUE, 189).<Immagine>Il libro della cucina del sec. XIV. Testo di lingua non mai fin qui stampato a cura di Francesco Zambrini, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1863.<Immagine>Maria Catricalà, La lingua dei "Banchetti" di Cristoforo Messi Sbugo in "Studi di lessicografia italiana", IV(1982), pp.147-268.<Immagine>Luigi Messedaglia, Aspetti della realtà storica in Merlin Cocai in "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", XCVIII(1938-1939), parte II, pp. 33-263.<Immagine>Bartolomeo Scappi, Opera Venezia, Michele Tramezzino, [1570].<Immagine>Odile Redon-Françoise Sabban-Silvano Serventi, A tavola nel Medioevo con 150 ricette dalla Francia e dall'Italia Bari, Laterza, 1995.<Immagine>Michele Savonarola, Libreto de tutte le cosse che se magnano. Un'opera di dietetica del sec. XV a cura di Jane Nystedt, Stockholm 1988.<Immagine>Ludovico Frati, Libro di cucina del secolo XIV Livorno 1899.<Immagine>Bruno Laurioux, Le 'Registre de cuisine' de Jean de Bockenheim, cuisinier du pape Martin V in "Mélanges de l'E'cole Française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes", Tome 100, 1988, II, pp. 709-760.<Immagine>"& coquatur ponendo". Cultura della cucina e della tavola in Europa tra medioevo ed età moderna Prato, Istituto Internazionale di Studi Economici "Francesco Datini", 1996.<Immagine>Giovanni Rebora, La cucina medievale italiana tra Oriente e Occidente in "Miscellanea storica ligure", XIX(1987), nn.1-2, pp. 1431-1579.<Immagine>Costanzo Felici, Scritti naturalistici, I, Del'insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del'homo a cura di Guido Arbizzoni, Urbino, Quattroventi Edizioni, 1986.
ANONIMO MERIDIONALE Un manoscritto contenente due diversi ricettari, oggi conservato alla collezione B.IN.G. di Sorengo, è comunemente noto con il nome di Anonimo meridionale, conferitogli da Ingemar Boström che lo ha edito, per i suoi evidenti meridionalismi (in particolare napoletani) nella lingua. Redatto alla fine del XIV secolo o all'inizio del XV, il manoscritto è diviso in due libri frammentari alquanto diversi tra loro. Il Libro A contiene 164 ricette alcune delle quali scritte in latino e fa parte, anche se molte ricette sono state soppresse e altre aggiornate e trasformate, di un folto gruppo di ricettari che testimoniano il grande successo che questa tradizione ebbe in Italia nel tardo medioevo. La tradizione viene denominata dei "12 Ghiotti" perchè viene fatta risalire alla "Brigata spendereccia" di Siena, composta da dodici ricchi aristocratici ricordati anche da alcuni commentatori di Dante. Il Libro A e il gruppo di testi che formano la tradizione dei "12 Ghiotti" (i frammenti editi da Morpurgo e Guerrini, i "quaderni" di Nizza editi da Rebora, il Libro per cuoco edito da Frati ecc.) sono caratterizzati dalla presenza di ricette dosate appunto per dodici commensali ma nessuno di essi, anche se continueranno ad essere successivamente ricopiati in alcuni manoscritti, avrà più successo dalla fine del XV secolo e non verranno mai stampati: la tipografia in Italia utilizzerà un nuovo testo, quello di Martino Rossi. Il Libro B invece, contenente 65 ricette, risale in parte a una tradizione diversa: soprattutto le ultime nove ricette, con precise indicazioni delle dosi, non hanno riscontro in altri ricettari e emanano un forte richiamo del mondo arabo.
JOHANNES BOCKENHEIM Tedesco, chierico, grazie alla sua attività di cuoco del personale della curia papale a Roma al tempo di Martino V, Johannes de Buckenheim (dal nome del piccolo borgo di nascita vicino a Worms) fece una discreta carriera ecclesiastica ottenendo numerosi benefici nelle diocesi di Worms e di Mayence. Del suo Registrum coquine, composto tra il 1431 e il 1435, sono noti due manoscritti, conservati alla Biblioteca nazionale di Parigi e in collezione privata a Londra. Il trattato, scritto in latino e contenente 74 ricette, fornisce indicazioni abbastanza sommarie sulla realizzazione dei piatti e doveva quindi essere un libro personale, per proprio uso. La tradizione culinaria che se ne ricava è relativamente arcaica, ancora caratterizzata dallo scarso uso di zucchero ad esempio, che proprio in quel secolo si stava diffondendo. La sua originalità è tuttavia data dalla costante indicazione della destinazione dei piatti, certo comprensibile in una tavola internazionale com'era sicuramente la mensa della curia papale. Le ricette terminano infatti sempre con un consiglio: et erit bonum pro (ottimo per) tedeschi, italiani, svedesi...; ma anche per categorie sociali: baroni, nobili, re, poveri, prostitute.
