Bussento
di Nino Conte
Bussento: Franco Consolini ce ne aveva parlato sin da quando ci aveva guidato nelle prime sortite speleologiche nei Meri del Monte Soratte. L’anno? Il 1956, anche se con molta incertezza.
Eravamo un gruppo di paracadutisti sportivi, entusiasti dei nostri lanci, ma anche curiosi di altre esperienze. Franco era l’unico di noi che aveva già svolto attività speleologica con il Circolo Speleologico Romano (CSR), ma ne era uscito per dissensi con la Direzione, e gli era rimasta tanta voglia di ricominciare in altri modi e con più fantasia.
Ci aveva affascinato con i suoi racconti sempre sottolineati da uno scanzonato commento tutto romano da "Borgo". E un giorno decise: "Domenica, se ci state, si va in grotta".
Si iniziò con le discese, in "Azario", dei Meri del Soratte, e nacque il "Gruppo Grotte Roma". Suo distintivo, disegnato da Franco, fu un cerchio, e, nel cerchio una scala, e, sovrapposto alla scala, l’immancabile pipistrello con le sue ali spiegate. La sede del gruppo fu allestita in un locale di proprietà dello stesso Franco, in una palazzina ad angolo di via "dei Coronari".
Ricordo alcuni dei nomi di quelli che, con Franco, composero il primo nucleo del Gruppo: Lucio Valerio, Sandro Barghini,….Mascari, Pierpaolo Selleri, Carlo Bellecci ed io, Nino Conte.
Le due attività, paracadutismo e speleologia, si integravano perfettamente. La grotta ripeteva quello stesso senso di libertà e di conquista che ci veniva dato dal cielo aperto quando si abbandonava l’aereo. Franco indossava nei lanci la stessa tuta che usava in grotta, e, con quella sua versatilità a commentare con ironia ogni esibizione di autorità, ne aveva decorato i polsi con fantasiosi gradi dipinti in nero.
Ritenendo funzionale alla speleologia una conoscenza delle tecniche della roccia, frequentammo un corso di Arrampicata organizzato dal CAI sul Morra, e continuammo ad andare in grotta e ad allenarci: l’Inferniglio, Pastena, la Grava di Zazzano sul Gargano, l’inghiottitoio di Luppa. Ma si parlava anche, e ovviamente, di altre grotte: di Pietrasecca, dell’antro del Corchia, dell’abisso della Preta, del Gouffre Berger, e, soprattutto, del Bussento.
Intanto sul versante del Paracadutismo, Franco, Carlo ed io avevamo iniziato il corso per i lanci ad apertura comandata: c’era ora l’emozione nuova e più ricca della caduta libera.
Nostro istruttore era Sauro Rinaldi che aveva al suo attivo un primato di caduta da alta quota: 8000 metri.
Questa nuova esperienza non distrasse il nostro interesse dalla Speleologia: incominciavamo invece a pensare a qualcosa di più significativo rispetto alle attività aventi prevalentemente carattere di "scuola", finora svolte, e il Bussento ci sembrò l’occasione più opportuna.
Una pubblicazione curata, credo, dal CSR, risalente però a tempi che precedevano la costruzione della diga a monte dell’inghiottitoio, ci aveva dato le prime informazioni sull’ordine di grandezza delle difficoltà, e quindi sul modo in cui attrezzarci e allenarci per affrontarle. A poco a poco, il Bussento diventava nella nostra immaginazione la prova con cui misurarci.
Ritenemmo opportuna una esplorazione preliminare, e in tre, Carlo, ***, e io, ci recammo sul posto. Ci rendemmo così conto della presenza dei lavori per la diga e quindi della mutata situazione, che, per di più, era in via di evoluzione. L’estate del ’59, da cui mancavano appena i mesi della primavera, pareva offrire un tempo possibile per agire.
Intanto volgeva al termine il corso per i lanci ad apertura comandata: il 4 aprile 1959 era il giorno dell’ultimo lancio del corso e sia Franco sia io eravamo nel turno. Ci incontrammo sul piazzale di San Lorenzo e prendemmo il pullman per Tivoli, e poi, in auto-stop, dal bivio per Guidonia all’aeroporto.
Nel viaggio parlammo del Bussento, discutemmo del materiale più adeguato all’escursione, delle mute da usare: quelle in foglia di gomma, completamente stagne, e quelle in neoprene. Franco disegnò con un tratto sottile di matita su un suo biglietto da visita, che conservo, le parti delle tute in neoprene.
