Premessa
Vera e propria punta di diamante tra le tante opere di
pace il palazzo ducale di Urbino rivestì un ruolo politico di notevole
rilevanza. Federico II l’aveva voluto ampio tanto di ospitare visitatori
di riguardo, ambasciatori, letterati, prelati ed artisti, affinché
divenisse un punto di sosta internazionale o meglio una punto di unione
tra l’Europa e Roma. Quando la sua seconda moglie, Beatrice Sforza morì,
ben 35 rappresentazioni di signorie italiane giunsero a palazzo per le
esequie, evento questo mai registrato in Italia a quel tempo. Il Palazzo
fu una costruzione così moderna che Lorenzo de Medici mandò
Baccio Pontelli a copiare i disegni. Colmo d’orgoglio Federico, non smetteva
di guardarlo e riguardalo e percorrere le stanze,corridoi e giardini e
soprattutto davanti, ritenendo che la facciata costituisse la porta trionfale
della città. Del resto anche Cardarelli scrisse che il palazzo ducale
è Urbino. Per la prima volta dentro ad un palazzo principesco furono
costruiti giardini, serre, logge, un teatro, una biblioteca,( una curiosità
dell’epoca: buona parte dei libri appartenenti alla biblioteca, veniva
data in prestito ad estranei, ovviamente non quelli rilegati preziosamente)
una farmacia, un campo per il gioco della pallacorda, scuderie per trecento
cavalli, laboratori artigianali di ogni tipo e cucine molto vaste. Feste
e banchetti si tenevano nella sala di rappresentanza, dove pareti adorne
di arazzi, decorazioni e soffitti meravigliosamente affrescati avevano
lo scopo di esaltare il prestigio della corte. L’arredo delle sale era
improntato a sobrietà e consisteva in credenze per il vasellame
prezioso e sedie e panche completavano il tutto. Altre stanze ospitavano
i pasti della famiglia nei giorni ordinari: erano chiamate tinelli e in
ogni palazzo ce n’erano almeno due, di cui uno riservato ai principali
della famiglia. Le tavole occupate dai commensali in ordine di dignità,
dietro l’invito dello scalco, erano solitamente ricoperte di tovaglie bianche,
con cucchiai e forchette di legno, d’avorio o d’argento a seconda dell’occasione.
Trombetti e pifferi allietavano i pranzi alla corte ducale, tanto da figurare
tra gli ufficiali di corte. A partire dal Quattrocento, l’organizzazione
conviviale venne regolata ed affidata a persone dotate di gusto e raffinatezza,
qualità ormai riconosciute come indispensabili qualità della
vita di Corte. Sovrintendeva a tutto il personale il maestro di casa, responsabile
dell’andamento responsabile del palazzo e alter ego del Signore stesso,
ed era tenuto a conoscere in ogni momento chi era ospite di passaggio e
quindi lo riferiva al signore, il quale decideva assieme a lui che tipo
di accoglienza riservare all’ospite. La figura più importante del
convivio, era rappresentata dallo scalco, cui spettava la scelta e l’addestramento
del personale di credenza e di cucina, esso doveva agire con modestia affinché
ogni suo ordine sembrasse piuttosto una richiesta. Vero e proprio regista
del convito, garantiva che le vivande fossero servite secondo determinante
alternanza, allo scalco spettava talvolta, anche il compito di sovrintendere
ai servitori dei convitati ed organizzava a tal fine un convito in altro
tinello. Altro degno protagonista del convito era il trinciante, il suo
ruolo era adatto ad un giovane pulito ed abile, raggiungendo tale servizio
dopo lungo tirocinio. L’orario dei pasti era fissato dal duca, stagione
per stagione, si pranzava nella tarda mattinata e si cenava al tramonto,
chi non si presentava a tavola all’ora prefissata, aveva il diritto ad
avere solo vino ed acqua, a meno che fosse stato impedito da giusta causa.