MARTINO ROSSI Conosciuto fino a pochi anni fa come Maestro Martino, cuoco del camerlengo e patriarca d'Aquileia Ludovico Trevisan a Roma, perchè così si definisce in due dei quattro manoscritti noti del suo Libro de arte coquinaria, oppure noto come Martino da Como, perchè così qualificato da Platina nel De honesta voluptate et valetudine, è possibile oggi dargli un nome preciso grazie a un manoscritto del suo trattato, conservato a Riva del Garda, dove è chiamato Martino de Rubeis, e tracciare con più precisione la sua vita. Nato in località Torre della valle di Blenio, oggi nel Canton Ticino, nel secondo o terzo decennio del '400, ottiene nel 1442 la rettoria di un ospizio situato nelle vicinanze. Nel 1457 è a Milano, cuoco di Francesco Sforza. In seguito è a Roma al servizio del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan e a Milano presso Gian Giacomo Trivulzio. Il testo di Martino Rossi è di grande importanza per la cucina europea, non solo per la precisione e la razionalizzazione delle ricette presentate, ma soprattutto per la vasta diffusione che la sua opera ha avuto, inserita da Platina nel suo trattato edito in latino nel 1475 e quindi pubblicata in italiano, francese, inglese fino al '700, anche in brevi libretti con il titolo di Epulario e sotto il nome di Giovanni Rosselli.
CRISTOFORO MESSISBUGO A differenza di Martino Rossi e di buona parte degli autori di ricettari culinari medievali e rinascimentali, Cristoforo Messisbugo, attivo come scalco e provveditore ducale alla corte Estense di Ferrara dai primi decenni del '500, sposato con la nobile ferrarese Agnese di Giovanni Gioccoli e morto nel 1548, non era un cuoco professionista ma l'economo dispensiere che controllava anche finanziariamente l'attività della corte. Il suo trattato intitolato Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale, pubblicato postumo un anno dopo la sua morte, è infatti diverso dai precedenti: la prima delle tre parti è un elenco delle cose necessarie all'organizzazione dei banchetti, dai vari alimenti alle pentole e attrezzi; nella seconda parte compare per la prima volta (se si esclude un manoscritto inedito napoletano conservato a New York) la descrizione delle portate di undici cene, tre desinari e una festa organizzati a corte tra il 1529 e il 1548; nell'ultima parte infine vi sono 323 ricette raggruppate in sei paragrafi (paste, torte, minestre, salse, brodi, latticini), suddivisione che avrà largo seguito in Italia e verrà adottata ad esempio da Romoli (1560), Scappi (1570) e Stefani (1662).
 
 
 

Gli Eraclide di Siracusa: l'arte culinariaPer vie traverse, grazie al libro polemico che Polemone redasse per confutare l'opera storica di Timeo, veniamo a conoscenza di un famoso cuoco siciliano: "Polemone dice, nella sua Replica a Timeo, che egli (Maìsona) venne dalla siciliana Megara, e non da quella di Nisea". (Ateneo, 659; c).Abbiamo pure in Ateneo un riconoscimento generico agli uomini di cucina siciliani, ad indicare che i lavori di Archestrato sono il frutto di una arte culinaria ben diffusa, ed apprezzata in Grecia e Sicilia."Ed Antifane dice similmente, in lode dei cuochi siciliani, in Difficile da vendere (Dhispràto): 'Dolci per un banchetto, insaporiti dalle arti siciliane'". (661; f).Gli Eraclide di SiracusaNon è solo Archestrato ad essersi dedicato all'arte culinaria in quel tempo, due autori omonimi sono ricordati, gli Eraclide, entrambi di Siracusa; ne parla ancora Ateneo (58, b), e possiamo supporli vissuti nel IV secolo:"Epeneto ed Eraclide di Siracusa in 'Arte culinaria' affermano che le uova di pavone eccellono sulle altre; seguono per qualità quelle d'oca; essi valutano le uova di gallina terze"."La 'chalkidos' oltre ciò è diversa dalla chalkeus (aringa; n.d.A.), ricordata da Eraclide (Erakleidos) nella sua Arte culinaria e da Eutidemo nel suo libro Sulle carni salate". (328; d).
