Una ricerca accurata di documentazioni certe sulla vita che si svolgeva
nelle nostre ville ha portato al reperimento di materiali straordinari
- a volte salvati in extremis da sicura distruzione - riguardanti l'alimentazione
e la gastronomia:appunti e ricette scritti su foglietti rinvenuti casualmente
in cassetti di antiche credenze, in biblioteche oramai in abbandono, in
archivi conventuali, in case di contadini. Si tratta talvolta di piccoli
capolavori letterari, tra l'altro di sgrammaticate pagine culinarie, o
di serene e semplici annotazioni quasi tutte datate tra gli inizi del secolo
XVIII e il successivo, qualcuna anche piu'- recente. Moltissime riguardano
la cucina in villa, immagini di una ricca e raffinata ospitalità,
legate ai formalismi dell'epoca, altre frutto di saggia cultura familiare,
di esperienze scambiate con altre famiglie, immagini di una gastronomia
campagnola che segue i ritmi dellestagioni, il ripetersi, in un territorio
ben delimitato, di ricette e abitudini uguali o molto simili, induce a
pensare che già allora, all'epoca dei Tiepolo, esistesse una precisa
consuetudine gastronomica vicentina o, per lo meno, ben legata all'economia
agricola del contado berico. A poco più di due secoli dalla scoperta
dell'America, e di conseguenza dall'introduzione di tante nuove culture
agrarie, dopo un lungo periodo di accanite diffidenze e ostilità
per questi nuovi prodotti (la storia della loro introduzione coinvolge
tutta l'Europa), il Veneto tutto e il Vicentino in particolare si ritrovano
ad affrontare un rinnovamento veramente sconvolgente. I tradizionali cereali
in uso fin dai tempi dei romani, come il frumento, la segala, il farro,
l'avena, l'orzo, il miglio, vengono ora affiancati, e in molti casi sostituiti,
dal mais americano, chiamato anche grano turco, e dalla patata. Il mais
trova accoglienza e coltivazione inizialmente solo nel territorio di Schio,
a Marano Vicentino (ecco il nome ancora attuale di Mais Marano o Maranello
e nel basso territorio veronese: inizia così nel Veneto l'era della
polenta. Altri alimenti nuovi che irrompono provocando la piu' straordinaria
rivoluzione della cucina popolare e di villa sono il pomodoro, i grossi
fagioli che, essiccati, si possono conservare a lungo, i peperoni, le melanzane
e infine il tacchino, una gallina grande e guisa di pavone, come lo definisce
nel 1788, bia-ulra.Tra i cibi tradizionali, ancora fondamentali nella cucina
venera, ricordiamo quelli forniti dagli animali domestici, il latte e i
suoi derivati, la selvaggina da pelo e da penna, la cui caccia, tra l'altro,
costituiva uno dei passatempi preferiti dai signori. Una tale varietà
di alimenti tradizionali e di nuova importazione da vita a una cucina molto
ricca, spesso estremamente raffinata, anche se di facile esecuzione, che
attenua molto l'uso delle costose spezie veneziane, e che considera pregiato
non solo il pesce di mare, ma anche quello di acqua dolce. E' una cucina
aperta alle innovazioni della Mittel-Europa, sensibile alle raffinate abitudini
francesi, che arrivano nel Veneto attraverso i cuochi stranieri stipendiati
da molte ricche famiglie. L'elenco dei cibi presenti nella cucina vicentina
del Settecento sarebbe lungo e noioso. Ricordiamo solo lo zucchero, elemento
primario nei dolci veneti dell'epoca, in sostituzione del miele di antica
data; l'olio di oliva e il burro, al posto dello strutto, del lardo e del
grasso di oca, per ottenere, come scrive l'Acanti, <<cibi sempre
piu' raffinati nel gusto e nel bell'aspetto, ai nostri superbi vini, adatti>>.
Il Settecento è anche il secolo del rinnovamento dell'arredo da
tavola. La tradizione veneziana si arricchisce di nuovi modelli di argenteria
e di rami battuti; di broccati e tovagliati magistralmente ricamati da
pazienti mani di artisti; di posate con l'immagine del SanMarco; di candelabri
di evidente ispirazione inglese; di attrezzi da cucina e di caffettiere.
Splendide nella loro preziosa semplicità, le ceramiche, vanto delle
manifatture di Venezia, Treviso, ma soprattutto di Bassano, Angarano, Este,
Vicenza, che erano spesso opera di ceramisti celebri, quali il Caffo, i
Terchi, Manardi, Antonibon, Dalla Valle, ed altri. Sembra che le ceramiche
settecentesche fossero al novanta per cento, <<contenitrici di gastronomia>>,
secondo una definizione del marchese Vicentini del Giglio, che operava
con la sua grande manifattura di stoviglie, già dal 1788, in Borgo
S.Croce, a Vicenza. Purtroppo queste ceramiche, a volte vere opere d'arte,
sono state per la maggior parte disperse o sono andate distrutte a causa
della loro fragilità. Per fortuna se ne conserva ancora qualche
pezzo nei musei e nelle collezioni private. Per avere, però, un'idea
della ricchezza degli arredi delle tavole settecentesche basta osservare
attentamente la pittura veneta che racconta, attraverso i pennelli degli
artisti, la vera storia delle abitudini della nobiltà in villa.
E le "cene" ne sono un soggetto frequentissimo, con tutti i particolari
delle grandi tovaglie, delle ceramiche, dei vetri, dei peltri, argenti,
caffettiere, cioccolatiere e soprammobili.
<Immagine><Immagine: alexbn.gif (3110 byte)>Biblioteca Universitaria
AlessandrinaCataloghi
Voci di Roma
SCHEDE
2) Agli amanti di mangiar frittelle Agli amanti di mangiar frittelle.
Quà gni male se guarisce tutto. / Speciarmente chi tiè ntaccato
er petto / Bona pasta, bon ojo e [m]ejo strutto, / Ve lo dice er seguente
[m]io sonetto, / SONETTO / Bigna vení, si, bigna vení da
mè, / ... [Roma, 1868?] Foglio volante; 58.5x42 cm. Fac. Lett. Misc.
B.200; inv. 4392 Sul verso, manoscritto a matita da G. Zanazzo: Sonetto
avuto da un Friggitore / di Trastevere l'anno 1868 / Zanazzo.
40) Berneri Giuseppe Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. A cura di Bartolomeo Rossetti Roma, Avanzini e Torraca editori, 1966. 438 p.; 17 cm "I Classici per tutti. Collana diretta da Bruno Cagli, 21". p. 5-49: introduzione critica con la bibliografia dell'A. Coll. 3418/21; inv. 636890 Raccolta Carducci
4
64) Carnacina Luigi A magnà e... / a grattà tutto sta
/ a incomincià. Cucina romana in versi su ricette di Luigi Carnacina.
