Per chi già sa... ed ama ricordare
Per chi ancora non sa... ed ama sapere
di Alberta Felici
1. La Protostoria
Tutto ebbe inizio nell’autunno del 1958: mi iscrissi alla SUCAI di Roma per frequentare il corso di arrampicata su roccia ed ebbi la fortuna di avere come istruttori i mitici Dado Morandi, Carlo Alberto Pinelli, Paolo e Sergio Consiglio, Franco Alletto, Gigi Mario, Franco Dupré, Pino Marini, Franco Gravina, Enrico Leone, ... - ed altri ancora dei quali ora mi sfugge il nome, ma non ho dimenticato i loro volti e tanto meno la loro paziente dedizione - ed essere allietata dalle stupende ballate di Giovanna Salviucci (ora nota e famosa col nome di Giovanna Marini) che, accompagnata dal suo liuto, ci rendeva la marcia di avvicinamento alle pareti molto più lieta e gioiosa.
La montagna mi entusiasmava: mi prese così fortemente che iniziai a passare molti dei miei giorni liberi ad allenarmi nell’allora unica palestra di roccia romana, le pareti del M. Morra poste a contorno del Conventillo, aspettando le rare occasioni (a quei tempi la Via Salaria era un budello e per raggiungere l’Aquila bisognava "superare" il passo delle Coronelle. E poi ... chi riusciva ad imbucarsi nei pochi posti macchina a disposizione?) per completare il tutto con bellissime e più impegnative arrampicate sul Gran Sasso, sognando di poter quanto prima appoggiare le mie mani sulle vere pareti, quelle delle Alpi.
Fu proprio in questi luoghi che alcuni altri frequentatori, tra i quali Giorgio Pasquini e Gianni Negretti, cominciarono a parlarmi di uno strano mondo sotterraneo ma, per esplorarlo, bisognava vestirsi "adeguatamente": tuta blu da meccanico, però con bottoni (se no, la chiusura lampo quale Santo la farà scorrere dopo che si sarà impastata di fango?) o una mimetica da militare, stivali di gomma (ma il numero 36 dove lo si trova?), elmetto in testa con frontale elettrico, lampada a carburo in mano, corde, scalette e ... tanta voglia di faticare prima scarpinando in montagna, fuori dai bei sentieri degli alpinisti, per trovare poi e percorrere le eventuali cavità reperite.
Per circa un anno tutte le buone intenzioni dei miei amici "speleologi" non fecero breccia nel mio "puro e duro" cuore di montanara (!), perché nell’estate del ‘59 la mia meta agognata era la vetta del Signore delle Alpi: il Monte Bianco.
Mi sono persa qualcosa? Siii!.. La combriccola dello SCR finisce di esplorare l’Inghiottitoio di Luppa. Mica male: ottimo lavoro; ma calpestare la candida neve del Bianco a 4810 metri di quota ...! 20 Agosto: sono in vetta!.
La punizione che ebbi fu che Luppa la conoscerò completamente solo a settembre del 1969, durante una uscita programmata appositamente per festeggiare il decennale della prima esplorazione, unitamente a quello della fondazione.
Ritornata a Roma, sazia ma non doma, eccomi pronta ancora una volta a rintuzzare le avances degli ormai amici speleologi; però loro, subdoli, la prima uscita del 1960, sapete dove la programmano? In montagna: la Via della Cengia alla Serra di Celano, il 6 gennaio (ormai mi hanno agganciato: volente o nolente sono indegna socia dello SCR).
Siamo in dieci, alcuni esperti ed altri invece novellini; la parete è molto innevata ed in alcuni punti anche ghiacciata, per cui decidiamo di dividerci in quattro cordate: Negretti – Bachechi – Trigila; Pasquini – Sinibaldi – Licitra; Bertolani – Iannaccone; Bertolini – Felici.
Iniziamo l’ascensione alle 9,30; le giovani reclute, tutte di estrazione universitaria e matricole appena iscritte a Geologia (ben spalleggiate da Giorgio oggi più in vena del solito) ridono e scherzano, fortunatamente solo quando sono in sosta tra una tirata e l’altra della arrampicata. Si sfidano a mandare più lontano possibile cose che vengono eiettate con la bocca; Giorgio, invece, cerca di infastidirmi quando sono prima di cordata, perché ama sentirmi sproloquiare come uno scaricatore di porto (ma non in modo esagerato!); Italo, signorilmente, rimprovera tutti; intanto percorriamo la via e raggiungiamo la vetta per la cresta che parte dall’anticima, per poi riguadagnare la valle per la via normale.
A quei tempi i soci dello SCR erano anche buoni alpinisti che avevano frequentato il corso di arrampicata, e, quasi tutti erano anche soci del CAI di Roma; alcuni, poi, espleteranno il servizio Militare nel Corpo degli Alpini.
Poi viene il 10 gennaio, è Domenica: che cosa preparano per il mio battesimo speleologico? C’è una piccola voragine a Pian delle Faggeta, sopra Carpineto Romano: l’Ouso dell’Acquicciola, che sprofonda nelle viscere della montagna per circa 50 metri.