Ed ancora una citazione dell'egiziano, relativo al significato della parola Mylloi:"Eracleide Erakleidos) di Siracusa nella sua opera Sulle istituzioni ( perì Thesmon), dice che in Siracusa per il Giorno della Consumazione (Pasteleìos Thesmophorìon) in occasione delle Thesmophoria venivavo impastati dolci di sesamo e miele, con forma di vulva, e denominati in tutta la Sicilia mylloi, e mostrati in onore delle dee (Demetra e Persefone; n.d.A.). (647; a).Segnaliamo per concludere l'autore del lavoro L'oste, indicato da Ateneo col nome di Erakleitos (Libro X; 414, d). E l'autore di un testo sulla cucina siciliana: Mithaecus. Ateneo dice:"Codesto Thearion è il panettiere menzionato da Platone nel Gorgia, che concorda con Mithaecus in tal modo: 'Quando ti domandai quali uomini hanno fatto, o fanno, del buono per mantenere sano il corpo umano, tu mi rispondesti con estrema serietà: Thearion il panettiere, Mithaecus che scrisse il trattato sulla cucina siciliana, e Sarambus il mercante di vini. Ciò perché essi stessi hanno dato prova di aver cura del corpo sfornando, il primo, del pane meraviglioso; il secondo per la deliziosa carne ed il terzo con l'aver fornito vino'". (112; e)."Esiste anche un gioco denominato 'dentro la coppa', nel quale i giovani sconfitti tendono le loro mani per ricevere le ginocchia dei ragazzi vittoriosi, e (sollevandoli; n.d.A.) li portano intorno". Diodoro, similmente, in Glosse Italiche, ed Heracleitus (o Heracleides; n.d.A.), concordando con Pamphilus, riferisce che il kotylé è denominato pure hemina; Diodoro cita i versi di Epicarmo: 'E per bere doppiamente più tiepida acqua, due heminai (adopera; n.d.A.)'. E pur Sofrone ripete: 'Getta via l'hemina, figliolo, e cin-cin!'. (479; a).EvemeroValle dei Templi (Agrigento)>Non è con certezza nativo della Sicilia, ma ciò è da attribuire alla sua vocazione per i grandi viaggi esplorativi, che lo videro a lungo lontano dall'isola. Ma più fonti lo danno nativo di Messina (Stephanus Byzantius, Aelian. var. hist. II, 31)) o di Agrigento (Clemente Alessandrino, protr. 2, 24). Riportiamo la seconda fonte:"Mi viene da meravigliarmi come mai abbiano chiamato atei Evemero di Agrigento, Nicanore di Cipro, Ippone, Diagora di Melo oltre al filosofo di Cirene di nome Teodoro; costoro con altri vissero saggiamente e videro con più acume degli altri l'errore a proposito di dei".Il popolo dei Messeni occupò in Sicilia Messena (già Zancle, infine Messina) nel V secolo a.C. ed il messene, se di tale colonia era, Evemero vi visse probabilmente dal 340 al 260 a.C. (poi nel 288 la città venne occupata dai Mamertini, prima di divenire città romana).Evemero fu amico di Cassandro, re di Macedonia nel 306, e per conto del quale il poeta fece diversi viaggi, tra i quali uno attraverso l'Oceano Indiano; nell'isola di Panchea egli trova e descrive un sistema sociale basato sulla coesistenza di tre classi: sacerdoti ed artigiani, coltivatori, soldati: ciò egli riporta nella Sacra scriptio (Registro sacro). Dell'opera abbiamo testimonianza dello storico Diodoro, che ne ha riportato dei frammenti, e alcune parti nella traduzione in latino da Ennio, lavoro a sua volta pervenutoci grazie a Lattanzio: la versione originale consisteva di circa tre libri, i framenti che ci sono giunti sono 26.Il viaggio di Evemero inizia dall'Arabia e, dopo molti giorni di mare, fa capo all'isola di Panchaia. Lì incontra la mite gente adoratrice di Zeus Trifilio, che al dio aveva eretto un tempio su di un altissimo monte. Anzi, per la locale mitologia era stato Zeus stesso a costruirselo. Nel tempio vi era una stele d'oro, decorata con incisioni che illustravano le gesta di Zeus e dei suoi discendenti: Urano, Crono, Zan.L'isola era dotata di fertile suolo e di ricche miniere, ed era organizzata secondo i principi di una comunità da regole dettate da Zan. Ma ciò che attira è il voler mescolare di Evemero elementi mitologici, riferimenti filosofici - Platone - tradizioni di diversi popoli, creando un componimento dal tono romanzesco. Per egli gli dei hanno origine umana, saliti a gloria divina per l'affetto dei loro cari, o, nel caso di re mortali, divinizzati per la ricoscenza data loro dai sudditi; a ciò contribuì l'aver egli visto nell'isola la stele antichissima dedicata a Zeus, dove si narrava di gesta nobili compiuti da comuni uomini, per questo poi assurti a deità. Tale visione dell'intero universo religioso greco ebbe larga fortuna in Roma, venendo bene incontro alle pragmatiche, soddisfatte voglie di conquista dei romani - tale concezione prese il nome di evemerismo - e non contraddiceva quanto attuato in campo storiografico dai greci, di impronta razionalistica nella considerazione dei miti eroici tutti, da Ecateo in poi. E ciò come in Archestrato, quindi, le cui idee amplificate e riorganizzate da Epicuro, furono amate dalla Roma patrizia.Evemero, come Teognide, deve aver avvertito che cambiamenti sociali erano in atto; vi era un affermarsi della borghesia sottraendo forza alla sempre meno solida aristocrazia. E si ha meno fede nei valori trasmessi dai padri, nei culti per le famiglie divine greche, e cresce la voglia di ritrovarsi in una società diversa, fondata su nuove regole che diano maggiori garanzie a chi si vede in politica ascesa. "Superno, figlio di Leto, voluto da Zeus, giammai ti dimenticherò" decanta commosso Teognide, reagendo al cambiamento. E chi invece si bea delle nuove prospettive addirittura viaggia lontano, sognando, trovando conferme ai propri nuovi bisogni. Tale "panta rei" dell'animo umano ha varii ricorsi nelle epoche che ci hanno trasportato il nostro oggi. Ciò basta a distaccarci dalle furiose lotte di ogni presente, il nostro non è migliore o peggiore d'altri, per suggerirci che i valori cui mirare sono perenni e quasi mai evidenziati dai contemporanei.