Presentato da Luigi Carnacina e Giorgio Roberti. A cura del Centro Romanesco
Trilussa [Torino?], Grafiche Alfa Editrice, 1976. 207 p.: ill., ritr. fot.;
23 cm. p. 7-14: Introduzione, di Luigi Carnacina (Er Cochetto de Piazza
Bologna); p. 15-22: Quattro chiacchiere... in cucina, di Giorgio Roberti,
presidente del Centro Romanesco Trilussa; p. 31201: ricette in versi di
Roberto Ortenzi, Giulio Delle Fratte, Armando Ceretti, Mario Berenato,
Romeo Collalti, Elio Spasiano, Elio Banal, Nino Capriccioli, Giacomo "Palmiro"
Bompadre, Alfredo Bargagli, Aldo Dolfini, Clara Raimondi, Augusto Bellini,
Tommaso Casieri, Adele De Nicola, Umberto Del Grande, Giorgio Roberti,
Giuliano Malizia, Pino Carciotto, Ugo Antonini, Jole Petrini, Pippo Di
Spes, Alfredo Bargagli, Mirella Miliacca, Umberto Borzelli ("Spianuzza"),
Luciano Luciani, Renato Merlino, Renato Ranaldi, Carlo Bardella, Giuseppe
Gioacchino Belli, Filippo Chiappini, Augusto Marini, Adolfo Giaquinto,
Augusto Jandolo, Francesco Possenti, Renato Savelli, Luigi Carnacina; sul
risvolto ant. della cop.: nota biogr.; ill. di Debey, Pino Grammatico ("Pigra")
e di Gigi Huetter. Collezione privata
98) Crociani Alfredo Teatro romanesco. La ballata der vino. Qui Trastevere. ...e una "zumata" di versi vari dell'autore composti sulla via della "pennichella"... [Roma], Il Campidoglio Editrice, 1973. 145 p.: ill., musica; 21 cm. "Contemporanei viventi: Collana diretta da Vincenzo Morra. Teatro". p. 115-136: Zumata di versi vari; in appendice: antologia critica. Coll. 5256/4; inv. 698107 Raccolta Carducci
172) Fabrizi Aldo Nonno Pane. Ricette e considerazioni in versi. Con 16 tavole a colori di Mauro Pucciarelli e 20 disegni di Gianni Isidori Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1980. 178 p.: ill., ritr. fot.; 23.5 cm "Libri Illustrati Mondadori". Sui risvolti della sovraccop.: nota biogr. Raccolta Carducci
173) Fabrizi Aldo La pastasciutta. Ricette nuove e considerazioni in versi. Con 16 tavole a colori di Enrico Ferorelli e 20 disegni di Ferruccio Bocca [Milano], Arnoldo Mondadori Editore, 1971. 174 p.: ill., ritr. fot.; 24 cm. 4. ed. (1. ed., settembre 1970); sui risvolti della sovraccop.: nota biogr. Raccolta Carducci
192) Fofi Gaetano Pane ar pane vino ar vino Roma, Tipografia Editrice "Italia", 1966. 109 p.: ritr.; 21 cm. p. 5-6: Presentazione, della moglie Iole Dari; p. 7-11: nota biogr. e antologia critica. 362.c.3; inv. 660758 Raccolta Carducci
Le ricette: Il Rinascimento a tavola
A cura del Dott. Alessandro Giacomello
Il piacere per la buona tavola accompagna da sempre le umane vicende.
Attraversando i fasti delle nobili corti o gli umili focolari domestici,
fra ostentazione e miseria, la cucina del passato parla di noi e della
nostra storia. E' a quelle antiche tradizioni, evolutesi nei secoli, che
dobbiamo il successo delle pentole in rame Nico Marin. Ma anche se abbiamo
recuperato i preziosi strumenti di quella cucina, i sapori che la caratterizzano,
risultano spesso sconosciuti.
Dal Medioevo e dal Rinascimento giungono a noi elementi di una gastronomia
spesso inaspettata, sia per la varietà delle sue componenti che
per l'audacia degli accostamenti.
Con questa collezione di 27 ricette medioevali e rinascimentali, articolata
in 9 gruppi di 3 ricette ciascuno, ognuno abbinato ad un modello delle
pentole Nico Marin, vogliamo proporvi uno spaccato di questo mondo antico
che tante sorprese saprà riservarvi. Ad ogni ricetta, riportata
come appare nei testi originari dei quattro autoti, segue un elenco degli
ingredienti, una traduzione che ne faciliti la lettura e alcune note storiche
accompagnate da varie curiosità. Per chi, inoltre, desiderasse approfondire
l'argomento, riportiamo una bibliografia essenziale. Sarà interessante
tentare la realizzazione di queste ricette, tenendo però ben presente
che possono esservi difficoltà non solo nei dosaggi e nel reperimento
di alcuni ingredienti (es. agresto), ma anche nell'eseguire procedimenti
che oggi sono desueti (per cui consigliamo, anche se antistorico, l'utilizzo
dei nostri cari elettrodomestici).
Inoltre, è bene dirlo, dovrà essere il nostro amore per
la gastronomia, a farci soffermare su abbinamenti e sapori imprevedibili,
ma in grado di conquistare i nostri palati affamati di cultura.
Nico Marin snc - corso Roma, 90 - 33097 Spilimbergo (PN) Italia - tel. & fax +39.427.50550
ANONIMO MERIDIONALE - Libro A
Limonia
Affare limonia suffrigi li pulli con lardo e con cepe. Tria le amandole
che siano mondate et sì le distempera con lardo de carne de porco,
et sì le coci colli dicti pulli et con spetie, et se tu non ay amandole,
spessa lu dicto brodo con ruscio de ova, et quando serrà presso
ora de menestrare, mitice suco de lumuni o de citraculi. petti di pollo
lardo
cipolle
mandorle
(eventualmente rossi d'uovo sodi)
spezie
succo di limone Per fare limonia soffriggi il pollo in lardo e cipolle.
Trita le mandorle, che siano già pelate, e poi stempera con lardo
di maiale, e poi mettile a cucinare assieme al pollo con spezie; e se non
hai mandorle ispessisci il detto brodo con rossi d'uovo, e quando sarà
ora di servire mettici succo di limoni o di limoni amari.
CENNI STORICI
Tutti i trattati italiani medievali e rinascimentali presentano diverse ricette chiamate limonia, lumonia, lomonia o limonea, più o meno semplici oppure con l'aggiunta di molti altri ingredienti. Composizioni chiamate laymuwiya compaiono in testi arabi almeno dal XIII secolo e anch'esse possono essere molto semplici o complesse (con bietola, riso, yogurt, prezzemolo, melanzane, porro, carote, coriandolo, zenzero, menta), ma tutte in generale prevedono la carne di pollo, le mandorle e, naturalmente, il succo di limone. La salsa, dal gusto acido o agrodolce se dolcificata con miele o zucchero, veniva servita per accompagnare sia carne che pesce, come è attestato, tra tanti esempi possibili, dal pranzo tenutosi a Milano nel 1368 in occasione del matrimonio di Violante Visconti e Lionetto d'Anversa, duca di Clarence: al settimo servizio furono portati "caponi & carne in limonia, con pesce in limonia".
CRISTOFORO MESSISBUGO
A fare frittelle con fiore di sambuco per piatti sei
Piglia di farina oncie 4, povine fresche tre o di formaggio fresco libbra
una, e di formaggio duro libbra mezza grattato, di formaggio salato oncie
tre, e tanto levaturo quanto è mezzo uovo; e pista bene ogni cosa
nel mortaio. E ponigliuova sei battute seco, e uno bicchiero di latte,
e oncie 3 d'acqua rosa; e mescola bene ogni cosa insieme. E se ti paresse
che il detto pastume fosse troppo duro, gli aggiungerai un poco di latte,
tanto che stia bene, e oncie 3 d'uva passa; e per tempo d'estate gli porrai
una oncia di fiore di sambuco a pistare secco. E poi con una gucchiara
farai le tue frittelle, grandi e piccole, secondo che ti parerà.
Poi le cuocerai in grasso colato o butiro, o dileguito libbre 3. E come
saranno cotte, e per imbandirsi, gli ponerai sopra di zucchero grattato
oncie quattro. farina ricotta (formaggio fresco) formaggio da grattugiare
formaggio salato lievito uova latte acqua rosa uva passa fiori di sambuco
unto (burro, strutto)
zucchero Prendi quattro once di farina, tre ricotte di giornata oppure
una libbra di formaggio fresco, una libbra e mezza di formaggio grattugiato,
tre once di formaggio salato, la quantità corrispondente a mezzo
uovo di lievito e pesta ogni cosa nel mortaio. Aggiungi al composto sei
uova sbattute, un bicchiere di latte, tre once d'acqua rosa e fai amalgamare
bene. Se il composto dovesse risultare troppo denso, allungalo con una
quantità adeguata di latte e tre once d'uva passa. Nel periodo estivo
pesterai assieme aglialtri ingredienti anche un'oncia di fiori di sambuco.
Poi con un cucchiaio farai le frittelle grandi o piccole, a tuo piacimento.