Nel Palazzo urbinate il pane era dato a chiunque, anche a chi, senza giustificazione,
sedeva tardi a tavola. Fra generalmente preparato con frumento, ma spesso,
a seconda dei periodi e dell'abbondanza o meno dei raccolti, vi si aggiungeva
miglio o spetta, avena e grano saraceno. Veniva aromatizzato con finocchio,
semi di papavero, sesamo, rosmarino ed anice, al fine di risolvere problemi
di salute, come si riteneva comunemente. Presente sulla tavola anche il
pane azimo, impastato cioè con acqua e farina senza lievito. Oltre
alle grandi pagnotte, il pane si confezionava in svariate forme (a treccia,
a forma di rosa...), lo si addolciva per focacce e biscotti e tutto veniva
messo in tavola prima dell'inizio del pasto allo scopo di sollecitare l'appetito
dei commensali. La cena e il pranzo senza bevande erano ritenuti non soltanto
poco gradevoli ma anche poco salutari, «perché il bere, per
chi ha sete, è più dolce e più gradito di un cibo
qualsiasi per chi abbia fame». «Conviene bagnare il cibo, sia
per rinfrescare i polmoni che per digerire... niente è più
pronto del vino nel soccorrere i corpi affaticati», suggerisce il
Platina; va, però, bevuto con moderazione, poiché «a
a causa dell’ubriachezza gli uomini diventano infatti tremebondi, grevi,
pallidi, maleodoranti, smemorati, sterili e lenti a procreare, canuti e
calvi anzitempo». I suggerimenti sul buon uso del vino tengono conto
delle stagioni e dell'età dei bevitori: «d'inverno conviene
mangiare di più e bere di meno, ma vino schietto, così d’estate
si usino bevande diluite quanto più è possibile, sia per
togliere la sete, sia per non riscaldare successivamente il corpo; e come
di primavera, così d'autunno, facendo uso di un cibo un po' più
abbondante, si deve bere meno e vino non allungato. Inoltre, ai vecchi
si deve dare vino schietto, ai bambini allungato, ai giovani e a quelli
di età media un vino di media misura». La disciplina prevede
anche una regola a seconda della natura dei luoghi e delle persone “Coloro
che abitano nei luoghi freddi devono bere vino puro, quelli che abitano
al caldo vino allungato, quelli che stanno in zone temperate un alunchè
d’intermedio. I sanguigni bevono vino allungato, i biliosi quello secco,
i flemmatici quello generoso». Assieme a spezie e sete, i vini costituivano
oggetto di gran commercio. Molto conosciuti un po’ ovunque in epoca rinascimentale
erano il Greco proveniente dalle zone di San Gimignano in Toscana, e quello
proveniente da Somma in Campania: piuttosto forte, veniva trattato più
degli altri vini con albume d'uovo e non era soggetto a viziarsi a causa
degli spostamenti. Vino nobile e di qualità assai pregiata
nelle Marche era il Trebbiano. Comuni su tutte le mense del periodo erano:
la Malvasia, e il Greco di Ancona chiamato Albana dall'uva di provenienza.
Si trattava di uva piuttosto dolce, ma con la buccia «alquanto aspra
ed amara». Questo vitigno era tenuto in gran considerazione
nel territorio della Romagna, dove veniva portato piuttosto corto: il vino
che ne derivava era molto gagliardo, di nobile sapore, non troppo secco
e di facile conservazione. Certamente non sarà mancato sulle mense
montefeltresche l’odierno Rosso Conero considerato il vino nobile delle
Marche. Le sue origini sono antichissime: fu lodato persino nel I
secolo dopo Cristo da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis historia
parla di vini del versante Adriatico dell'Italia centrale tra i quali,
già da allora, godevano di particolare fama quelli anconetani. Apprezzata
durante il rinascimento la Cagnina, diffusissimo nella zona di Forlì;
il Maio1o, cosiddetto dal mese di maturazione proveniente da un uva
dolcissima di sapore. Eccezion fatta per i banchetti in cui veniva servita
alla fine, la frutta era mangiata d'abitudine prima o all'inizio dei pasti,
come tutti i dietologi e i nutrizionisti dei nostri giorni suggeriscono.