Archestrato di GelaFu poeta dalla tematica insolita, se possiamo giudicarlo solo in base ad i suoi lavori che i secoli (in pochi frammenti) ci hanno permesso di apprezzare: Hadypatheia (cioè Gastronomia o Piacevolezze, Sul dolce gusto) ed altri.Archestrato fiorì, come usano solitamente dire le fonti varie classiche per indicare non la data di nascita dell'uomo, ma il suo sbocciare alla vita artistica nel pieno della sua produzione, nel IV secolo a.C. ed il suo componimento pare sia stato scritto nel 330 a.C. (indirettamente ci si basa sulla data di enunciazione di alcune idee Aristoteliche, presenti nell'opera, e risalenti al 335 a.C.). Ha composto inoltre i Consigli, diretti ad amici, come Mosco o Cleano, e Gran Vita.I molti viaggi sostenuti dal nostro, per lo meno vantati negli esametri del poema, furono fatti al solo scopo di conoscere quante più "piacevolezze" del palato era possibile, onde elencarle e vantarle. Ennio apprezzò molto questo componimento, al punto da trarne ispirazione per i suoi Hedyphagetica. In Ateneo abbiamo riportata una attestazione di Dafno di Efeso:"A tali osservazioni Dafno l'Efesiano aggiunse quant'altro: 'Archestrato, che fece un viaggio per il mondo per saziare sia stomaco che altri più bassi appetiti, dice: 'Mangia, caro Mosco, una fetta di tonno Siciliano, al tempo del taglio per essere salato e messo in giare. Però il pesce persico, l'aroma del Ponto, io bene affiderei alle regioni basse, così come fa chi lo loda. Poiché pochi sono tra i mortali coloro che lo ritengono un misero boccone. Mantieni, comunque, uno scombro tre giorni fuori dall'acqua, prima che inizia la salamoia, ancora fresco in giara e solo mezzo salato. E se tu andrai nella splendida città di Bisanzio, mangia ancora - ti prego - una fetta di horaion, perchhé esso è proprio succulento'" (116 f, 117 a; Ateneo, I Deipnosofisti, op. cit.).Per Archestrato tutto va considerato prima di ingoiare del cibo; se si parla di pesce - ne è un patito - si specifica la specie, ed il tempo in cui va pescato perché offra il meglio di sé - ad esempio "Al sorgere di Sirio", (Ateneo; 327, d; op. cit.) al condimento, che va lesinato se si dispone di polpa già gustosa; la cottura varia per modalità, certo, ma occorre porre la massima concentrazione sul bene che subisce l'assalto della fiamma, quasi che la volontà umana possa misteriosamente dire la sua al cibo che si intenerisce.Pur conta come si mangia, velocissimamente se si hanno certe portate.
"Ad Enos e nel Ponto compra la sogliola, che qualche mortale chiama scava-sabbia. Fai bollire la sua testa senza condimenti, semplicemente ponila in acqua mescolando frequentemente. Al suo fianco poni dei capperi spezzettati, e se desideri proprio dell'altro aggiungi sopra del forte aceto; fallo assorbire per bene, e poi mangia in fretta, senza paura di soffocarti per troppo zelo. La rimanente parte, posteriore e altro, del pesce andrebbe infornata". (326, f; 327, a; op. cit.).
"A Delo come in Eretria, forniti di porto, abitano presso il mare. Lì compra solo la testa (del phagros; n.d.A.) e la coda affettata; tutto il resto, amico mio, non farlo entrare neppure in casa". (327; d).
Ateneo è prodigo di elogi per il gelese, definendolo persino"polistor", cioè di grande cultura (325; d).
