A tavola con la storia

Quella gastronomica è senza dubbio una delle maggiori ricchezze del nostro Paese, che può vantare tra l'altro un'incredibile varietà di piatti e ricette di tradizione regionale e che già nel Basso Medioevo e nel Rinascimento era famoso in Europa per i suoi cuochi eccellenti. Veri e propri maestri dell'arte cuciniera, questi professionisti, accompagnati da folte schiere di aiutanti e servitori, allestivano per i signori delle corti italiane sontuosi banchetti destinati a celebrare il prestigio dell'anfitrione.
E i principi non badavano a spese pur di ostentare la loro magnificenza, offrendo in abbondanza ai convitati le vivande più preziose: ingredienti costosi come le spezie orientali e lo zucchero venivano utilizzati in grande quantità, anche a scapito della gradevolezza del sapore. D'altra parte in questi pantagruelici banchetti le portate erano talmente numerose che difficilmente i commensali riuscivano anche solo ad
assaggiarle tutte: molte delle  preparazioni venivano pertanto soltanto "ammirate" e apprezzate per la loro spettacolarità. Senza contare il fatto che il trasporto dalla cucina alla sala da pranzo e il rituale del taglio e del servizio comportavano tempi di attesa talmente lunghi che le vivande arrivavano ormai fredde nei piatti degli ospiti, perdendo così parte del loro sapore. Sfarzo e centinaia di portate L'elemento  essenziale era dunque quello scenografico: i banchetti delle nobili corti erano spesso veri e propri spettacoli che prevedevano un complesso apparato ornamentale di
accompagnamento al pasto e un variegato programma di intrattenimenti; il piacere del convitato derivava non tanto dalla degustazione dei cibi, quanto dalla sua  partecipazione a un cerimoniale pomposo. Molto in voga, nel Rinascimento, era il
banchetto a tema, che si richiamava generalmente alla tradizione classica greca e latina. In occasione delle nozze tra Alfonso II d'Este e Barbara d'Austria, celebrate a Ferrara nel 1565, fu preparato un sontuoso pranzo di questo tipo: ispirandosi alla mitologia antica, gli organizzatori allestirono una grandiosa scenografia dedicata a
Nettuno per dare agli ospiti l'illusione di partecipare alla tavola del dio del mare.
In un angolo della sala, che aveva come scenario un fondale marino, una grotta artificiale ospitava la bottiglieria; sui tavoli, coperti con tovaglie intessute a motivi che riproducevano il movimento delle onde, erano collocati piatti a forma di
conchiglia e tovaglioli piegati a forma di pesce. Le vivande, che nel complesso ammontavano a più di un centinaio, richiamavano per natura, forma o decorazioni il tema del festino. Chiudeva lo spettacolo un gigantesco Trionfo di Nettuno composto da novanta statue di zucchero e marzapane che rappresentavano, accanto al dio, un vasto corteo di pesci e animali marini. Naturalmente banchetti come questi non costituivano la norma, neppure presso le corti. E non è certo dalla cucina nobile delle grandi occasioni che si è sviluppata la tradizione culinaria ancora oggi alla base del nostro patrimonio culturale. Anch'essa ha origini antiche, eppure ha subito notevoli cambiamenti negli ultimi due  secoli: basti pensare che alcuni dei piatti più tipici della cucina italiana hanno, tra gli ingredienti fondamentali, un alimento importato dal Nuovo Mondo, il pomodoro; e se i pomodori freschi cominciarono a essere consumati, in insalata, già nel XVI secolo, fu solo a partire dal XIX che si diffuse l'uso della salsa. Dunque la pasta al pomodoro, un classico della tradizione gastronomica italiana, è un'invenzione più recente di quanto si potrebbe pensare e fino al secolo scorso molti ancora preferivano consumare questo alimento preparato secondo l'uso medievale, ossia cotto nel brodo e condito  con formaggio. Ricette antichissime Si possono comunque rintracciare all'interno della cucina tradizionale italiana numerose ricette giunte praticamente invariate dall'epoca medievale a oggi, anche se con qualche lieve differenza. È il caso, per esempio, della cosiddetta "agliata", una salsa a base di aglio, pane raffermo, brodo, noci e mandorle tritate che nel Medioevo era utilizzata per accompagnare le carni arrosto ma che un celebre cuoco rinascimentale, il Messisburgo, suggerisce di servire "sopra maccheroni": un modo di condire la pasta ancora molto diffuso tra i contadini dell'Appennino parmigiano, che però nella preparazione del sugo sostituiscono il pane con la ricotta. Del resto anche la pasta, componente basilare della nostra cucina, si diffuse in Italia già dal XIII secolo e sembra addirittura che il consumo di questo alimento abbia anticipato nel nostro Paese l'introduzione della forchetta, uno strumento precedentemente assente  dalla tavola e approdato con qualche decennio di ritardo ulle mense delle altre nazioni europee.