Le friggerai nell'unto, o nel burro, o in tre libbre di strutto. Quando
saranno pronte da servire le spolverizzerai con tre once di zucchero in
polvere. CENNI STORICI La parola 'frittella', come il verbo 'friggere',
ha un'origine etimologica onomatopeica: deriva il suo nome dal "rumore",
dallo sfrigolio dell'unto nella padella. Era una pietanza, e un metodo
di cottura, allora come oggi, molto comune e non è difficile reperire
anche nei testi letterari la loro menzione; Teofilo Folengo, ad esempio,
nomina le "frittolae" e le "fritellae", oppure il Burichiello le "fritelle
erbate". Anche i libri di cucina contengono quindi molte ricette per fare
frittelle, spesso raggruppate in un capitolo apposito (Martino Rossi, Plaina,
ecc.). Le frittelle potevano essere dolci o salate, con carne o pesce,
con frutta o legumi, ma anche senza nulla dentro, come le famose "frittelle
piene di vento" di Maestro Martino, "che si gonfieranno le frittelle che
pareranno piene e saranno vote", una ricetta di tanto effetto da essere
riproposta anche da Cristoforo Messisbugo.
MARTINO ROSSI Herbolata de maio Piglia altretanto cascio frescho como
è dito di sopra et pistalo molto bene, et habi quindici o sidici
bianchi d'ova con un quarto vel circha di bon lacte; et pigliarai de le
vietole in bona quantità, cioè per la maiore parte, et de
la maiorana pocha, salvia assai, menta pocha, petrosillo assai. Et tutte
queste herbe pistarai insieme molto bene premendone fora il sucho, et passandolo
per la stamegna. Il qual sucho mettirai insieme con le cose sopra ditte
mettendo con esse meza libra di bono strutto, overo butiro frescho; et
prendirai poche foglie di petrosillo, et pochissime foglie de maiorana,
et con un coltello le tagliarai et le battirai più menute che sia
possibile, et macinarale molto bene nel mortale incorporandole con le sopra
ditte cose, agiongendovi meza oncia di zenzevero biancho, et otto oncie
di zuccharo. Et fa' che tutta questa composizione sia ben mescolata in
uno vaso, il quale metterai sopra le brascie lontano da la fiamma del focho,
menando continuamente col cocchiaro, o altro intrumento atto a questo,
tanto che ti para che se incomenci a pigliare a modo d'un brodetto. Et
facto questo haverai apparecchiata in la padella una pasta sottile, et
mettirali dentro queste cose sopra ditte, cioè pieno, daendoli il
focho temperatamente ad ascio di sotto et di sopra. Et quando ti pare che
sia presa abastanza, cavala fore, et metteli di sopra del zuccharo fino
et dell'acqua rosata. Et simile torta o herbolata che vogliamo dire, quanto
è più verde, tanto è migliore, et mostra più
bella. formaggio fresco albumi latte bietola maggiorana salvia menta prezzemolo
strutto (burro) zenzero zucchero pasta sfoglia o frolla acqua rosata Prendi
tanto formaggio fresco quanto è indicato nella ricetta precedente
[una libbra e mezza per la "Torta bianca"] e sminuzzalo molto bene e prepara
quindici o sedici albumi e all'incirca un quarto di latte; prendi un buon
quantitativo di bietole, che deve superare la quantità delle altre
erbe, cioè abbastanza salvia e prezzemolo, e poca menta e maggiorana.
Pesta tutte queste erbe facendone fuoriuscire il succo e passalo al setaccio.
Aggiungi il succo agli ingredienti precedenti assieme a mezza libbra di
strutto, oppure di burro; prendi ancora qualche foglia di prezzemolo e
pochissima maggiorana, tritali con il coltello e fai un battuto finissimo
pestato nel mortaio da incorporare poi agli altri ingredienti, aggiungendo
mezza oncia di zenzero e otto di zucchero. Mescola bene il composto in
un recipiente che metterai al fuoco lontano dalla fiamma, mescolando continuamente
con un cucchiaio o un altro utensile adeguato, fino a quando incomincia
a rapprendersi divenendo denso come un brodetto. Concluse queste operazioni
fodera una padella con della pasta sottile e riempila con il composto,
scaldandola lentamente sia sotto che sopra. Quando ti sembra che si sia
rappresa sufficientemente, toglila dal fuoco e aggiungi di sopra zucchero
e acqua rosata. Questa torta che si chiama erbolata, è tanto più
buona e si presenta in modo migliore quanto è più di colore
verde.
CENNI STORICI: L'erbolata era una ricetta molto comune, legata ai mesi
primaverili e qui collegata specificatamente al mese di maggio. Poteva
essere preparata con diversi tipi di erbe e compare in molti ricettari.
Nel Libro de la cocina del XIV secolo è così descritta: "Di
tutti i fiori e altre più erbe, quali che tu vuoli, puoi fare erbolato
con cascio [formaggio] e ova e spezie, e desi [si deve] cocere nel forno
o tra testi [disci di terracotta o altro materiale]: la crosta si chiama
erbata". Si tratta quindi di una torta, una pietanza molto apprezzata che
poteva essere dolce o salata. Purtroppo non è ancora ben chiaro
l'ordine e la successione delle portate nei pranzi medievali e rinascimentali,
soprattutto per quanto riguarda l'Italia, dove si possono riscontrare varie
possibilità: se nel pranzo romano del 1513 in onore di Giuliano
e Lorenzo de' Medici le torte vengono servite durante tutto il pasto e
all'interno di moltiservizi (una torta verde, quindi probabilmente un'erbolata,
viene proposta al dodicesimo servizio), di solito le torte venivano presentate
dopo gli arrosti.
Bibliografia essenziale Cristoforo da Messisbugo, Banchetti, composizioni
di vivande e apparecchio generale a cura di Fernando Bandini, Venezia,
Neri Pozza Editore, 1960.>Claudio Benporat, Storia della gastronomia italiana
Milano, Gruppo Ugo Mursia Editore, 1990.Aldo Bertoluzza, Libro di cucina
del maestro Martino de Rossi Trento, Edizioni U.C.T., 1993.Anonimo Meridionale,
Due libri di cucina a cura di Ingemar Boström, Stockholm, Almqvist
& Wiksell International, 1985 (Acta Universitatis Stockholmiensis,
Romanica Stockholmiensia, 11).Emilio Faccioli, Arte della cucina. Libri
di ricette, testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal XIV al XIX
secolo Milano, Edizioni Il Polifilo, 1966, 2 voll.<Immagine>Jean-Louis
Flandrin-Odile Redon, Les livres de cuisine italiens des XIV et XV siècles
in "Archeologia medievale", VIII(1981), pp.393-408.<Immagine>Frammento
di un libro di cucina del sec.XIV a cura di Olindo Guerrini, per "Nozze
Carducci-Gnaccarini", Bologna, Zanichelli, 1887.<Immagine>Bruno Laurioux,
Entre savoir et pratiques: le livre de cuisine à la fin du Moyen
Age in "Medievales", 1988, n 14, pp.59-71.<Immagine>LVII ricette d'un
libro di cucina del buon secolo della lingua a cura di Salomone Morpurgo,
per "Nozze Franchetti-Henriquez", Bologna, Zanichelli, 1890.<Immagine>Bartolomeo
Platina, Il piacere onesto e la buona salute a cura di Emilio Faccioli,
Torino, Einaudi, 1985 (NUE, 189).<Immagine>Il libro della cucina del
sec. XIV. Testo di lingua non mai fin qui stampato a cura di Francesco
Zambrini, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1863.<Immagine>Maria Catricalà,
La lingua dei "Banchetti" di Cristoforo Messi Sbugo in "Studi di lessicografia
italiana", IV(1982), pp.147-268.<Immagine>Luigi Messedaglia, Aspetti
della realtà storica in Merlin Cocai in "Atti dell'Istituto Veneto
di Scienze, Lettere ed Arti", XCVIII(1938-1939), parte II, pp. 33-263.<Immagine>Bartolomeo
Scappi, Opera Venezia, Michele Tramezzino, [1570].<Immagine>Odile Redon-Françoise
Sabban-Silvano Serventi, A tavola nel Medioevo con 150 ricette dalla Francia
e dall'Italia Bari, Laterza, 1995.<Immagine>Michele Savonarola, Libreto
de tutte le cosse che se magnano. Un'opera di dietetica del sec. XV a cura
di Jane Nystedt, Stockholm 1988.<Immagine>Ludovico Frati, Libro di cucina
del secolo XIV Livorno 1899.<Immagine>Bruno Laurioux, Le 'Registre de
cuisine' de Jean de Bockenheim, cuisinier du pape Martin V in "Mélanges
de l'E'cole Française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes", Tome 100,
1988, II, pp. 709-760.<Immagine>"& coquatur ponendo". Cultura della
cucina e della tavola in Europa tra medioevo ed età moderna Prato,
Istituto Internazionale di Studi Economici "Francesco Datini", 1996.<Immagine>Giovanni
Rebora, La cucina medievale italiana tra Oriente e Occidente in "Miscellanea
storica ligure", XIX(1987), nn.1-2, pp. 1431-1579.<Immagine>Costanzo
Felici, Scritti naturalistici, I, Del'insalata e piante che in qualunque
modo vengono per cibo del'homo a cura di Guido Arbizzoni, Urbino, Quattroventi
Edizioni, 1986.