"Poiché Archestrato, nel Gastronomia, descrive con tali parole dove è possibile comprarlo: 'In Sicion, amico caro, tu puoi ottenere la testa del grongo: polposa, grossa, vigorosa, assieme alle interiora. Quindi falla bollire in acqua salata a lungo, poi devi aromatizzarla'. Proseguendo tale nobile esplorazione egli descrive le regioni italiane, per poi riprendere:'Tu puoi pescare un bel grongo (goggros), che è così superiore agli altri pesci, così come il più grasso tonno lo è del povero pesce corvo (ombrina; n.d.A.)'". (293; f; 294; a) ."Ed il saggio Archestrato (dice): 'Quando andrai a Mileto, prendi dal Gesone (un fiume, od una palude; n.d.A.) un cefalo, ed una spigola, creatura degli dei. Poiché lì vivono come meglio non si potrebbe, per la natura del luogo.Ce ne sono tanti altri più grassi nella splendida Calidone, o nella salubre Ambracia come nel lago Bolbe; ma quelli non hanno uguale fraganza di interiora, o una polpa così stuzzicante. Quelli di Mileto, amico mio, sono eccellenti, meravigliosi. Una volta nettati dalle squame, mettili in forno con fuoco tenue, e servili senza grasse salamoie. Ma non permettere che Siracusani o Greci d'Italia ti stiano accanto quando ti dedichi a questo piatto, poiché essi non sanno preparare un buon pesce, preferendo sciuparlo errando appieno riversandogli formaggio, e inzuppandolo d'aceto e salamoia a base di silfio. Per quanto riguarda i tre volte maledetti pesci di scoglio, essi sono i migliori nel comprenderne le doti, preparandone cene, con raffinata destrezza le varie specie con grasse salse'". (311; a,b,c; op. cit.)Ed ancora riferisce Ateneo di Archestrato (4, a) avanzando una critica al grande esperto, citando un frammento dell'opera stronomia:
"Archestrato di Siracusa - od era egli di Gela? - in un lavoro che Crisippo chiama Gastronomia (che però la quale Linceo e Callimaco titolano L'arte della dolce vita, e Clearco L'arte del mangiare, ed altri: L'arte della prelibata cucina) ed è un poema in verso epico che inizia così:'Lezioni d'apprendere io offro all'intiera Ellade'- e continua -'concedete di servire pranzo su di una tavola sfiziosamente apparecchiata. Lì dovrebbero sedersi in tre o quattro al massimo, o a limite non più di cinque. Altrimenti noi dovremmo ora avere un padiglione di predoni, ladri del vitto'. Egli non sa che alla mensa di Platone vi erano dagli otto ai venti commensali"."Ed il nobile Archestrato afferma: 'Compra un cefalo nella Egina cinta dal mare, ed avrai la compagnia d'affascinanti uomini'". (307; d;).
"Piuttosto, comprami la testa di un 'glaukos' ad Olinto o a Megara; poiché viene pescato nelle lagune della magnifica terra". (295; c; op. cit.).Ma tali digressioni, norme di etichetta, da rispettare quando si ha la coscienza di vivere in una civiltà così evoluta da abbisognare che l'alimentazione segua dei riti d'eleganza, vanno intese non come capricci degli uomini di corte, ma diffuse anche al ceto benestante dell'isola; leggiamo ancora in Ateneo (4; b, c) che a detta di Clearco "Carmus il Siracusano aveva versi e proverbi sempre pronti per ogni piatto servito nei suoi banchetti".Ed ancora: " (...) c'era Tellia di Agrigento, un gentiluomo ospitale, che dava il benvenuto a tutti coloro che giungevano, ed il giorno che cinquecento cavalieri di Gela si fermarono da lui durante la stagione invernale, egli diede ad ognuno una tunica ed un mantello"."Nel tempo in cui Orione si trova nei cieli, e la madre dei raccoglitori di vino inizia a disperdere le proprie trecce, allora abbi un sarago infornato, cosparso di abbondante, caldo, formaggio, e sferzato da mordace aceto, poiché tale pesce ha polpa coriacea. Ricordati perciò di condire in tale modo ogni pesce duro. Ma il pesce naturalmente tenero, di ricca polpa, aggiustalo solo di sale e olio, poiché esso ha solo in sé stesso ogni gioia". (321; c).Ma quanto è grande invece la personalità di questo gran goloso?"E così, amici miei, quando si tengono in conto questi fatti, egli dovrebbe a buon motivo approvare l'atteggiamento del nobile Crisippo, per la sua acuta assimilazione dell'opera 'Natura' di Epicuro, ed il suo evidenziare che il cuore della filosofia epicurea è la Gastronomia di Archestrato, nobile poeta epico che a tutti i filosofi diede familiare nutrimento, che rivendica come Teognide il merito suo" (104, b).Questo è un frammento che in estrema sintesi rivela quanto alto merito gli studiosi del tempo scrutavano nell'opera del gelese - che qui riponiamo in risalto dopo troppo tempo - ponendolo come creatore di un nuovo pensiero, poi detto epicureano dopo la sua divulgazione, che, ricordiamo, splendette ammirato nella ricca ed affermata Roma imperiale. E si ha una ripresa di esso nel VII libro dei Deipnosofisti (278; f):"Crisippo, a tutti gli effetti un vero filosofo, dice che Archestrato fu il precursore di Epicuro e di coloro che adottarono le sue dottrine sul piacere, causa di ogni corruzione".Conferma fortemente quanto detto anche il fatto che Antifane scrisse un' opera che prese nome dal gelese:Archestrata, o Archistrata (Ateneo; 322, c). Ma leggiamo altresì in Diogene Laerzio:"Teodoro eliminò radicalmente le comuni credenze negli dei e ci è occorso di leggere un suo libro Degli Dei punto spregevole. Secondo alcuni anzi questo libro fu la fonte preminente di Epicuro". (Vite dei filosofi; II, 97; a cura di M. Gigante; Laterza, 1976).Vale qui sottolineare, seguendo il bel parere del professor Burton che fu della Harvard University, che"persino gli Ateniesi, conosciuti per i loro semplici costumi di vita, adottarono una cucina più raffinata dopo il benessere succeduto al periodo delle guerre Persiane. Specialmente in Sicilia, l' arte culinaria si era elevata quasi a dignità di scienza verso il V secolo a.C."e - come noi consideriamo sul piano letterario l'attrattiva che l'isola esercitava sui dotti del tempo - lo studioso paragona la diffusione dei manuali siciliani di cucina per il mondo greco alla esportazione dell'arte culinaria negli Stati Uniti nei primi del secolo, a beneficio dei semplici "New Yorkers" cui venne insegnato loro come e cosa mangiare. Dopo aver viaggiato per il mondo, siamo d'accordo con piena convinzione, ma sicuri che Archestrato avrebbe certo gustato le certamente migliori bistecche americane: le nostre paiono offendersi dal contatto col fuoco, richiudendosi in loro stesse, e dando al palato poca gustosa confidenza. Tornando a considerare il ruolo della Sicilia come terra attiva ed ammirata non è raro in Ateneo riscontrare frasi di tale genere:"Il poeta comico Efippo nella commedia Filira (Philyra è il nome di una cortigiana; n.d.A.), dice: - 'Affetterò la razza e ne farò bollire le fette? Che ne pensi? Oppure, alla moda siciliana, è meglio infornarla? - Così è meglio, alla siciliana'". (286; e; op. cit.)Ed ancora nei Deipnosofisti:
"Il Latos. - Tale pesce, concordando con Archestrato, è migliore in Italia. Egli assicura che: 'Nello stretto di Scilla, nella boscosa Italia, si cela lo splendido latos: cibo meraviglioso'" (311; f; op. cit.).