La cucina Omerica
I poemi omerici forniscono un panorama dettagliato sull’antica cucina greca, visto che il poeta si sofferma assai spesso sulle fasi mangerecce del racconto, come ad esempio quello dei Proci  alle mense della reggia di Itaca a spese di Ulisse, o come nelle mense reali “ Mense piene di pani biondi e di fumanti carni”. La carne era per lo più arrostita allo spiedo, condita con il suo stesso grasso ed avvolta nell’omento, a volte irrorata inizialmente da vino, che faceva parte di un rituale, a volte dopo la cottura i pezzi venivano cosparsi di farina macinata grossa, non era rara l’ebollizione in modo ristretto quasi in un sugo con erbe ( collegamento alla ricetta del Satyricon di Petronio Arbitro Galletto in casseruola Tagliare il galletto e farlo cuocere in brodo sufficiente a coprirlo, aggiungere del pepe abbondantemente.) La carne preferita era quella di maiale e  gradite tutte le altre. In Omero non si parla mai di polli o di altri volatili, infatti gli uccellini venivano usati solo nei periodi di carestia. Nei secoli d’oro di Pericle V secolo quest’ultimi saranno un piatto ricercato. Non era in uso la frollatura per le carni ed a volte l’animale veniva ucciso davanti all’ospite e venivano usati i pezzi di filetto e cosciotto molto probabilmente per la loro già morbidezza. Per quanto riguarda il pane come noi lo intendiamo oggi, era cibo da ricchi, il pane più comune era una specie di galletta d’orzo pestata  grossolanamente e tostata al forno e poi rinvenuta in acqua e quindi si formava una specie di pappina, altro pane aveva l’aspetto di pizze scondite, altro veniva cotto a modo di spiedo infilando dei bocconcini di pasta e facendola cuocere sul fuoco vivo. Il frutto per eccellenza era il fico che veniva consumato fresco, essiccato, o arrostito secondo una tecnica ancora in uso. Per quanto riguarda i formaggi se ne consumava in quantità notevoli specialmente stagionato, per lo più si tratta di formaggio caprino, vista la sua facile conservazione era anche l’alimento per eccellenza dei marinai.

L’età dell’oro di Pericle
I pasti della povera gente sono costituiti per lo più da lupini e ceci, si affaccia l’uso del formaggio grattugiato di capra che serve per comporre un beveraggio per le grandi occasioni Ciceone: si stempera nel vino Pramnio del fior di farina, formaggio grattugiato e miele, si sorbiva con pezzetti di carne di maiale,  aceto e sale.
La Maza era il pane più comune: una specie di galletta di farina d’orzo, il pane Artos  a forma di piccola pagnotta poteva essere consumato soltanto nei giorni festa.Il companatico veniva chiamato Opson con il quale i greci indicavano tutti i cibi solidi, dalle olive, al formaggio, ecc. I legumi si servivano bolliti e conditi con olio e spesso venivano ridotti a purè,  L’Opson più frequente era il pesce e si vendeva fresco, affumicato o in salamoia. La colazione dei greci era costituita per lo più da pane imbevuto nel vino accompagnato da qualche oliva e da qualche fico. Dopo aver fatto due spuntini durante la giornata il pranzo di riguardo era il Deipnon al calar della notte.
La cucina greca entra anche in letteratura Platone in qualche sua opera cita un certo Mitecos, autore di un manuale di cucina siciliana, un certo pasticcere Theorione e un certo Sarambo conoscitore di cibi, dolci e vini. Si mangiava in letti a tre posti e il posto d’onore era accanto al padrone, nessuna posata o salvietta faceva si che il servizio richiedeva che i prodotti alimentari fossero già tagliati precedentemente.