ANONIMO MERIDIONALE Un manoscritto contenente due diversi ricettari,
oggi conservato alla collezione B.IN.G. di Sorengo, è comunemente
noto con il nome di Anonimo meridionale, conferitogli da Ingemar Boström
che lo ha edito, per i suoi evidenti meridionalismi (in particolare napoletani)
nella lingua. Redatto alla fine del XIV secolo o all'inizio del XV, il
manoscritto è diviso in due libri frammentari alquanto diversi tra
loro. Il Libro A contiene 164 ricette alcune delle quali scritte in latino
e fa parte, anche se molte ricette sono state soppresse e altre aggiornate
e trasformate, di un folto gruppo di ricettari che testimoniano il grande
successo che questa tradizione ebbe in Italia nel tardo medioevo. La tradizione
viene denominata dei "12 Ghiotti" perchè viene fatta risalire alla
"Brigata spendereccia" di Siena, composta da dodici ricchi aristocratici
ricordati anche da alcuni commentatori di Dante. Il Libro A e il gruppo
di testi che formano la tradizione dei "12 Ghiotti" (i frammenti editi
da Morpurgo e Guerrini, i "quaderni" di Nizza editi da Rebora, il Libro
per cuoco edito da Frati ecc.) sono caratterizzati dalla presenza di ricette
dosate appunto per dodici commensali ma nessuno di essi, anche se continueranno
ad essere successivamente ricopiati in alcuni manoscritti, avrà
più successo dalla fine del XV secolo e non verranno mai stampati:
la tipografia in Italia utilizzerà un nuovo testo, quello di Martino
Rossi. Il Libro B invece, contenente 65 ricette, risale in parte a una
tradizione diversa: soprattutto le ultime nove ricette, con precise indicazioni
delle dosi, non hanno riscontro in altri ricettari e emanano un forte richiamo
del mondo arabo.
JOHANNES BOCKENHEIM Tedesco, chierico, grazie alla sua attività
di cuoco del personale della curia papale a Roma al tempo di Martino V,
Johannes de Buckenheim (dal nome del piccolo borgo di nascita vicino a
Worms) fece una discreta carriera ecclesiastica ottenendo numerosi benefici
nelle diocesi di Worms e di Mayence. Del suo Registrum coquine, composto
tra il 1431 e il 1435, sono noti due manoscritti, conservati alla Biblioteca
nazionale di Parigi e in collezione privata a Londra. Il trattato, scritto
in latino e contenente 74 ricette, fornisce indicazioni abbastanza sommarie
sulla realizzazione dei piatti e doveva quindi essere un libro personale,
per proprio uso. La tradizione culinaria che se ne ricava è relativamente
arcaica, ancora caratterizzata dallo scarso uso di zucchero ad esempio,
che proprio in quel secolo si stava diffondendo. La sua originalità
è tuttavia data dalla costante indicazione della destinazione dei
piatti, certo comprensibile in una tavola internazionale com'era sicuramente
la mensa della curia papale. Le ricette terminano infatti sempre con un
consiglio: et erit bonum pro (ottimo per) tedeschi, italiani, svedesi...;
ma anche per categorie sociali: baroni, nobili, re, poveri, prostitute.
MARTINO ROSSI Conosciuto fino a pochi anni fa come Maestro Martino,
cuoco del camerlengo e patriarca d'Aquileia Ludovico Trevisan a Roma, perchè
così si definisce in due dei quattro manoscritti noti del suo Libro
de arte coquinaria, oppure noto come Martino da Como, perchè così
qualificato da Platina nel De honesta voluptate et valetudine, è
possibile oggi dargli un nome preciso grazie a un manoscritto del suo trattato,
conservato a Riva del Garda, dove è chiamato Martino de Rubeis,
e tracciare con più precisione la sua vita. Nato in località
Torre della valle di Blenio, oggi nel Canton Ticino, nel secondo o terzo
decennio del '400, ottiene nel 1442 la rettoria di un ospizio situato nelle
vicinanze. Nel 1457 è a Milano, cuoco di Francesco Sforza. In seguito
è a Roma al servizio del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan
e a Milano presso Gian Giacomo Trivulzio. Il testo di Martino Rossi è
di grande importanza per la cucina europea, non solo per la precisione
e la razionalizzazione delle ricette presentate, ma soprattutto per la
vasta diffusione che la sua opera ha avuto, inserita da Platina nel suo
trattato edito in latino nel 1475 e quindi pubblicata in italiano, francese,
inglese fino al '700, anche in brevi libretti con il titolo di Epulario
e sotto il nome di Giovanni Rosselli.
CRISTOFORO MESSISBUGO A differenza di Martino Rossi e di buona parte
degli autori di ricettari culinari medievali e rinascimentali, Cristoforo
Messisbugo, attivo come scalco e provveditore ducale alla corte Estense
di Ferrara dai primi decenni del '500, sposato con la nobile ferrarese
Agnese di Giovanni Gioccoli e morto nel 1548, non era un cuoco professionista
ma l'economo dispensiere che controllava anche finanziariamente l'attività
della corte. Il suo trattato intitolato Banchetti, composizioni di vivande
e apparecchio generale, pubblicato postumo un anno dopo la sua morte, è
infatti diverso dai precedenti: la prima delle tre parti è un elenco
delle cose necessarie all'organizzazione dei banchetti, dai vari alimenti
alle pentole e attrezzi; nella seconda parte compare per la prima volta
(se si esclude un manoscritto inedito napoletano conservato a New York)
la descrizione delle portate di undici cene, tre desinari e una festa organizzati
a corte tra il 1529 e il 1548; nell'ultima parte infine vi sono 323 ricette
raggruppate in sei paragrafi (paste, torte, minestre, salse, brodi, latticini),
suddivisione che avrà largo seguito in Italia e verrà adottata
ad esempio da Romoli (1560), Scappi (1570) e Stefani (1662).
Gli Eraclide di Siracusa: l'arte culinariaPer vie traverse, grazie al
libro polemico che Polemone redasse per confutare l'opera storica di Timeo,
veniamo a conoscenza di un famoso cuoco siciliano: "Polemone dice, nella
sua Replica a Timeo, che egli (Maìsona) venne dalla siciliana Megara,
e non da quella di Nisea". (Ateneo, 659; c).Abbiamo pure in Ateneo un riconoscimento
generico agli uomini di cucina siciliani, ad indicare che i lavori di Archestrato
sono il frutto di una arte culinaria ben diffusa, ed apprezzata in Grecia
e Sicilia."Ed Antifane dice similmente, in lode dei cuochi siciliani, in
Difficile da vendere (Dhispràto): 'Dolci per un banchetto, insaporiti
dalle arti siciliane'". (661; f).Gli Eraclide di SiracusaNon è solo
Archestrato ad essersi dedicato all'arte culinaria in quel tempo, due autori
omonimi sono ricordati, gli Eraclide, entrambi di Siracusa; ne parla ancora
Ateneo (58, b), e possiamo supporli vissuti nel IV secolo:"Epeneto ed Eraclide
di Siracusa in 'Arte culinaria' affermano che le uova di pavone eccellono
sulle altre; seguono per qualità quelle d'oca; essi valutano le
uova di gallina terze"."La 'chalkidos' oltre ciò è diversa
dalla chalkeus (aringa; n.d.A.), ricordata da Eraclide (Erakleidos) nella
sua Arte culinaria e da Eutidemo nel suo libro Sulle carni salate". (328;
d).