"Però riguardo al 'sinodontas', ricercane solo uno bene in carne. E prova inoltre, amico mio, a pescarlo nello stretto. Lo stesso consiglio, visto che ci siamo, lo do anche a te, Cleano" (322; c; op. cit.).
Ecco altri frammenti o inserimenti del pensiero di Archestrato nel conciliabolo di Ateneo coi suoi 'ospiti': "'Pane infornato su cenere', questo dice quel grande maestro di cucina che è Archestrato (...)" (110, a).
"Archestrato mette a fuoco così, nella sua Gastronomia, i soggetti di pane e pan d'orzo: 'Per prima cosa, perciò, caro Mosco, io richiamerò alla mente i doni del biondo Demetrio, che mi giacciono nel cuore. Ciò che di meglio si può ottenere, sì!, la più graziosa del mondo, è la limpidamente setacciata figlia dell'orzo, che cresce ondulato dal vento, sui rotondi seni terrei di Eresio, a Lesbo. E' più chiara della neve versata dal cielo. Se è vero che gli dei mangiano farina d'orzo, Hermes dovrà correre lì per comprarla loro. Nella Tebe dalle sette porte c'è ugualmente dell'ottimo orzo, a Thasos pure, ed in altre città; ma paiono tosti acini, confrontati con quello di Lesbo.Afferra con sicuro intendimento quanto ti dico. Concediti pur tu i pani della Tessaglia denominati krimnitas, che peraltro tutto il mondo conosce come chondrinos. Come seguente suggerimento, ti indico l'innesto del sopraffino grano di Tegea, infornato con cenere. Ottimo, pure, è il pane di farina che viene prodotto per il mercato di Atene, per ogni mortale; così come valido è il pane che viene sfornato dai forni dell'Eritrea, dove cresce abbondante l'uva in ogni delicato, ricco, momento delle stagioni: ti delizierà nei banchetti'.Segue a questa descrizione, dello chef Archestrato, la raccomandazione che i panettieri siano Fenici o Lidi; egli non sapeva che i fornai Cappadoci sono i più grandi. Così dice: 'Assicurati d'avere in casa un uomo dalla Fenicia o dalla Lidia, che sappia come fare giornalmente ogni sorta di pane, qualsiasi sia la tua richiesta'". (111, f, segg.; op. cit.). Prosegue Ateneo:"E quell'artista della gran portata, Archestrato, nel suo Gastrologia (...) dice ciò a proposito dell'amias (tonnina; è incerto; n.d.A.): 'Così come per l' amias, preparalo per l'autunno, al tempo delle Pleiadi, e nel modo che più ti piace. Ma perché ho bisogno di ripeterti ciò parola per parola? Non riuscirai a sciupare ciò, anche se lo vorresti, perché è per te. Se tu insisti, caro Mosco, sul voler essere istruito sul modo migliore di condire quel pesce, avvolgilo in foglie di fico con pochissima maggiorana. Niente formaggi, non facciamo assurdità! Semplicemente, mettilo in foglie di fico, con dolcezza, e legalo in punta con un laccio; quindi immergilo in cenere calda, e concentrati sul tempo coscienziosamente, finché sia cotto e non bruciato. Lascia che ti giunga dall'amabile Bisanzio, se desideri quanto c'è di meglio, ma l'avrai ottimo anche se sarà pescato qui intorno.Ma è più scadente quello che arriva da più lontano del mare dell'Ellesponto, e se viaggerà sui lucenti flutti del salato Egeo, non sarà a lungo lo stesso, e totalmente crederai alle mie prime preghiere'". (278; b, c) "Codesto Archestrato, spinto da amore per i piaceri, scientemente attraversò terre e mari seguendo il suo desiderio - così mi sembra - di verificare con calma tutti i piaceri della gola; ed al modo dell'autore di Viaggi e crociere, egli si prefisse di esporre accuratamente qualunque cosa e 'Dovunque ci fosse il meglio mangiabile e bevibile'. A tal scopo, nella prefazione di quei nobili Consigli che egli dedicò ad i suoi amici Mosco e Cleandro, egli suggerì loro - alla maniera, citando la sacerdotessa di Pitia - 'di procacciarsi una cavalla dalla Tessaglia, una moglie da Sparta, ed uomini che bevono dalla chiara fonte d'Aretusa'". (278; d, e; op. cit.)Nel suo Consigli, per l'amico Mosco, Archestrato, definito'eccellente'e'genio'da Ateneo non ci giunge il nome di un pesce, probabilmente lo storione (antakaios), non citabile secondo lo schema dell'esametro:"Solca l'acque del Bosforo il più bianco tra i pesci; ma null'altro va detto sulla coriacea polpa di quel pesce che prospera nel lago Meotide (Mare d' Azov; n.d.A.); pesce che non si può menzionare in versi". (284; e)"E il dotto Archestrato nei suoi Consigli afferma: 'Non obliare il polposo chrisophros (orata?; n.d.A.) di Efeso, che la gente di lì chiama ioniscos. Compralo, giacché è nutrito dal sacro Selinuntos (fiume di Efeso; n.d.A.). Sciacqualo attentamente, poi infornalo e servilo intiero, persino se dovesse essere lungo dieci cubiti'". (328; b, c)."E considerando la rana pescatrice (pesce coda di rospo, o lofio; n.d.A.), il dotto Archestrato fornisce questo altro parere tra generici consigli: 'Ogni qual volta tu vedi una rana pescatrice, comprala (...) e condisci il suo ventre.' (...) 