Per quanto riguarda il vino, si cuocevano i mosti e si aromatizzava con erbe e droghe e li si mescolava con acqua salata ciò portava ad avere una scelta di vini differenti. Dopo la fermentazione il vino veniva conservato in otri di pelle o in giare non avendo le botti per la sua maturazione. Non si beveva quasi mai il vino puro e i grandi crateri raffigurati in dipinti venivano usati per mescolare il vino con acqua. La grande rivoluzione è data dal cuoco professionista che doveva saper leggere e scrivere per consultare i testi di gastronomia quella volta già in uso, si distingueva quindi il nutrirsi e il pranzare che veniva fatto solo dai cuochi quando si aveva ospiti di lusso. La Sicilia era una terra particolarmente propizia alla cucina e piena di buon gustai tra cui Archestrato In piena età classica in Grecia nell'arte culinaria si affaccia una figura che viene descritta come l'Omero della gastronomia: Archestrato (IV secolo a.C.). Alcuni frammenti delle sue ricette ci sono giunti grazie ad Ateneo, grammatico greco che scrisse sei secoli più tardi circa il II secolo d.C. il "Deipmosophistarum sive coema sapientum". La gastronomia greca trova in Archestrato una ricercatezza e accuratezza sia nella preparazione e sia nella scelta delle vivande a tal punto di condizionare l'intera epoca romana.
Dall'antica Etruria..... La civiltà etrusca, sepolta per secoli, è rimasta integra in certi luoghi dell’antica Etruria a cavallo tra la Toscana e il Lazio. Tra tutte le arti, la tradizione e le usanze, la gastronomia etrusca è la più radicata nelle popolazioni d’Italia che un tempo facevano parte della dodecapoli centrale. La nostra usanza di condire con l’olio di frantoio le verdure precedentemente lessate, di arrostire sul fuoco, alla graticola o allo spiedo, le carni ovine o bovine, la preferenza di alcune tradizioni locali, rievocate dalle sagre, di cuocere in un determinato modo le frattaglie, preferendole ad alcuni pezzi di carne scelta, risale agli albori della civiltà. L’etrusco ricco, nell’età classica, consumava due pasti al giorno in un banchetto succulento che si divideva in due parti. L’uovo era il cibo obbligatorio dell’inizio, seguivano le carni arrostite, il sanguinaccio, gli uccelli, le oche, le anatre, le galline numidiche, i fagiani, la porchetta ripiena di svariati animali, l’erba aromatica, i pesci d’acqua dolce, di mare ed i molluschi. La seconda parte era dedicata ai dolci, alla frutta di ogni genere e alle torte a base di formaggio, miele e uova ed accompagnavano il tutto con del vino drogato e dolcificato con miele per suscitare allegria. Erano cibi ricchi, nutrienti ed interessanti nel loro significato esoterico, destinati ad unire l’Umanità alla Divinità. Altre fonti ci aiutano nella ricerca dei cibi. Sono le composizioni di Orazio e di Virgilio, poeti che Augusto protesse, tramite Mecenate, suo vicario. Se il secondo seppe esaltare le origini della Gens Julia, il lavoro dei campi e il mondo della pastorizia, col primo Mecenate avvertì affinità elettive tali da indurre l’illustro e ricco vicario etrusco a frequentare spesso la povera mensa del poeta. Nelle Odi è rimasta la descrizione di questi incontri, le prolungavano la cena di pane e olive in una conversazione volta a scoprire le bellezze delle cose di tutti i giorni insignificanti per la maggior parte della gente. La cena era accompagnata dal modesto vino sabino e qualche volta non mancava il prodotto dell’agro Falerno, il cui territorio fu conquistato dai romani con la battaglia del Vesuvio del 340 a.C. combattuta contro i Latini. Questa parte della Campania venne conquistata da Annibale nel 217 a.C. e subì la rivolta di Spartaco. Le Satire e le Odi tra le opere di Orazio sono tra le più significative per il nostro argomento. Il ricco e raffinato etrusco non disdegnava sedere alla parca mensa dell’amico e mangiare olive e bere il vino modesto che la terra sabina, corrispondente oggi in parte alla provincia di Rieti e in parte al territorio di Roma, offriva. “Berrai un vino sabino di poco prezzo in modesti boccali... diletto Mecenate dell’ordine equestre... berrai il Cecubo e l’uva spremuta dal torchio di Cales: i miei boccali non si riempiranno di Falerno ne del vino dei Colli di Fornia.” Nella seconda Satira Orazio descrive un banchetto ricco di elementi etruschi “Ecco avanza Nasidieno e dietro a lui valletti che portano su un gran piatto pezzi di gru cosparsi di sale e molto farro, e il fegato di un’oca bianca ingrassata con fichi succosi, e i soli quarti davanti di lepri, assai delicati a mangiarsi che non i quarti di dietro. Poi ci vennero imbanditi merli col petto rosolato allo spiedo e colombi senza i quarti di dietro: tutti cibi squisitissimi.” Nel descrivere la villa di Mecenate Orazio ammirava le ghirlande composte di fronde verdi, miste a frutta e fiori, che pendevano dalle pareti dei triclivi così gli etruschi onoravano Phuphluns ponendosi corone sui capelli e alzando la coppa per brindare al Dio, dolce nel sorriso e tremendo nell’ira. E c’era sempre qualcuno che nelle vesti di Sileno, raccontava le origini delle cose: il regno di Saturno, la vicenda di Prometeo e l’amore della Grande Madre. In tal modo, attraverso il banchetto si celebrava e rievocava l’età dell’oro.