Ed ancora una citazione dell'egiziano, relativo al significato della
parola Mylloi:"Eracleide Erakleidos) di Siracusa nella sua opera Sulle
istituzioni ( perì Thesmon), dice che in Siracusa per il Giorno
della Consumazione (Pasteleìos Thesmophorìon) in occasione
delle Thesmophoria venivavo impastati dolci di sesamo e miele, con forma
di vulva, e denominati in tutta la Sicilia mylloi, e mostrati in onore
delle dee (Demetra e Persefone; n.d.A.). (647; a).Segnaliamo per concludere
l'autore del lavoro L'oste, indicato da Ateneo col nome di Erakleitos (Libro
X; 414, d). E l'autore di un testo sulla cucina siciliana: Mithaecus. Ateneo
dice:"Codesto Thearion è il panettiere menzionato da Platone nel
Gorgia, che concorda con Mithaecus in tal modo: 'Quando ti domandai quali
uomini hanno fatto, o fanno, del buono per mantenere sano il corpo umano,
tu mi rispondesti con estrema serietà: Thearion il panettiere, Mithaecus
che scrisse il trattato sulla cucina siciliana, e Sarambus il mercante
di vini. Ciò perché essi stessi hanno dato prova di aver
cura del corpo sfornando, il primo, del pane meraviglioso; il secondo per
la deliziosa carne ed il terzo con l'aver fornito vino'". (112; e)."Esiste
anche un gioco denominato 'dentro la coppa', nel quale i giovani sconfitti
tendono le loro mani per ricevere le ginocchia dei ragazzi vittoriosi,
e (sollevandoli; n.d.A.) li portano intorno". Diodoro, similmente, in Glosse
Italiche, ed Heracleitus (o Heracleides; n.d.A.), concordando con Pamphilus,
riferisce che il kotylé è denominato pure hemina; Diodoro
cita i versi di Epicarmo: 'E per bere doppiamente più tiepida acqua,
due heminai (adopera; n.d.A.)'. E pur Sofrone ripete: 'Getta via l'hemina,
figliolo, e cin-cin!'. (479; a).EvemeroValle dei Templi (Agrigento)>Non
è con certezza nativo della Sicilia, ma ciò è da attribuire
alla sua vocazione per i grandi viaggi esplorativi, che lo videro a lungo
lontano dall'isola. Ma più fonti lo danno nativo di Messina (Stephanus
Byzantius, Aelian. var. hist. II, 31)) o di Agrigento (Clemente Alessandrino,
protr. 2, 24). Riportiamo la seconda fonte:"Mi viene da meravigliarmi come
mai abbiano chiamato atei Evemero di Agrigento, Nicanore di Cipro, Ippone,
Diagora di Melo oltre al filosofo di Cirene di nome Teodoro; costoro con
altri vissero saggiamente e videro con più acume degli altri l'errore
a proposito di dei".Il popolo dei Messeni occupò in Sicilia Messena
(già Zancle, infine Messina) nel V secolo a.C. ed il messene, se
di tale colonia era, Evemero vi visse probabilmente dal 340 al 260 a.C.
(poi nel 288 la città venne occupata dai Mamertini, prima di divenire
città romana).Evemero fu amico di Cassandro, re di Macedonia nel
306, e per conto del quale il poeta fece diversi viaggi, tra i quali uno
attraverso l'Oceano Indiano; nell'isola di Panchea egli trova e descrive
un sistema sociale basato sulla coesistenza di tre classi: sacerdoti ed
artigiani, coltivatori, soldati: ciò egli riporta nella Sacra scriptio
(Registro sacro). Dell'opera abbiamo testimonianza dello storico Diodoro,
che ne ha riportato dei frammenti, e alcune parti nella traduzione in latino
da Ennio, lavoro a sua volta pervenutoci grazie a Lattanzio: la versione
originale consisteva di circa tre libri, i framenti che ci sono giunti
sono 26.Il viaggio di Evemero inizia dall'Arabia e, dopo molti giorni di
mare, fa capo all'isola di Panchaia. Lì incontra la mite gente adoratrice
di Zeus Trifilio, che al dio aveva eretto un tempio su di un altissimo
monte. Anzi, per la locale mitologia era stato Zeus stesso a costruirselo.
Nel tempio vi era una stele d'oro, decorata con incisioni che illustravano
le gesta di Zeus e dei suoi discendenti: Urano, Crono, Zan.L'isola era
dotata di fertile suolo e di ricche miniere, ed era organizzata secondo
i principi di una comunità da regole dettate da Zan. Ma ciò
che attira è il voler mescolare di Evemero elementi mitologici,
riferimenti filosofici - Platone - tradizioni di diversi popoli, creando
un componimento dal tono romanzesco. Per egli gli dei hanno origine umana,
saliti a gloria divina per l'affetto dei loro cari, o, nel caso di re mortali,
divinizzati per la ricoscenza data loro dai sudditi; a ciò contribuì
l'aver egli visto nell'isola la stele antichissima dedicata a Zeus, dove
si narrava di gesta nobili compiuti da comuni uomini, per questo poi assurti
a deità. Tale visione dell'intero universo religioso greco ebbe
larga fortuna in Roma, venendo bene incontro alle pragmatiche, soddisfatte
voglie di conquista dei romani - tale concezione prese il nome di evemerismo
- e non contraddiceva quanto attuato in campo storiografico dai greci,
di impronta razionalistica nella considerazione dei miti eroici tutti,
da Ecateo in poi. E ciò come in Archestrato, quindi, le cui idee
amplificate e riorganizzate da Epicuro, furono amate dalla Roma patrizia.Evemero,
come Teognide, deve aver avvertito che cambiamenti sociali erano in atto;
vi era un affermarsi della borghesia sottraendo forza alla sempre meno
solida aristocrazia. E si ha meno fede nei valori trasmessi dai padri,
nei culti per le famiglie divine greche, e cresce la voglia di ritrovarsi
in una società diversa, fondata su nuove regole che diano maggiori
garanzie a chi si vede in politica ascesa. "Superno, figlio di Leto, voluto
da Zeus, giammai ti dimenticherò" decanta commosso Teognide, reagendo
al cambiamento. E chi invece si bea delle nuove prospettive addirittura
viaggia lontano, sognando, trovando conferme ai propri nuovi bisogni. Tale
"panta rei" dell'animo umano ha varii ricorsi nelle epoche che ci hanno
trasportato il nostro oggi. Ciò basta a distaccarci dalle furiose
lotte di ogni presente, il nostro non è migliore o peggiore d'altri,
per suggerirci che i valori cui mirare sono perenni e quasi mai evidenziati
dai contemporanei.
Archestrato di GelaFu poeta dalla tematica insolita, se possiamo giudicarlo
solo in base ad i suoi lavori che i secoli (in pochi frammenti) ci hanno
permesso di apprezzare: Hadypatheia (cioè Gastronomia o Piacevolezze,
Sul dolce gusto) ed altri.Archestrato fiorì, come usano solitamente
dire le fonti varie classiche per indicare non la data di nascita dell'uomo,
ma il suo sbocciare alla vita artistica nel pieno della sua produzione,
nel IV secolo a.C. ed il suo componimento pare sia stato scritto nel 330
a.C. (indirettamente ci si basa sulla data di enunciazione di alcune idee
Aristoteliche, presenti nell'opera, e risalenti al 335 a.C.). Ha composto
inoltre i Consigli, diretti ad amici, come Mosco o Cleano, e Gran Vita.I
molti viaggi sostenuti dal nostro, per lo meno vantati negli esametri del
poema, furono fatti al solo scopo di conoscere quante più "piacevolezze"
del palato era possibile, onde elencarle e vantarle. Ennio apprezzò
molto questo componimento, al punto da trarne ispirazione per i suoi Hedyphagetica.