'Mangia la razza bollita a metà della stagione invernale, condita con formaggio e silfio ( pianta originaria della Cirenaica, non sappiamo oggi quale sia; n.d.A.). E in tal modo puoi condire qualsiasi polpa proveniente dal mare che non sia troppo grassa; ed è la seconda volta che ti do tale suggerimento'". (286; d)Ed ancora una (coraggiosa) ricetta a base di pesce, forse si tratta del gobione quando si legge di un 'gonos' piccolo, buono da friggere:"Considera scadenti tutti i piccoli pesci da friggere, tranne quelli ateniesi; intendo riferirmi ai gonos, che gli Ionici chiamano bavosa; e accettali solo se pescati da poco nel mare della baia di Falero (...). Se tu desideri gustarli appieno devi, al contempo al mercato, acquistare delle urticanti anemoni di mare con tentacoli a foglia. Poi uniscili al pesce e rosola tutto in padella, dopo aver preparato una crema di verdure scelte per ricoprire il tutto". (285; b, c; op. cit.).
Ed ancora altri frammenti, per un mosaico comunque incompleto:"La corifena da Caristo è la migliore, e generalmente parlando Caristo è area ricchissima di pesce" (304; d)"Ugualmente in Thaso compra una triglia, ed avrai roba niente male. A Teo è di minore qualità, purtuttavia è buona, se pescata nelle vicinanze della riva" (325; e)."Dal profondo abisso del largo mare, se in inizio estate (pescati), nel tempo che Fetonte col suo carro percorre l'orbita sua più larga, compra degli 'aulopia'. Servili scottati e accompagnati da salsa. Parte di interiora arrostisci con spiedo"(326, b; l'aulopia potrebbe essere un tipo di scombro).Da Gran vita, sempre in Ateneo, abbiamo pochissimi frammenti:
"Archestrato in Gran vita (HdvpaOeia): 'Qui ci sono dei rombi al forno, e una razza, e la testa d'un tonno'". (306; b).Ateneo cita la Gastronomia anche con tale nome e significato.Nei Deipnosofisti viene riferito che Linceo di Samo, autore di un Trattato sul commercio, dice di stare attenti a quei venditori dallo "sguardo duro come pietra" che non scendono col prezzo, citando frasi di Archestrato per vantare la propria mercanzia ittica:"Il mormoro di costa è un misero pesce, mai per nulla buono (...) ma a Taso compra pure la scorpena (scorpìos) se non è più lunga del tuo braccio; da una più grande tieni lontane le tue mani". (313, f; 314, a)."Giudicherò sempre la salpa un pesce scadente. E più gustoso al tempo che vede il grano mietuto. Compralo a Mitilene". (321; f).Nella Magna Grecia erano da alcuni mal visti i cosidetti ospiti, desiderosi di rimanere accanto (para) al cibo (sitos): parassiti. Si trattava spesso di approfittatori malvisti; ne parla - male - Ateneo, dopo riportando frasi dell'ammirato Archestrato; il discorso tenuto da Ateneo ha passaggi poco chiari, e d'un tratto, l'argomento sugli ospiti interessati, si sposta su di un altro pesce: lo squalo."Nossignore, non sono molti i mortali che conoscono tale ottimo cibo, o che consentono che altri ne mangino. Non lo vogliono gli uomini che sono forniti d'anima piccina come quella della stupida, male alata locusta, e ne sono paralizzati a causa di quel che si dice, che tale essere sia un mangiatore d'uomini. Ma ogni pesce gradirebbe carne umana, se potesse averne. Quindi è un dovere da parte di quanti così stupidamente parlano, indirizzarsi per ciò che riguarda l'alimentazione sui vegetali; indi correggersi con le idee del filosofo Diodoro, e vivere da astemii come tutti i Pitagorici". (163,d;op.cit.)."In Rodi si trova del pescecane, o squalo. Persino se tu debba morire per averlo, se essi non vogliono vendertelo, prendilo con la forza. I Siracusani lo chiamano cangrasso. Ed una volta che lo hai avuto, sottomettiti pazientemente a qualsiasi destino ti sia stato decretato". 