Ristorante
T R A I A N O
Cene d’Arte Culinaria
 Alla Corte Di Urbino
19 Novembre 1998
 

Premessa
Vera e propria punta di diamante tra le tante opere di pace il palazzo ducale di Urbino rivestì un ruolo politico di notevole rilevanza. Federico II l’aveva voluto ampio tanto di ospitare visitatori di riguardo, ambasciatori, letterati, prelati ed artisti, affinché divenisse un punto di sosta internazionale o meglio una punto di unione tra l’Europa e Roma. Quando la sua seconda moglie, Beatrice Sforza morì, ben 35 rappresentazioni di signorie italiane giunsero a palazzo per le esequie, evento questo mai registrato in Italia a quel tempo. Il Palazzo fu una costruzione così moderna che Lorenzo de Medici mandò Baccio Pontelli a copiare i disegni. Colmo d’orgoglio Federico, non smetteva di guardarlo e riguardalo e percorrere le stanze,corridoi e giardini e soprattutto davanti, ritenendo che la facciata costituisse la porta trionfale della città. Del resto anche Cardarelli scrisse che il palazzo ducale è Urbino. Per la prima volta dentro ad un palazzo principesco furono costruiti giardini, serre, logge, un teatro, una biblioteca,( una curiosità dell’epoca: buona parte dei libri appartenenti alla biblioteca, veniva data in prestito ad estranei, ovviamente non quelli rilegati preziosamente)  una farmacia, un campo per il gioco della pallacorda, scuderie per trecento cavalli, laboratori artigianali di ogni tipo e cucine molto vaste. Feste e banchetti si tenevano nella sala di rappresentanza, dove pareti adorne di arazzi, decorazioni e soffitti meravigliosamente affrescati avevano lo scopo di esaltare il prestigio della corte. L’arredo delle sale era improntato a sobrietà e consisteva in credenze per il vasellame prezioso e sedie e panche completavano il tutto. Altre stanze ospitavano i pasti della famiglia nei giorni ordinari: erano chiamate tinelli e in ogni palazzo ce n’erano almeno due, di cui uno riservato ai principali della famiglia. Le tavole occupate dai commensali in ordine di dignità, dietro l’invito dello scalco, erano solitamente ricoperte di tovaglie bianche, con cucchiai e forchette di legno, d’avorio o d’argento a seconda dell’occasione. Trombetti e pifferi allietavano i pranzi alla corte ducale, tanto da figurare tra gli ufficiali di corte. A partire dal Quattrocento, l’organizzazione conviviale venne regolata ed affidata a persone dotate di gusto e raffinatezza, qualità ormai riconosciute come indispensabili qualità della vita di Corte. Sovrintendeva a tutto il personale il maestro di casa, responsabile dell’andamento responsabile del palazzo e alter ego del Signore stesso, ed era tenuto a conoscere in ogni momento chi era ospite di passaggio e quindi lo riferiva al signore, il quale decideva assieme a lui che tipo di accoglienza riservare all’ospite. La figura più importante del convivio, era rappresentata dallo scalco, cui spettava la scelta e l’addestramento del personale di credenza e di cucina, esso doveva agire con modestia affinché ogni suo ordine sembrasse piuttosto una richiesta. Vero e proprio regista del convito, garantiva che le vivande fossero servite secondo determinante alternanza, allo scalco spettava talvolta, anche il compito di sovrintendere ai servitori dei convitati ed organizzava a tal fine un convito in altro tinello. Altro degno protagonista del convito era il trinciante, il suo ruolo era adatto ad un giovane pulito ed abile, raggiungendo tale servizio dopo lungo tirocinio. L’orario dei pasti era fissato dal duca, stagione per stagione, si pranzava nella tarda mattinata e si cenava al tramonto, chi non si presentava a tavola all’ora prefissata, aveva il diritto ad avere solo vino ed acqua, a meno che fosse stato impedito da giusta causa. Nel Palazzo urbinate il pane era dato a chiunque, anche a chi, senza giustificazione, sedeva tardi a tavola. Fra generalmente preparato con frumento, ma spesso, a seconda dei periodi e dell'abbondanza o meno dei raccolti, vi si aggiungeva miglio o spetta, avena e grano saraceno. Veniva aromatizzato con finocchio, semi di papavero, sesamo, rosmarino ed anice, al fine di risolvere problemi di salute, come si riteneva comunemente. Presente sulla tavola anche il pane azimo, impastato cioè con acqua e farina senza lievito. Oltre alle grandi pagnotte, il pane si confezionava in svariate forme (a treccia, a forma di rosa...), lo si addolciva per focacce e biscotti e tutto veniva messo in tavola prima dell'inizio del pasto allo scopo di sollecitare l'appetito dei commensali. La cena e