In Ateneo abbiamo riportata una attestazione di Dafno di Efeso:"A tali
osservazioni Dafno l'Efesiano aggiunse quant'altro: 'Archestrato, che fece
un viaggio per il mondo per saziare sia stomaco che altri più bassi
appetiti, dice: 'Mangia, caro Mosco, una fetta di tonno Siciliano, al tempo
del taglio per essere salato e messo in giare. Però il pesce persico,
l'aroma del Ponto, io bene affiderei alle regioni basse, così come
fa chi lo loda. Poiché pochi sono tra i mortali coloro che lo ritengono
un misero boccone. Mantieni, comunque, uno scombro tre giorni fuori dall'acqua,
prima che inizia la salamoia, ancora fresco in giara e solo mezzo salato.
E se tu andrai nella splendida città di Bisanzio, mangia ancora
- ti prego - una fetta di horaion, perchhé esso è proprio
succulento'" (116 f, 117 a; Ateneo, I Deipnosofisti, op. cit.).Per Archestrato
tutto va considerato prima di ingoiare del cibo; se si parla di pesce -
ne è un patito - si specifica la specie, ed il tempo in cui va pescato
perché offra il meglio di sé - ad esempio "Al sorgere di
Sirio", (Ateneo; 327, d; op. cit.) al condimento, che va lesinato se si
dispone di polpa già gustosa; la cottura varia per modalità,
certo, ma occorre porre la massima concentrazione sul bene che subisce
l'assalto della fiamma, quasi che la volontà umana possa misteriosamente
dire la sua al cibo che si intenerisce.Pur conta come si mangia, velocissimamente
se si hanno certe portate.
"Ad Enos e nel Ponto compra la sogliola, che qualche mortale chiama
scava-sabbia. Fai bollire la sua testa senza condimenti, semplicemente
ponila in acqua mescolando frequentemente. Al suo fianco poni dei capperi
spezzettati, e se desideri proprio dell'altro aggiungi sopra del forte
aceto; fallo assorbire per bene, e poi mangia in fretta, senza paura di
soffocarti per troppo zelo. La rimanente parte, posteriore e altro, del
pesce andrebbe infornata". (326, f; 327, a; op. cit.).
"A Delo come in Eretria, forniti di porto, abitano presso il mare.
Lì compra solo la testa (del phagros; n.d.A.) e la coda affettata;
tutto il resto, amico mio, non farlo entrare neppure in casa". (327; d).
Ateneo è prodigo di elogi per il gelese, definendolo persino"polistor",
cioè di grande cultura (325; d).
"Poiché Archestrato, nel Gastronomia, descrive con tali parole
dove è possibile comprarlo: 'In Sicion, amico caro, tu puoi ottenere
la testa del grongo: polposa, grossa, vigorosa, assieme alle interiora.
Quindi falla bollire in acqua salata a lungo, poi devi aromatizzarla'.
Proseguendo tale nobile esplorazione egli descrive le regioni italiane,
per poi riprendere:'Tu puoi pescare un bel grongo (goggros), che è
così superiore agli altri pesci, così come il più
grasso tonno lo è del povero pesce corvo (ombrina; n.d.A.)'". (293;
f; 294; a) ."Ed il saggio Archestrato (dice): 'Quando andrai a Mileto,
prendi dal Gesone (un fiume, od una palude; n.d.A.) un cefalo, ed una spigola,
creatura degli dei. Poiché lì vivono come meglio non si potrebbe,
per la natura del luogo.Ce ne sono tanti altri più grassi nella
splendida Calidone, o nella salubre Ambracia come nel lago Bolbe; ma quelli
non hanno uguale fraganza di interiora, o una polpa così stuzzicante.
Quelli di Mileto, amico mio, sono eccellenti, meravigliosi. Una volta nettati
dalle squame, mettili in forno con fuoco tenue, e servili senza grasse
salamoie. Ma non permettere che Siracusani o Greci d'Italia ti stiano accanto
quando ti dedichi a questo piatto, poiché essi non sanno preparare
un buon pesce, preferendo sciuparlo errando appieno riversandogli formaggio,
e inzuppandolo d'aceto e salamoia a base di silfio. Per quanto riguarda
i tre volte maledetti pesci di scoglio, essi sono i migliori nel comprenderne
le doti, preparandone cene, con raffinata destrezza le varie specie con
grasse salse'". (311; a,b,c; op. cit.)Ed ancora riferisce Ateneo di Archestrato
(4, a) avanzando una critica al grande esperto, citando un frammento dell'opera
stronomia:
"Archestrato di Siracusa - od era egli di Gela? - in un lavoro che
Crisippo chiama Gastronomia (che però la quale Linceo e Callimaco
titolano L'arte della dolce vita, e Clearco L'arte del mangiare, ed altri:
L'arte della prelibata cucina) ed è un poema in verso epico che
inizia così:'Lezioni d'apprendere io offro all'intiera Ellade'-
e continua -'concedete di servire pranzo su di una tavola sfiziosamente
apparecchiata. Lì dovrebbero sedersi in tre o quattro al massimo,
o a limite non più di cinque. Altrimenti noi dovremmo ora avere
un padiglione di predoni, ladri del vitto'. Egli non sa che alla mensa
di Platone vi erano dagli otto ai venti commensali"."Ed il nobile Archestrato
afferma: 'Compra un cefalo nella Egina cinta dal mare, ed avrai la compagnia
d'affascinanti uomini'". (307; d;).
"Piuttosto, comprami la testa di un 'glaukos' ad Olinto o a Megara;
poiché viene pescato nelle lagune della magnifica terra". (295;
c; op. cit.).Ma tali digressioni, norme di etichetta, da rispettare quando
si ha la coscienza di vivere in una civiltà così evoluta
da abbisognare che l'alimentazione segua dei riti d'eleganza, vanno intese
non come capricci degli uomini di corte, ma diffuse anche al ceto benestante
dell'isola; leggiamo ancora in Ateneo (4; b, c) che a detta di Clearco
"Carmus il Siracusano aveva versi e proverbi sempre pronti per ogni piatto
servito nei suoi banchetti".Ed ancora: " (...) c'era Tellia di Agrigento,
un gentiluomo ospitale, che dava il benvenuto a tutti coloro che giungevano,
ed il giorno che cinquecento cavalieri di Gela si fermarono da lui durante
la stagione invernale, egli diede ad ognuno una tunica ed un mantello"."Nel
tempo in cui Orione si trova nei cieli, e la madre dei raccoglitori di
vino inizia a disperdere le proprie trecce, allora abbi un sarago infornato,
cosparso di abbondante, caldo, formaggio, e sferzato da mordace aceto,
poiché tale pesce ha polpa coriacea. Ricordati perciò di
condire in tale modo ogni pesce duro. Ma il pesce naturalmente tenero,
di ricca polpa, aggiustalo solo di sale e olio, poiché esso ha solo
in sé stesso ogni gioia". (321; c).Ma quanto è grande invece
la personalità di questo gran goloso?"E così, amici miei,
quando si tengono in conto questi fatti, egli dovrebbe a buon motivo approvare
l'atteggiamento del nobile Crisippo, per la sua acuta assimilazione dell'opera
'Natura' di Epicuro, ed il suo evidenziare che il cuore della filosofia
epicurea è la Gastronomia di Archestrato, nobile poeta epico che
a tutti i filosofi diede familiare nutrimento, che rivendica come Teognide
il merito suo" (104, b).Questo è un frammento che in estrema sintesi
rivela quanto alto merito gli studiosi del tempo scrutavano nell'opera
del gelese - che qui riponiamo in risalto dopo troppo tempo - ponendolo
come creatore di un nuovo pensiero, poi detto epicureano dopo la sua divulgazione,
che, ricordiamo, splendette ammirato nella ricca ed affermata Roma imperiale.