286; a; op. cit.).Non occorre rischiare molto per mangiare dello squalo, e non è neanche cattivo nei riguardi del palato: scherzando cerchiamo di dirvi che solo la fortuna può avervi aiutato, se non l'avete già mangiato venduto come stoccafisso nordico. Ma è un nostro parere.Possiamo riferire adesso, quasi in conclusione di questo viaggio nel gusto d'uomini vecchio di duemila e trecento anni, un commento di Crisippo, dal quinto e dal settimo libro del suo trattato Sul piacere e sul bene. Crisippo vede nel mondo di sapori deliziosi dischiuso da Archestrato un abbinamento inevitabile con la ricerca d'altri piaceri. Rimandiamo ancora ad altri posteri la sentenza, con un quesito: sarà colpa di cotanto pesce mangiato in Sicilia e dintorni? Ne riparleremo."Vi sono i libri di Filenido, e la Gastronomia di Archestrato, e potenti stimolanti d'amore e di rapporto sessuale; parimenti le giovani schiave erano pratiche di tali atti e di tali situazioni, e dedite a praticar tali cose.(...) Questo e ciò che impararono per passione, guadagnandoci da ciò che fu scritto da Filenido ed Archestrato, ed altri autori di simile ciarpame. (...). Così come non si può apprendere con cuore quanto scritto da Filenido e nella Gastronomia di Archestrato, tenendo a mente che essi possono contribuire in qualche modo a vivere meglio. Ora tu (Ateneo; n.d.A.), nel citare così spesso codesto Archestrato, hai addotto scandalo a questo nostro simposio.Cosa, mi chiedo, ha mai omesso questo nobile poeta epico, che sia considerato rovinoso per la pubblica morale? Egli è il solo uomo che abbia imitato l'esistenza di Sardanapalo, il figlio di Anasindarasse, il quale, come Aristotele disse, fu più sciocco persino di ciò che anticipa il nome di suo padre. (...) (Ateneo, 335, d, e, f; op. cit.).Ateneo riferisce di tanti amanti del buon cibo ben preparato, e gli aneddoti non sono privi di grazia. Ripete quanto detto da Egesandro, di uno scambio di frecciate tra il poeta Antagora e il re Antigono, evidentemente durante una campagna militare, dove il re si sarebbe aspettato la composizione di un qualche verso in suo onore da parte del suo uomo di cultura:"Un giorno (il poeta; n.d.A.) cucinava nell'accampamento un grosso capitone arricchito da lombata. Il re Antigono che gli stava accanto gli chiese:'Pensi proprio, Antagora, che Omero avrebbe potuto narrare le gesta di Agamennone, se fosse stato impegnato nella cottura di un capitone?'Al che Antagora replicò come saetta, 'Voi credete che Agamennone avrebbe compiuto tali gesta se fosse stato un simile impiccione, che desidera sapere chi, tra quelli del suo esercito, cucina capitoni?Ed una volta avvenne che Antagora, che stava facendo bollire una gallina declinò l'invito per andare a fare una nuotata, temendo che i suoi servi ne avessero approfittato per trangugiare tutto il brodo. Su ciò Filocide diede il suo consiglio, cioè che la madre del poeta avrebbe potuto sorvegliare la sua pentola. 'Cosa?!', rispose. 'Ed io dovrei affidare il mio pollo in brodo a mia madre...?'" (340; f).
Archestrato, quindi, era in buona compagnia; in molti apprezzavano il buon gusto dei piatti più ricercati, magari con la consapevolezza che una buona cottura, la freschezza del cibo, erano anche garanzia di igiene e, di conseguenza, di salute. Badiamo a non fare passi indietro, oggi, tra un locale pubblico e l'altro dove persino il rispetto della salute - se non del portafoglio - difetta alquaanto. Per non parlare dei contemporanei, indegni, imitatori di Archestrato i quali, viaggiando, presumono di indicare al mondo i locali dove ci si nutre meglio con osservanza d'etichetta. Noi siamo stati a lungo in Inghilterra e Scozia, ed è stato arduo non far la fine ingloriosa di altri colleghi universitari - e spiace pensarlo, ma anche colleghe - che si sono ridotti per settimane a vivacchiare tra una tazza e l'altra, ignorando il thè al latte, e sperando nel thè al limone. La guida Michelin 1995 ha assegnato più 'stelle' ai ristoranti inglesi che non italiani: punto.Al nostro lettore ora consigliamo di leggere la scheda per gli Eraclide.

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