e dalla Roma antica imperiale...... La cultura gastronomica romana si basa, su due grandi testi: “De agri cultura liber” di Marco Porcio Catone e “ARS magirica” di Gavio Apicio.Marco Porcio Catone nacque a Tusculo il 234 a.C. Occupa un posto importante nella gastronomia romana con “De agri cultura liber”.

Nella Roma più antica il romano si preparava spesso da solo il mangiare mentre nella Roma imperiale chi poteva dispone il di una cucina vera E propria possedeva almeno due o tre schiavi che potevano preparare il mangiare.
Nella Roma imperiale esisteva già una ricerca per una cucina sana e naturale.
Non tutti i cuochi romani tuttavia conoscevano l’arte di preparare piatti alla moda del' epoca solo i cittadini romani con grandi beni di fortuna avevano in genere al loro servizio i cuochi migliori.
Esisteva tuttavia la possibilità di affittare a dei bravi cuochi con le rispettive brigate direttamente al foro dove i pochi si facevano pubblicità con delle insegna.
Era comune fare tre pasti nel corso della giornata la prima colazione la colazione del mezzogiorno, il pasto alla sera, la collazione si faceva verso la terza o la quarta ora verso le nove del mattino ed era solito composta da latte, formaggi e pane.
I ragazzi nel recarsi a scuola acquistavano dei pasticcini (adipata)
La collazione si consuma verso la sesta e la settima ora cioè prima di mezzogiorno ed era un pasto rapido e freddo, in cui si servivano perlopiù i resti della cena del giorno precedente, a base di verdure, pesce, uova, funghi, molto fluviale consumato in piedi spesso veniva consumato fuori casa nelle tabernae. La cena, preceduta dal bagno delle terme era in prevalenza trascorsa in compagnia di amici che si riunivano intorno a una tavola ricca o con modestia secondo la disponibilità economica del padrone di casa. Chi era Apicio? Il nome in ambiente romano era riferito almeno a tre ghiottoni; vissuti in tre diverse età. Il primo si fece notare per essersi scagliato contro la legge Fannia del 161 a.C., una sorta di legge che cercava di porre fine allo sperpero durante i banchetti e al numero di convitati. Il secondo visse sotto Augusto e Tiberio e sembra l’autore della prima stesura e si chiamava Marco Gavio Apicio. Il terzo, Claudio o Celio Apicio, visse sotto Traiano e inventò il procedimento per mantenere fresche le ostriche e ampliò il testo del predecessore.
Ce da chiedersi dato che nelle ricette di Apicio venivano usate molte spezie, che fine faceva il sapore dell’alimento base; comunque si pensa, visto che nei testi di De Re Coquinaria non vengono fornite dosi, che le spezie venivano impiegate in modo molto leggero. Così anche come il miele; non dobbiamo dimenticare che i romani nei loro banchetti di gala, che quindi venivano consumati i pasti nei triclini, il cibo doveva essere servito all’ospite già sporzionato affinché venisse mangiato con una sola mano, visto che l’altra era indispensabile punto d’appoggio.
Ma torniamo alle spezie.

La via delle spezie
Le spezie erano un ingrediente fondamentale della cucina romana. Le droghe entravano nelle medicina, i profumi nella toilette privata e nei culti pubblici. Era Il grande capitale dell’Impero per lo più dall’Oriente. Facevano interminabili viaggi dall’Arabia, dalla Persia, dalla Cina, dall’Africa, dall’India, per un intrico di strade  che gremivano l’Asia continentale.