il pranzo senza bevande erano ritenuti non soltanto poco gradevoli ma anche poco salutari, «perché il bere, per chi ha sete, è più dolce e più gradito di un cibo qualsiasi per chi abbia fame». «Conviene bagnare il cibo, sia per rinfrescare i polmoni che per digerire... niente è più pronto del vino nel soccorrere i corpi affaticati», suggerisce il Platina; va, però, bevuto con moderazione, poiché «a a causa dell’ubriachezza gli uomini diventano infatti tremebondi, grevi, pallidi, maleodoranti, smemorati, sterili e lenti a procreare, canuti e calvi anzitempo». I suggerimenti sul buon uso del vino tengono conto delle stagioni e dell'età dei bevitori: «d'inverno conviene mangiare di più e bere di meno, ma vino schietto, così d’estate si usino bevande diluite quanto più è possibile, sia per togliere la sete, sia per non riscaldare successivamente il corpo; e come di primavera, così d'autunno, facendo uso di un cibo un po' più abbondante, si deve bere meno e vino non allungato. Inoltre, ai vecchi si deve dare vino schietto, ai bambini allungato, ai giovani e a quelli di età media un vino di media misura». La disciplina prevede anche una regola a seconda della natura dei luoghi e delle persone “Coloro che abitano nei luoghi freddi devono bere vino puro, quelli che abitano al caldo vino allungato, quelli che stanno in zone temperate un alunchè d’intermedio. I sanguigni bevono vino allungato, i biliosi quello secco, i flemmatici quello generoso». Assieme a spezie e sete, i vini costituivano oggetto di gran commercio. Molto conosciuti un po’ ovunque in epoca rinascimentale erano il Greco proveniente dalle zone di San Gimignano in Toscana, e quello proveniente da Somma in Campania: piuttosto forte, veniva trattato più degli altri vini con albume d'uovo e non era soggetto a viziarsi a causa degli spostamenti. Vino  nobile e di qualità assai pregiata nelle Marche era il Trebbiano. Comuni su tutte le mense del periodo erano: la Malvasia,  e il Greco di Ancona chiamato Albana dall'uva di provenienza. Si trattava di uva piuttosto dolce, ma con la buccia «alquanto aspra ed amara».  Questo vitigno era tenuto in gran considerazione nel territorio della Romagna, dove veniva portato piuttosto corto: il vino che ne derivava era molto gagliardo, di nobile sapore, non troppo secco e di facile conservazione. Certamente non sarà mancato sulle mense montefeltresche l’odierno Rosso Conero considerato il vino nobile delle Marche.  Le sue origini sono antichissime: fu lodato persino nel I secolo dopo Cristo da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis historia parla di vini del versante Adriatico dell'Italia centrale tra i quali, già da allora, godevano di particolare fama quelli anconetani. Apprezzata durante il rinascimento la Cagnina,  diffusissimo nella zona di Forlì; il Maio1o,  cosiddetto dal mese di maturazione proveniente da un uva dolcissima di sapore. Eccezion fatta per i banchetti in cui veniva servita alla fine, la frutta era mangiata d'abitudine prima o all'inizio dei pasti, come tutti i dietologi e i nutrizionisti dei nostri giorni suggeriscono. Veniva chiamata «oraria». perché, secondo i medici, un’ora era sufficiente per la sua digestione. Nella bella stagione ciliegie e fichi erano riservati alla tavola del giorno, mentre meloni e uva erano serviti solo la sera. A fine pasto, i commensali più raffinati mangiavano anice e coriandolo avvolto nello zucchero, assunto anche come medicamento; quelli che avevano minori pretese s'accontentavano del finocchio. Erano altresì consigliati pistacchi e fave, ritenuti astringenti. A fine pasto si gustavano, d'inverno, mandorle e nocciole, generalmente dopo il pesce “perchè con la loro asciuttezza si ritiene che possano ovviare all'indole fredda e umida dei pesci” o dopo il formaggio. Questo consigliato per sigillare lo stomaco a far in modo che “le esalazioni non salgano alla testa e al cervello”, era apprezzato, perché si reputava che togliesse quel senso di nausea che può conseguire ad “una cena troppo grassa, o troppo dolce”. Non era difficile assicurarsi l'approvvigionamento di formaggi, anche se provenienti da luoghi lontani. Non esisteva comunque, una grande varietà: il raviggiuolo, autentica prelibatezza rinascimentale cacio tenero di latte caprino e ovino che si preparava in forma di focaccia in primavera e in autunno; la giuncata, ovvero latte rappreso non salato, che andava posto in cestelli di giunco; i parmigiano, servito durante i banchetti; lo slattato, fatto con latte vaccino intero e