E si ha una ripresa di esso nel VII libro dei Deipnosofisti (278; f):"Crisippo,
a tutti gli effetti un vero filosofo, dice che Archestrato fu il precursore
di Epicuro e di coloro che adottarono le sue dottrine sul piacere, causa
di ogni corruzione".Conferma fortemente quanto detto anche il fatto che
Antifane scrisse un' opera che prese nome dal gelese:Archestrata, o Archistrata
(Ateneo; 322, c). Ma leggiamo altresì in Diogene Laerzio:"Teodoro
eliminò radicalmente le comuni credenze negli dei e ci è
occorso di leggere un suo libro Degli Dei punto spregevole. Secondo alcuni
anzi questo libro fu la fonte preminente di Epicuro". (Vite dei filosofi;
II, 97; a cura di M. Gigante; Laterza, 1976).Vale qui sottolineare, seguendo
il bel parere del professor Burton che fu della Harvard University, che"persino
gli Ateniesi, conosciuti per i loro semplici costumi di vita, adottarono
una cucina più raffinata dopo il benessere succeduto al periodo
delle guerre Persiane. Specialmente in Sicilia, l' arte culinaria si era
elevata quasi a dignità di scienza verso il V secolo a.C."e - come
noi consideriamo sul piano letterario l'attrattiva che l'isola esercitava
sui dotti del tempo - lo studioso paragona la diffusione dei manuali siciliani
di cucina per il mondo greco alla esportazione dell'arte culinaria negli
Stati Uniti nei primi del secolo, a beneficio dei semplici "New Yorkers"
cui venne insegnato loro come e cosa mangiare. Dopo aver viaggiato per
il mondo, siamo d'accordo con piena convinzione, ma sicuri che Archestrato
avrebbe certo gustato le certamente migliori bistecche americane: le nostre
paiono offendersi dal contatto col fuoco, richiudendosi in loro stesse,
e dando al palato poca gustosa confidenza. Tornando a considerare il ruolo
della Sicilia come terra attiva ed ammirata non è raro in Ateneo
riscontrare frasi di tale genere:"Il poeta comico Efippo nella commedia
Filira (Philyra è il nome di una cortigiana; n.d.A.), dice: - 'Affetterò
la razza e ne farò bollire le fette? Che ne pensi? Oppure, alla
moda siciliana, è meglio infornarla? - Così è meglio,
alla siciliana'". (286; e; op. cit.)Ed ancora nei Deipnosofisti:
"Il Latos. - Tale pesce, concordando con Archestrato, è migliore
in Italia. Egli assicura che: 'Nello stretto di Scilla, nella boscosa Italia,
si cela lo splendido latos: cibo meraviglioso'" (311; f; op. cit.).
"Però riguardo al 'sinodontas', ricercane solo uno bene in carne.
E prova inoltre, amico mio, a pescarlo nello stretto. Lo stesso consiglio,
visto che ci siamo, lo do anche a te, Cleano" (322; c; op. cit.).
Ecco altri frammenti o inserimenti del pensiero di Archestrato nel
conciliabolo di Ateneo coi suoi 'ospiti': "'Pane infornato su cenere',
questo dice quel grande maestro di cucina che è Archestrato (...)"
(110, a).
"Archestrato mette a fuoco così, nella sua Gastronomia, i soggetti
di pane e pan d'orzo: 'Per prima cosa, perciò, caro Mosco, io richiamerò
alla mente i doni del biondo Demetrio, che mi giacciono nel cuore. Ciò
che di meglio si può ottenere, sì!, la più graziosa
del mondo, è la limpidamente setacciata figlia dell'orzo, che cresce
ondulato dal vento, sui rotondi seni terrei di Eresio, a Lesbo. E' più
chiara della neve versata dal cielo. Se è vero che gli dei mangiano
farina d'orzo, Hermes dovrà correre lì per comprarla loro.
Nella Tebe dalle sette porte c'è ugualmente dell'ottimo orzo, a
Thasos pure, ed in altre città; ma paiono tosti acini, confrontati
con quello di Lesbo.Afferra con sicuro intendimento quanto ti dico. Concediti
pur tu i pani della Tessaglia denominati krimnitas, che peraltro tutto
il mondo conosce come chondrinos. Come seguente suggerimento, ti indico
l'innesto del sopraffino grano di Tegea, infornato con cenere. Ottimo,
pure, è il pane di farina che viene prodotto per il mercato di Atene,
per ogni mortale; così come valido è il pane che viene sfornato
dai forni dell'Eritrea, dove cresce abbondante l'uva in ogni delicato,
ricco, momento delle stagioni: ti delizierà nei banchetti'.Segue
a questa descrizione, dello chef Archestrato, la raccomandazione che i
panettieri siano Fenici o Lidi; egli non sapeva che i fornai Cappadoci
sono i più grandi. Così dice: 'Assicurati d'avere in casa
un uomo dalla Fenicia o dalla Lidia, che sappia come fare giornalmente
ogni sorta di pane, qualsiasi sia la tua richiesta'". (111, f, segg.; op.
cit.). Prosegue Ateneo:"E quell'artista della gran portata, Archestrato,
nel suo Gastrologia (...) dice ciò a proposito dell'amias (tonnina;
è incerto; n.d.A.): 'Così come per l' amias, preparalo per
l'autunno, al tempo delle Pleiadi, e nel modo che più ti piace.
Ma perché ho bisogno di ripeterti ciò parola per parola?
Non riuscirai a sciupare ciò, anche se lo vorresti, perché
è per te. Se tu insisti, caro Mosco, sul voler essere istruito sul
modo migliore di condire quel pesce, avvolgilo in foglie di fico con pochissima
maggiorana. Niente formaggi, non facciamo assurdità! Semplicemente,
mettilo in foglie di fico, con dolcezza, e legalo in punta con un laccio;
quindi immergilo in cenere calda, e concentrati sul tempo coscienziosamente,
finché sia cotto e non bruciato. Lascia che ti giunga dall'amabile
Bisanzio, se desideri quanto c'è di meglio, ma l'avrai ottimo anche
se sarà pescato qui intorno.Ma è più scadente quello
che arriva da più lontano del mare dell'Ellesponto, e se viaggerà
sui lucenti flutti del salato Egeo, non sarà a lungo lo stesso,
e totalmente crederai alle mie prime preghiere'". (278; b, c) "Codesto
Archestrato, spinto da amore per i piaceri, scientemente attraversò
terre e mari seguendo il suo desiderio - così mi sembra - di verificare
con calma tutti i piaceri della gola; ed al modo dell'autore di Viaggi
e crociere, egli si prefisse di esporre accuratamente qualunque cosa e
'Dovunque ci fosse il meglio mangiabile e bevibile'. A tal scopo, nella
prefazione di quei nobili Consigli che egli dedicò ad i suoi amici
Mosco e Cleandro, egli suggerì loro - alla maniera, citando la sacerdotessa
di Pitia - 'di procacciarsi una cavalla dalla Tessaglia, una moglie da
Sparta, ed uomini che bevono dalla chiara fonte d'Aretusa'". (278; d, e;
op. cit.)Nel suo Consigli, per l'amico Mosco, Archestrato, definito'eccellente'e'genio'da
Ateneo non ci giunge il nome di un pesce, probabilmente lo storione (antakaios),
non citabile secondo lo schema dell'esametro:"Solca l'acque del Bosforo
il più bianco tra i pesci; ma null'altro va detto sulla coriacea
polpa di quel pesce che prospera nel lago Meotide (Mare d' Azov; n.d.A.);
pesce che non si può menzionare in versi". (284; e)"E il dotto Archestrato
nei suoi Consigli afferma: 'Non obliare il polposo chrisophros (orata?;
n.d.A.) di Efeso, che la gente di lì chiama ioniscos. Compralo,
giacché è nutrito dal sacro Selinuntos (fiume di Efeso; n.d.A.).
Sciacqualo attentamente, poi infornalo e servilo intiero, persino se dovesse
essere lungo dieci cubiti'". (328; b, c)."E considerando la rana pescatrice
(pesce coda di rospo, o lofio; n.d.A.), il dotto Archestrato fornisce questo
altro parere tra generici consigli: 'Ogni qual volta tu vedi una rana pescatrice,
comprala (...) e condisci il suo ventre.' (...) 'Mangia la razza bollita
a metà della stagione invernale, condita con formaggio e silfio
( pianta originaria della Cirenaica, non sappiamo oggi quale sia; n.d.A.).
E in tal modo puoi condire qualsiasi polpa proveniente dal mare che non
sia troppo grassa; ed è la seconda volta che ti do tale suggerimento'".