Nell’epoca imperiale le spezie conosciute dai romani erano circa 180 tanto che l’Imperatore Augusto aveva creato una flotta che partendo dai porti del Mar Rosso costeggiando le coste arabe, il Madagascar e le coste indiane raggiungeva l’estremo Oriente. Plinio scrive indignato che “durante il principato di Vespasiano (69-79 d.C.) i commerci con l’India rappresentavano un vero disastro per Roma visto che in quel paese non si possono vendere che poche merci romane, ma che ogni anno invece acquistiamo spezie ed aromi per 55 milioni di sesterzi. Tutto questo per ricevere prodotti inutili, ma che si mercati di Roma vengono venduti a prezzi cento volte superiori al loro valore. Si impoverisce così l’Impero per fare la fortuna di pochi commercianti  e per soddisfare la voglia di pochi ricchi che pensano solo alla tavola . Se poi si aggiunge a quello che spendiamo in Cina e nei vari paesi orientali per sete e oggetti preziosi arriviamo ad almeno cento milioni di sesterzi annui”.
La base di smistamento per la maggio parte delle droghe era Alessandria d’Egitto . qui confluivano i carichi arrivati sia da via terra che da via mare.
Le strade che dalla Cina, dall’India, dall’Asia orientale le conducevano al Mediterraneo erano tre percorsi diversi.
Il primo percorso seguiva la traccia della famosa via della seta, dalla Cina a Taskenia, Samarcanda, il Mar Caspio, Ezerum, Bisanzio.
Il secondo dalle coste nord orientali dell’India lungo il fiume Gange e poi a Pattala, Persepoli, Creta, Gaza e l’Egitto.
Il terzo sfruttava il Golfo Persico per raggiungere l’Arabia e da lì per via terra, raggiungeva l’Egitto con un percorso misto terra e mare.
Tra le spezie maggiormente usate e provenienti dalle lontane terre, troviamo lo zafferano che proveniva dalla Cicilia; e il pepe che era l’articolo più importante a causa del suo grande consumo. Ne esistevano tre specie: il lungo, il nero ed il bianco.
Il lungo provenire dall’India settentrionale mentre gli altri due dall’India meridionale. Erano già molto cari all’origine ed erano inoltre gravati da un dazio del 25% con la sola esclusione del pepe nero che era considerato merce di prima necessità.
Un intero quartiere di Roma era destinato allo stoccaggio di spezie con i loro negozi e il loro commercio. Nel 92 Domiziano vi costruì nuovi magazzini solo per il pepe chiamati Horrea piperataria ed erano immensi, basti pensare che quando, circa 300 anni dopo Alarico occupò Roma come parte del riscatto per ritirarsi dalla città ottenne fra l’altro 3000 libbre di pepe.
Ma un altro alimento prestigioso era il sale, anche se abbondantissimo in natura rappresentò per un lunghissimo periodo storico un problema per l’uomo che sapeva trovare solo quello spontaneamente affiorare da acque salmastre interne che formava dei piccoli depositi in superficie. Praticamente indispensabile e purtroppo quasi introvabile, era importantissimo  per il suo commercio e il suo uso, si caricavano di simboli religiosi e sociali. Anche quando si cominciò a usare sale ricavato dalle  miniere di salgemma o quello delle saline  ottenuto per evaporazione dell'acqua di mare (il sistema venne scoperto dai cinesi diverse migliaia di anni prima dell’era cristiana) il suo possesso era un fattore di richiesta per le varie amministrazioni statali e persino un mezzo di pagamento la parola salario deriva dall'usanza dell'antica Roma di pagare le truppe con una certa quantità di sale. Il suo commercio fu oggetto di monopolio statale e lo stato stesso dai tempi della guerra punica, attraverso il suo servizio annonario, lo distribuiva gratuitamente o a prezzo calmierato ai cittadini.