Veniva chiamata «oraria». perché, secondo i medici,
un’ora era sufficiente per la sua digestione. Nella bella stagione ciliegie
e fichi erano riservati alla tavola del giorno, mentre meloni e uva erano
serviti solo la sera. A fine pasto, i commensali più raffinati mangiavano
anice e coriandolo avvolto nello zucchero, assunto anche come medicamento;
quelli che avevano minori pretese s'accontentavano del finocchio. Erano
altresì consigliati pistacchi e fave, ritenuti astringenti. A fine
pasto si gustavano, d'inverno, mandorle e nocciole, generalmente dopo il
pesce “perchè con la loro asciuttezza si ritiene che possano ovviare
all'indole fredda e umida dei pesci” o dopo il formaggio. Questo consigliato
per sigillare lo stomaco a far in modo che “le esalazioni non salgano alla
testa e al cervello”, era apprezzato, perché si reputava che togliesse
quel senso di nausea che può conseguire ad “una cena troppo grassa,
o troppo dolce”. Non era difficile assicurarsi l'approvvigionamento di
formaggi, anche se provenienti da luoghi lontani. Non esisteva comunque,
una grande varietà: il raviggiuolo, autentica prelibatezza rinascimentale
cacio tenero di latte caprino e ovino che si preparava in forma di focaccia
in primavera e in autunno; la giuncata, ovvero latte rappreso non salato,
che andava posto in cestelli di giunco; i parmigiano, servito durante i
banchetti; lo slattato, fatto con latte vaccino intero e disposto in ambienti
bui e caldi, per permettere alla scorza di rompersi e lasciar fuoriuscire
il grasso; il pecorino, saporito e consistente. Nel Pesarese sono degni
di menzione quello di San Leo, stagionato in speciali recipienti di terracotta
a forma di anfora e quello di Talamello, avvolto in foglie di noce e lasciato
a maturare entro grotte di tufo. La zona di Urbino è da sempre rinomata
per la sua caciotta, che ha avuto, tra i suoi estimatori, due grandi
della storia: Michelangelo Buonarroti che si faceva inviare a Roma
delle caciotte dal servitore Francesco Amatori detto l'Urbino, ed il cardinale
Gangarelli divenuto papa col nome di Clemente XIV. Il formaggio talvolta
arrostito alla griglia ed insaporito con zucchero e cannella, costituiva
spesso, servito unitamente alle uova, un sostanzioso secondo piatto. Le
uova venivano mangiate quasi tutti i giorni (e comunque tutti i venerdì
ed i giorni di vigilia), apparivano in tavola nelle forme più svariate.
Nei giorni di magro era di rigore il pesce ed anche ai tempi di Federico
questo faceva parte della gastronomia locale, perciò tutte
le case signorili avevano una loro peschiera da dove si attingeva al bisogno.
Se ne mangiava di ogni tipo: rombi, persici, seppie, gamberi, merluzzi,
branzini, ma in particolare considerazione erano tenuti lucci, trote, sogliole,
anguille e storioni. Si possono trovare molte ricette per la degustazione
della lampreda, pesce oggi poco conosciuto e quasi scomparso: era molto
simile all'anguilla e aveva due fori sotto le branchie su ambo i lati.
Si era soliti cucinarlo con vino e acqua e servirlo con una salsa verde
fatta con salvia, prezzemolo, timo, aglio e pepe. Lo si mangiava anche
fritto, marinato e allesso, mentre i calamari erano generalmente arrostiti
con sale e lardo e serviti con succo d'arance, acqua di rose e limoncelli.
L’insalata veniva servita a Corte come antipasto nei menu serali, mischiando
lattuga, porri, carote, cicoria, rucola, sedani, vitalbe, cipolle, agli,
scalogni, crescione ed indivia, mentre con verze, cavoli, rape e bietole
si preparavano salse e torte e si accompagnavano le carni, cotte generalmente
in umido per il pranzo ed arrostite per la cena. Cacciagione e selvaggina
erano sempre servite durante i banchetti. La selvaggina veniva anche rosolata
a pezzi con lardo, sale, spezie ed odori vari, la cottura era completata
in un tegame con latte di mandorle diluito in acqua: si stemperava infine
il tutto con brodo e coriandolo. La carne veniva talvolta cotta in agrodolce;
nei giorni feriali si mangiava il pollame, che era solitamente servito
con una salsa d'aglio diluita con vino ed aceto; la coratella d'agnello
lessata. veniva tagliata a fettine e fritta con lardo, uova sbattute ed
erbe e sempre accompagnata con spezie dolci e forti. Il maiale veniva arrostito
intero: dalle cosce si ricavava il prosciutto, la lingua veniva cotta sulla
brace con molti chiodi di garofano; il polmone, bollito e fritto; il fegato
cotto alla griglia n erbe aromatiche, pepe, aceto e zucchero; le zampe
venivano bollite in acqua e aceto e fritte con una salsa a base di pepe
e zafferano, di aceto e cipolla o anche di aceto e prezzemolo. Si era soliti
friggere anche la carne di cappone e servirla immersa in una salsa a base
di mandorle e zucchero. La carne di cappone era prediletta dai cuochi per
la preparazione di un buon brodo: veniva bollita per ore e condita con
erbe, spezie e formaggio; il brodo veniva addensato con dei tuorli d'uovo
per renderlo più appetitoso e nutriente. Si consumavano in brodo
per una migliore digeribilità i tortelli o ravioli con ripieno di
maiale, cappone, vitella, formaggio ed erbette; altro tipo di ripieno poteva
esser preparato con ricotta, bietole, pinoli e uva passa. La pasta sfoglia
nacque nel Trecento: col termine di «maccaroni» si indicava
una specie di gnocchi grossi come palline, cotti nel brodo e conditi con
formaggio; per «maccaroni romani» si intendevano grosse tagliatelle,
delle dimensioni delle attuali pappardelle. La sfoglia, impastata con acqua
e al massimo con una chiara d'uovo ogni 2-3 porzioni, veniva avvolta attorno
ad un bastone e tagliata a strisce: veniva cotta in brodo o (in tempo di
Quaresima) in acqua e condita con formaggio, zucchero e cannella. L'Ordini
et Offitij... di Corte prevedeva infine, per ogni giorno, una minestra
diversa a pranzo e a cena: paste e zuppe cotte con ogni sorta di cereale
(orzo, miglio, farro, avena, frumento e segale), riso e legumi fatti bollire
il più delle volte nel latte.