disposto in ambienti bui e caldi, per permettere alla scorza di rompersi e lasciar fuoriuscire il grasso; il pecorino, saporito e consistente. Nel Pesarese sono degni di menzione quello di San Leo, stagionato in speciali recipienti di terracotta a forma di anfora e quello di Talamello, avvolto in foglie di noce e lasciato a maturare entro grotte di tufo. La zona di Urbino è da sempre rinomata  per la sua caciotta,  che ha avuto, tra i suoi estimatori, due grandi della storia: Michelangelo Buonarroti  che si faceva inviare a Roma delle caciotte dal servitore Francesco Amatori detto l'Urbino, ed il cardinale Gangarelli divenuto  papa col nome di Clemente XIV. Il formaggio talvolta arrostito alla griglia ed insaporito con zucchero e cannella, costituiva spesso, servito unitamente alle uova, un sostanzioso secondo piatto. Le uova venivano mangiate quasi tutti i giorni (e comunque tutti i venerdì ed i giorni di vigilia), apparivano in tavola nelle forme più svariate. Nei giorni di magro era di rigore il pesce ed anche ai tempi di Federico questo faceva parte della gastronomia locale,  perciò tutte le case signorili avevano una loro peschiera da dove si attingeva al bisogno. Se ne mangiava di ogni tipo: rombi, persici, seppie, gamberi, merluzzi, branzini, ma in particolare considerazione erano tenuti lucci, trote, sogliole, anguille e storioni. Si possono trovare molte ricette per la degustazione della lampreda, pesce oggi poco conosciuto e quasi scomparso: era molto simile all'anguilla e aveva due fori sotto le branchie su ambo i lati. Si era soliti cucinarlo con vino e acqua e servirlo con una salsa verde fatta con salvia, prezzemolo, timo, aglio e pepe. Lo si mangiava anche fritto, marinato e allesso, mentre i calamari erano generalmente arrostiti con sale e lardo e serviti con succo d'arance, acqua di rose e limoncelli. L’insalata veniva servita a Corte come antipasto nei menu serali, mischiando lattuga, porri, carote, cicoria, rucola, sedani, vitalbe, cipolle, agli, scalogni, crescione ed indivia, mentre con verze, cavoli, rape e bietole si preparavano salse e torte e si accompagnavano le carni, cotte generalmente in umido per il pranzo ed arrostite per la cena. Cacciagione e selvaggina erano sempre servite durante i banchetti. La selvaggina veniva anche rosolata a pezzi con lardo, sale, spezie ed odori vari, la cottura era completata in un tegame con latte di mandorle diluito in acqua: si stemperava infine il tutto con brodo e coriandolo. La carne veniva talvolta cotta in agrodolce; nei giorni feriali si mangiava il pollame, che era solitamente servito con una salsa d'aglio diluita con vino ed aceto; la coratella d'agnello lessata. veniva tagliata a fettine e fritta con lardo, uova sbattute ed erbe e sempre accompagnata con spezie dolci e forti. Il maiale veniva arrostito intero: dalle cosce si ricavava il prosciutto, la lingua veniva cotta sulla brace con molti chiodi di garofano; il polmone, bollito e fritto; il fegato cotto alla griglia n erbe aromatiche, pepe, aceto e zucchero; le zampe venivano bollite in acqua e aceto e fritte con una salsa a base di pepe e zafferano, di aceto e cipolla o anche di aceto e prezzemolo. Si era soliti friggere anche la carne di cappone e servirla immersa in una salsa a base di mandorle e zucchero. La carne di cappone era prediletta dai cuochi per la preparazione di un buon brodo: veniva bollita per ore e condita con erbe, spezie e formaggio; il brodo veniva addensato con dei tuorli d'uovo per renderlo più appetitoso e nutriente. Si consumavano in brodo per una migliore digeribilità i tortelli o ravioli con ripieno di maiale, cappone, vitella, formaggio ed erbette; altro tipo di ripieno poteva esser preparato con ricotta, bietole, pinoli e uva passa. La pasta sfoglia nacque nel Trecento: col termine di «maccaroni» si indicava una specie di gnocchi grossi come palline, cotti nel brodo e conditi con formaggio; per «maccaroni romani» si intendevano grosse tagliatelle, delle dimensioni delle attuali pappardelle. La sfoglia, impastata con acqua e al massimo con una chiara d'uovo ogni 2-3 porzioni, veniva avvolta attorno ad un bastone e tagliata a strisce: veniva cotta in brodo o (in tempo di Quaresima) in acqua e condita con formaggio, zucchero e cannella. L'Ordini et Offitij... di Corte prevedeva infine, per ogni giorno, una minestra diversa a pranzo e a cena: paste e zuppe cotte con ogni sorta di cereale (orzo, miglio, farro, avena, frumento e segale), riso e legumi fatti bollire il più delle volte nel latte.