La restittrezza della gastronomia Romana
L’eccessive spese per i banchetti romani furono limitate dalle: Leggi suntuarie romane. La LEX ORCHIA prescriveva che fossero limitati il numero dei commensali e quello delle portate, stabilendo un prezzo massimo di spesa per un pranzo. Venti anni dopo, e siamo ancora in tempi di austerità, nel 162 a.C. viene promulgata la LEX FAUNIA, ancora più rigorosa. Non si potevano avere più di tre ospiti a tavola, nei giorni normali, e non più di cinque nei giorni di mercato. Un pranzo non doveva comunque costare più di 100 assi. Vi era tuttavia il permesso di consumare annualmente, oltre ai cibi acquistabili di volta in volta, una provvista di circa sei quintali tra salsicce, insaccati e carne affumicata. Erbaggi e legumi potevano essere serviti a volontà come pure i funghi. Vietato l’uso di vini esteri, su identici concetti di proibizionismo si impostavano sia la LEX DIVIA (promulgata verso il 150 a.C.) che la LEX LECINIA (110 a.C.). Ai tempi di Silla viene promulgata la LEX CORNELIA. La spesa massima per un banchetto viene fissata in 30 sesterzi. Più tardi, altre leggi simili furono promulgate. Come la LEX AMILIA e la LEX RESTIA, persino Giulio Cesare ebbe dei programmi di austerità gastronomica, e ne ebbe anche Ottaviano Augusto, il quale promulgò la LEX JULIA subito dopo la battaglia di Anzio.
Decadenza dell’impero romano e le crisi gastronomiche
Sin dalle origini della civiltà umana culto e gastronomia hanno avuto qualcosa in comune ed ecco ancora nel maturarsi nella massima potenza romana, e perciò nell’inizio della sua decadenza, il cristianesimo si affaccia proponendo come suo più importante atto di culto una cena con pietanze variate, sintetizzatesi ben presto a scanso di  degenerazioni a una semplice distribuzione di pane e vino.
Nemici delle dolcezze e delle debolezze della umana natura gli idealisti cristiani prendono sempre più potere per far trionfare il regno di Dio.
Dai confini penetravano intanto nuclei sempre più consistenti di barbari delle steppe che, abituati come tutti i nomadi a consumare semplici carni allo spiedo guardavano con disprezzo le sofisticazioni dei romani. Dallo scontro di queste tre culture: la romana, la cristiana e la barbara nacque la civiltà occidentale ed elaborò per lunghi secoli il pensiero l’arte, la tecnica e quindi la gastronomia, in terreno religioso la forza spirituale dei cristiani ebbe presto la meglio sul materialismo romano e barbaro, ma in campo alimentare si aprì una lunga e travagliata guerra.
Periodo buio prima influenza della gastronomia francese con i Galli
Nel sostitursi del vino alla birra, accadde in Gallia qualcosa che forse può sembrare al primo tempo circostanza di poco conto, ma che avrebbe dovuto rivoluzionare coi secoli la stessa natura della bevanda facendola assurgere a nuova purezza e a nuova dignità. La birra era conservata in botti, e poi naturalmente in quei recipienti vuoti entrò anche il vino, già contenuto solamente in recipienti di pietra e di coccio o in otri di pelle.

Banchetti macabri dei longobardi
Anni tristi per l’Italia tra il V e il VI secolo d.C. sei secoli prima di Cristo, in Grecia  era nata la civiltà  occidentale, e sei secoli dopo cristo in Italia essa minacciò di naufragare. Odoacre e Teodorico subivano ancora il fascino della grandezza romana  e si sforzavano a sembrare civili; anche a tavola si adattavano al di là della loro frugalità originaria, alle sofisticazioni della cucina di Apicio. Sidonio Apollinare, ex funzionario  imperiale e quindi vescovo di Clemont accolto alla corte di Teodorico, ce ne dà una testimonianza entusiasta “Alla sua tavola si trova l’eleganza della Grecia, l’abbondanza della Gallia e la celerità del servizio dell’Italia, il fasto di una cerimonia pubblica accompagnata dalle attenzioni di una cerimonia privata all’ordine che regna nella casa dei re”.  Ma ecco che irrompono dal nord e dal sud le orde dei barbari, quelli di Attila, che devastano le fiorenti colonie della Padana, invadendole con le loro spavalderie e con i loro carriaggi di famiglia, che mangiano carne cruda,  rendendo la loro bistecca piccante mettendola tra la sella e la pelle dei loro cavalli, secondo un’abitudine ereditaria dei tartari, loro lontani parenti. Attila, barbaro, era stato tuttavia allevato alla corte romana, dove aveva imparato ad apprezzare non tanto il gusto per le vivande quanto il lusso della tavola. Il suo tavolo era d’argento massiccio, la sua coppa e i suoi piatti erano d’oro. Una leggenda vuole che si sia fatto seppellire nel letto del Danubio con tutto il suo corredo prezioso da tavola.

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