Per la suppa di prugnoli et
altri funghi usati
Pigliasi il prugnolo rascato et netto dall’arena e se
sarà grosso, tagliasi in pezzi et lasciasi et facciasi stare in
molle, più l’arena più facilmente si stacchi, et sia migliore,
cavasi poi dall’acqua et poggiasi in una cazzuola, o vaso di terra con
aglio, et facciasi soffriggere pian piano, perciocchè da se stesso
farà il brodo, et per ogni libbra di prugnoli soffritti, pestinosene
quattro oncie di crude, che siano state a molle, con meza oncie di cime
di spinaci, e stemprinosi i prugnoli con acqua et un poco di agresto chiaro,
aggiungendovi pepe, cannella, et un poco di zafferano, et sale a bastanza,
et un poco di herbucce tagliate minute, et pongasi ogni cosa nella cazzuola
con gli altri prugnoli et faccianosi cuocere, facendo il saggio del brodo,
che habbia alquanto di bruschetto et pizzichi di spetierie, et dappoi habbianosi
apparecchiate fette di pane brustolite, et soffritte et di una altezza
di una costa di coltello, et pongasi sopra i prugnoli, et servasi calda.
In questo modo si possono accomodare i funghi gentili d’ogni sorte, come
i spongioli, li rossignoli, et gli altri.
L’insalata
veniva servita a corte come antipasto nei menù
serali, mischiando lattuga, porri, carote, rucola, sedani, cipolle, agli,
scalogni ed invidia
Tortelli di lonza
Togli la lonza, lessala, battila, e togli cacio fresco,
poche uova, spezie forti, e fà un battuto di queste cose. Empine
li tortelli, falli cuocere in brodo di cappone o di qualunque, e cascio
e peverada per iscodelle.
Ambrogino di pollo
Se tu vuoi fare ambrogino togli pollastri e smembrali,
togli cipolle bene trita e frigeli in lardo colato, e mitele specie dolce
e forte, e zenzevro, e cenamo, e garofoli, e taglia menuti col coltello,
e mitili a frizere ogni cossa in sembre. E togli agresta, e zafferano,
inseme. Quando sono cocti meti sopra li polastri. A tri polastri vole libre
II de mandole.
Arrosto in agrodolce
Se tu vuoi fare rosto in cisame, togli una lonza de porco
e arrostiscela e togli ovi crudi e cocti e fai pestare insieme e togli
buon vino bianco e miti a bollire in padella e fai pezzi del rosto e metili
a bolire con esso e metige datali taiati e pignoli e uva saracena ben lavata
e specie; e quando è cocto levalo del foco e serà bono.
Pesce in agrodolce
Togli il pesce e frigelo, togli cipolle e lessale
un poco tagliale menute, poi frigele bene, e poi togli aceto et acqua e
mandorle intere, e uva passa e specie forte, e un poco di miele, e fà
bollire ogni cosa insieme e metti sopra lo pesce.
Per soffriggere spinaci
et cuocerli
Piglinosi li spinaci teneri, lavinosi, et lascianosi
scolare, et habbianosi una padella con olio ben caldo, et ponganovisi dentro
i spinaci con pochissimo sale, et rivolganosi con la cocchiara, et battanosi,
et come saranno battuti et cotti giungavisi uva passa, pepe et cannella,
o agresto chiaro et faccianosi levare un bollo et servasi ogni cosa insieme
calda.
D’inverno tutti mangiavano le castagne,
dotate di natura secca e fredda: si riteneva che ben masticate fossero
piuttosto nutrienti
quelle cotte alla brace e la cenere erano preferite
a quelle lessate
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Cena del 21 Gennaio 1999 (I templari
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