Per la suppa di prugnoli et altri funghi usati
Pigliasi il prugnolo rascato et netto dall’arena e se sarà grosso, tagliasi in pezzi et lasciasi et facciasi stare in molle, più l’arena più facilmente si stacchi, et sia migliore, cavasi poi dall’acqua et poggiasi in una cazzuola, o vaso di terra con aglio, et facciasi soffriggere pian piano, perciocchè da se stesso farà il brodo, et per ogni libbra di prugnoli soffritti, pestinosene quattro oncie di crude, che siano state a molle, con meza oncie di cime di spinaci, e stemprinosi i prugnoli con acqua et un poco di agresto chiaro, aggiungendovi pepe, cannella, et un poco di zafferano, et sale a bastanza, et un poco di herbucce tagliate minute, et pongasi ogni cosa nella cazzuola con gli altri prugnoli et faccianosi cuocere, facendo il saggio del brodo, che habbia alquanto di bruschetto et pizzichi di spetierie, et dappoi habbianosi apparecchiate fette di pane brustolite, et soffritte et di una altezza di una costa di coltello, et pongasi sopra i prugnoli, et servasi calda. In questo modo si possono accomodare i funghi gentili d’ogni sorte, come i spongioli, li rossignoli, et gli altri.

L’insalata
veniva servita a corte come antipasto nei menù serali, mischiando lattuga, porri, carote, rucola, sedani, cipolle, agli, scalogni ed invidia
 
Tortelli di lonza
Togli la lonza, lessala, battila, e togli cacio fresco, poche uova, spezie forti, e fà un battuto di queste cose. Empine li tortelli, falli cuocere in brodo di cappone o di qualunque, e cascio e peverada per iscodelle.

Ambrogino di pollo
Se  tu vuoi fare ambrogino togli pollastri e smembrali, togli cipolle bene trita e frigeli in lardo colato, e mitele specie dolce e forte, e zenzevro, e cenamo, e garofoli, e taglia menuti col coltello, e mitili a frizere ogni cossa  in sembre. E togli agresta, e zafferano, inseme. Quando sono cocti meti sopra li polastri. A tri polastri vole libre II de mandole.

Arrosto in agrodolce
Se tu vuoi fare rosto in cisame, togli una lonza de porco e arrostiscela e togli ovi crudi e cocti e fai pestare insieme e togli buon vino bianco e miti a bollire in padella e fai pezzi del rosto e metili a bolire con esso e metige datali taiati e pignoli e uva saracena ben lavata e specie; e quando è cocto levalo del foco  e serà bono.

Pesce in agrodolce
Togli il pesce  e frigelo, togli cipolle e lessale un poco tagliale menute, poi frigele bene, e poi togli aceto et acqua e mandorle intere, e uva passa e specie forte, e un poco di miele, e fà bollire ogni cosa insieme e  metti sopra lo pesce.
 
Per soffriggere spinaci et cuocerli
Piglinosi li spinaci teneri, lavinosi, et lascianosi scolare, et habbianosi una padella con olio ben caldo, et ponganovisi dentro i spinaci con pochissimo sale, et rivolganosi con la cocchiara, et battanosi, et come saranno battuti et cotti giungavisi uva passa, pepe et cannella, o agresto chiaro et faccianosi levare un bollo et servasi ogni cosa insieme calda.
 
 
D’inverno tutti mangiavano le castagne, dotate di natura secca e fredda: si riteneva che ben masticate fossero piuttosto nutrienti
quelle cotte alla brace  e la cenere erano preferite a quelle lessate
 
 

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