Parlammo soprattutto del Bussento; qualche accenno soltanto al lancio, appena per commentare che nel lancio precedente due corsisti, venendo giù da 1500 metri, avevano aperto verso gli 80 metri. Dissi che ritenevo il fatto null’altro che una sciocca bravata.
Arrivammo al campo e ci si preparò per il lancio. Erano disponibili due tipi di paracadute: il vecchio ed ottimo D-54 stellare italiano, usato in Aeronautica durante il conflitto, e un paracadute di fabbricazione tedesca, più moderno, che, con la sua sezione triangolare, proponeva forme che si incominciavano a sperimentare come più adatte ad essere manovrate e dirette.
I due tipi disponibili, entrambi altamente affidabili, differivano ancora per qualche altro particolare: per l’imbragatura, dorsale nell’italiano e spallare nel tedesco; per l’apertura: rapidissima nell’italiano, più lenta nel tedesco. Sia a Franco, sia a me toccò il tipo tedesco. Io lo accettai perché lo preferivo essendo meno violento il suo strappo di apertura, ma Franco insistette perché il suo paracadute venisse sostituito con quello italiano.
Completati i preparativi, ci fu la fotografia di fine corso, tutti insieme, i quindici di quell’ultimo turno, e, con noi, il nostro Sauro Rinaldi. Ci si avviò all’aereo: era il vecchio SM82, trimotore che conoscevamo già dai primi lanci ad apertura automatica e che amavamo. Salimmo alla quota di lancio, 1500 metri, da cui una caduta di quindici secondi ci avrebbe portato alla quota di apertura: 400 metri.
Si usciva , uno alla volta, in gruppi di tre. Franco ed io eravamo nello stesso gruppo: io ero primo nell’ordine, Franco il terzo. Avvicinandoci alla porta mi voltai per salutare Franco che aprì le braccia per dirmi che sarebbe uscito ad "angelo".
Era questa una uscita ed un assetto di caduta che, opponendo più resistenza all’aria, consentiva una velocità di discesa meno elevata. Io preferivo un’uscita più semplice e meno spettacolare: a tuffo, con la testa in giù, le mani conserte... di cui una sulla maniglia... e le gambe all’aria, tese e divaricate per rendere stabile la caduta. La preferivo, questa uscita, anche perché riduceva il tempo di esposizione alla scia di turbolenza mossa dai tre motori dell’aereo; naturalmente la velocità di caduta era più elevata.
Uscimmo in rapida successione. Osservai come al solito i piedi contro le nubi e, in giù, la linea dell’orizzonte che oscillava, e che poi, per un ovvio effetto prospettico, prendeva a dilatarsi. Era una indicazione che la terra si avvicinava e che la quota di apertura era prossima.
Tirai la maniglia e lo strappo di apertura mi riportò dritto; su di me vidi la bianca e rassicurante vela di seta del paracadute. Mi girai attorno cercando Franco. Non lo vidi, ma guardando in giù vidi appena aprirsi una macchia bianca contro il verde dell’erba e poi afflosciarsi.
Ci ricompattammo e realizzammo la prima escursione del "dopo Franco". Sapevamo di una cavità sui Monti Lepini non ancora esplorata e registrata; ci proponemmo di dedicarla a Franco Consolini, alla sua memoria.
Ubicammo la cavità. Ricordo la prima escursione, arrancando lungo i versanti nord dei monti ancora coperti di neve, e l’esplosione di primavera che ci accolse quando ci affacciammo sul versante sud di quegli stessi monti, verso la pianura Pontina, con la neve completamente scomparsa.
Vi tornammo con ottanta metri di scalette (non le Azario, naturalmente, ma altre, leggere, con i pioli di alluminio, che avevamo imparato a costruire). Ma gli ottanta metri non bastarono a portarci, in un unico salto, nel fondo della cavità: una sorta di pozzo fusiforme della profondità di una novantina di metri. Tuttavia il primo passo era fatto: una grotta che volevamo tutta nostra, del nostro Gruppo, quasi alle porte di casa.
Ci saremmo tornati, ma continuammo a pensare al Bussento.
Fu merito di Carlo aver iniziato e curato i contatti con lo Speleo Club Roma e realizzato la fusione tra i due gruppi. Nell’estate del ’60 eravamo insieme al Bussento.
E con lo Speleo Club l’abisso dei Monti Lepini divenne "L’Abisso Consolini".
© 1999 di Nino Conte.
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