(286; d)Ed ancora una (coraggiosa) ricetta a base di pesce, forse si tratta
del gobione quando si legge di un 'gonos' piccolo, buono da friggere:"Considera
scadenti tutti i piccoli pesci da friggere, tranne quelli ateniesi; intendo
riferirmi ai gonos, che gli Ionici chiamano bavosa; e accettali solo se
pescati da poco nel mare della baia di Falero (...). Se tu desideri gustarli
appieno devi, al contempo al mercato, acquistare delle urticanti anemoni
di mare con tentacoli a foglia. Poi uniscili al pesce e rosola tutto in
padella, dopo aver preparato una crema di verdure scelte per ricoprire
il tutto". (285; b, c; op. cit.).
Ed ancora altri frammenti, per un mosaico comunque incompleto:"La corifena
da Caristo è la migliore, e generalmente parlando Caristo è
area ricchissima di pesce" (304; d)"Ugualmente in Thaso compra una triglia,
ed avrai roba niente male. A Teo è di minore qualità, purtuttavia
è buona, se pescata nelle vicinanze della riva" (325; e)."Dal profondo
abisso del largo mare, se in inizio estate (pescati), nel tempo che Fetonte
col suo carro percorre l'orbita sua più larga, compra degli 'aulopia'.
Servili scottati e accompagnati da salsa. Parte di interiora arrostisci
con spiedo"(326, b; l'aulopia potrebbe essere un tipo di scombro).Da Gran
vita, sempre in Ateneo, abbiamo pochissimi frammenti:
"Archestrato in Gran vita (HdvpaOeia): 'Qui ci sono dei rombi al forno,
e una razza, e la testa d'un tonno'". (306; b).Ateneo cita la Gastronomia
anche con tale nome e significato.Nei Deipnosofisti viene riferito che
Linceo di Samo, autore di un Trattato sul commercio, dice di stare attenti
a quei venditori dallo "sguardo duro come pietra" che non scendono col
prezzo, citando frasi di Archestrato per vantare la propria mercanzia ittica:"Il
mormoro di costa è un misero pesce, mai per nulla buono (...) ma
a Taso compra pure la scorpena (scorpìos) se non è più
lunga del tuo braccio; da una più grande tieni lontane le tue mani".
(313, f; 314, a)."Giudicherò sempre la salpa un pesce scadente.
E più gustoso al tempo che vede il grano mietuto. Compralo a Mitilene".
(321; f).Nella Magna Grecia erano da alcuni mal visti i cosidetti ospiti,
desiderosi di rimanere accanto (para) al cibo (sitos): parassiti. Si trattava
spesso di approfittatori malvisti; ne parla - male - Ateneo, dopo riportando
frasi dell'ammirato Archestrato; il discorso tenuto da Ateneo ha passaggi
poco chiari, e d'un tratto, l'argomento sugli ospiti interessati, si sposta
su di un altro pesce: lo squalo."Nossignore, non sono molti i mortali che
conoscono tale ottimo cibo, o che consentono che altri ne mangino. Non
lo vogliono gli uomini che sono forniti d'anima piccina come quella della
stupida, male alata locusta, e ne sono paralizzati a causa di quel che
si dice, che tale essere sia un mangiatore d'uomini. Ma ogni pesce gradirebbe
carne umana, se potesse averne. Quindi è un dovere da parte di quanti
così stupidamente parlano, indirizzarsi per ciò che riguarda
l'alimentazione sui vegetali; indi correggersi con le idee del filosofo
Diodoro, e vivere da astemii come tutti i Pitagorici". (163,d;op.cit.)."In
Rodi si trova del pescecane, o squalo. Persino se tu debba morire per averlo,
se essi non vogliono vendertelo, prendilo con la forza. I Siracusani lo
chiamano cangrasso. Ed una volta che lo hai avuto, sottomettiti pazientemente
a qualsiasi destino ti sia stato decretato". 286; a; op. cit.).Non occorre
rischiare molto per mangiare dello squalo, e non è neanche cattivo
nei riguardi del palato: scherzando cerchiamo di dirvi che solo la fortuna
può avervi aiutato, se non l'avete già mangiato venduto come
stoccafisso nordico. Ma è un nostro parere.Possiamo riferire adesso,
quasi in conclusione di questo viaggio nel gusto d'uomini vecchio di duemila
e trecento anni, un commento di Crisippo, dal quinto e dal settimo libro
del suo trattato Sul piacere e sul bene. Crisippo vede nel mondo di sapori
deliziosi dischiuso da Archestrato un abbinamento inevitabile con la ricerca
d'altri piaceri. Rimandiamo ancora ad altri posteri la sentenza, con un
quesito: sarà colpa di cotanto pesce mangiato in Sicilia e dintorni?
Ne riparleremo."Vi sono i libri di Filenido, e la Gastronomia di Archestrato,
e potenti stimolanti d'amore e di rapporto sessuale; parimenti le giovani
schiave erano pratiche di tali atti e di tali situazioni, e dedite a praticar
tali cose.(...) Questo e ciò che impararono per passione, guadagnandoci
da ciò che fu scritto da Filenido ed Archestrato, ed altri autori
di simile ciarpame. (...). Così come non si può apprendere
con cuore quanto scritto da Filenido e nella Gastronomia di Archestrato,
tenendo a mente che essi possono contribuire in qualche modo a vivere meglio.
Ora tu (Ateneo; n.d.A.), nel citare così spesso codesto Archestrato,
hai addotto scandalo a questo nostro simposio.Cosa, mi chiedo, ha mai omesso
questo nobile poeta epico, che sia considerato rovinoso per la pubblica
morale? Egli è il solo uomo che abbia imitato l'esistenza di Sardanapalo,
il figlio di Anasindarasse, il quale, come Aristotele disse, fu più
sciocco persino di ciò che anticipa il nome di suo padre. (...)
(Ateneo, 335, d, e, f; op. cit.).Ateneo riferisce di tanti amanti del buon
cibo ben preparato, e gli aneddoti non sono privi di grazia. Ripete quanto
detto da Egesandro, di uno scambio di frecciate tra il poeta Antagora e
il re Antigono, evidentemente durante una campagna militare, dove il re
si sarebbe aspettato la composizione di un qualche verso in suo onore da
parte del suo uomo di cultura:"Un giorno (il poeta; n.d.A.) cucinava nell'accampamento
un grosso capitone arricchito da lombata. Il re Antigono che gli stava
accanto gli chiese:'Pensi proprio, Antagora, che Omero avrebbe potuto narrare
le gesta di Agamennone, se fosse stato impegnato nella cottura di un capitone?'Al
che Antagora replicò come saetta, 'Voi credete che Agamennone avrebbe
compiuto tali gesta se fosse stato un simile impiccione, che desidera sapere
chi, tra quelli del suo esercito, cucina capitoni?Ed una volta avvenne
che Antagora, che stava facendo bollire una gallina declinò l'invito
per andare a fare una nuotata, temendo che i suoi servi ne avessero approfittato
per trangugiare tutto il brodo. Su ciò Filocide diede il suo consiglio,
cioè che la madre del poeta avrebbe potuto sorvegliare la sua pentola.
'Cosa?!', rispose. 'Ed io dovrei affidare il mio pollo in brodo a mia madre...?'"
(340; f).
Archestrato, quindi, era in buona compagnia; in molti apprezzavano
il buon gusto dei piatti più ricercati, magari con la consapevolezza
che una buona cottura, la freschezza del cibo, erano anche garanzia di
igiene e, di conseguenza, di salute. Badiamo a non fare passi indietro,
oggi, tra un locale pubblico e l'altro dove persino il rispetto della salute
- se non del portafoglio - difetta alquaanto. Per non parlare dei contemporanei,
indegni, imitatori di Archestrato i quali, viaggiando, presumono di indicare
al mondo i locali dove ci si nutre meglio con osservanza d'etichetta. Noi
siamo stati a lungo in Inghilterra e Scozia, ed è stato arduo non
far la fine ingloriosa di altri colleghi universitari - e spiace pensarlo,
ma anche colleghe - che si sono ridotti per settimane a vivacchiare tra
una tazza e l'altra, ignorando il thè al latte, e sperando nel thè
al limone. La guida Michelin 1995 ha assegnato più 'stelle' ai ristoranti
inglesi che non italiani: punto.Al nostro lettore ora consigliamo di leggere
la scheda per gli Eraclide.