Come ci si cala? A corda doppia: si, con la tecnica di corda doppia ma su corda singola e assicurati dai compagni con un’altra corda. Fin qui nessun problema, ma per risalire non pretenderete che si usino i Prusik! No, no, ci sono le scalette. E come sono fatte, come si usano? "Non ti preoccupare, capirai tutto al momento opportuno".
Con Pian delle Faggeta è "amore" a prima vista: mentre lo percorriamo per raggiungere l’imbocco della grotta si ride, si scherza, ma nel mio intimo una vocina petulante continua a ripetere: "che ci fai in mezzo a tanti Geologi e Geografi, tu che ti intendi solo di Fisica? Questi parlano di rilievi, di campionamenti, di posizionamenti, ... Comunque, tanto vale provare, al massimo farò una figuraccia e così capiranno e mi lasceranno tranquilla alle mie arrampicate". Ma, tutto sommato, anche la discesa in una grotta è interessante e la compagnia pure ...
Il richiamo delle verticali, che però svettino verso il cielo azzurro, è ancora una volta predominante e l’allenamento per l’estate Alpina ricomincia. Quest’anno, siamo nel 1960, l’accantonamento estivo si terrà sulle Dolomiti e non sto più nella pelle. Sogno di palpeggiare per un mese intero le rocce e le vertiginose pareti delle Dolomiti. E così fu: Catinaccio, Sella, Pordoi e dulcis in fundo le spettacolari Cime di Lavaredo sono testimoni dei miei modesti exploits. Posso ritenermi soddisfatta: ho avuto come compagni di cordata per alcuni giorni Gianni Negretti e Raffaello Trigila dello SCR, poi altri di Milano, Venezia, Varese, Bologna, conosciuti sul posto, ma non per questo dimenticati.
Che cosa mi sono persa, però? Solo il campo estivo a Caselle in Pittari: il Bussento, Orsivacca e Bacuta, Morigerati ... grrrr...
E per conoscere il Bussento e … dintorni dovrò attendere l’estate del 1963. Ma questa è un’altra storia!
A Novembre lo SCR decide di tenere il 1° Corso di introduzione alla Speleologia: inizio la mia vera vita speleologica collaborando tra gli istruttori alle varie uscite. Forse comincio a capire che cos’è la Speleologia, che significa associazione e affiatamento, perché le varie uscite portino a buoni risultati. La decisione è presa anche se sofferta: chiudo con un’attività alpinistica di piena soddisfazione ma che non è facile continuare intensamente abitando a Roma, allora così "lontana" dalle vere montagne.
2. La Storia
Il 1961 è un’annata che darà ottimi risultati. Gli amici del Gruppo Grotte Roma hanno deciso di fondersi con noi e portano in dote un gioiello unico: un abisso che verrà dedicato alla memoria di Franco Consolini, loro socio fondatore, malauguratamente deceduto durante un lancio con il paracadute, sport che accomuna tutti gli appartenenti a questo Gruppo.
Ecco come viene annunciata la prima uscita in comune:
ESPLORAZIONE DELL’ABISSO CONSOLINI (MONTE SEMPREVISA)
Con l’esplorazione di questo pozzo si intende celebrare l’unione dello Speleo Club Roma con il Gruppo Grotte Roma, che verrà sancita ufficialmente nell’Assemblea Generale dello SCR del 22 Gennaio 1961 |
Questo è un esempio dei proclami - editti che Giorgio Pasquini emanava ogni volta che ci accingevamo a programmare una qualsiasi spedizione che superasse una giornata.
Ed ecco la relazione conclusiva delle due giornate:
GROTTA - Abisso Consolini
Il Capo Squadra – Giorgio Pasquini |
L’esplorazione dell’Abisso Consolini sarà il leit motiv che accompagnerà le uscite del Gruppo, purché possano essere protratte per più di un giorno.
E’ la Pasqua che ci prepara una gradita sorpresa: avremo a disposizione un automezzo militare che ci permetterà di raggiungere Carpineto Romano e verrà a riprenderci ad esplorazione compiuta.
Giorgio, Capo Spedizione indiscusso, emana il suo solito proclama: si partirà il 31 marzo e si ritornerà il 3 aprile. E così…non sarà: l’automezzo ci preleva solo alle 8 della mattina del 1 aprile dalla nostra sede in Via della Madonna dei Monti 2, e ci scarica a Pian della Faggeta con una montagna di materiali, fra cui anche 60m di "Azario". Il tutto, esclusi gli zaini personali, viene caricato su due pazienti e sfortunati (non si può dire però che siano più sfortunati di noi poveri speleologi) muli, e si inizia a salire verso la cresta, per guadagnare la quota dell’imbocco dell’Abisso, a 1360m s.l.m. Lì giunti dovremo impiantare il Campo Base esterno.
Non siamo numerosi ma siamo "tosti" e abbiamo un altro vantaggio: tutti conosciamo già la "bestia". Siamo, infatti: Giorgio Pasquini, Gianni Stampacchia, Massimo Monaci, Lucio Valerio, Pierpaolo Selleri, ed io.
Armiamo il primo pozzo, poi ci mettiamo tutti intorno al fuoco. Nessuno ha voglia di andare a dormire in tenda; la prima notte siamo tutti fuori a goderci il cielo incredibilmente stellato. Arriva l’alba e un sole sufficientemente tiepido ci fa mettere in moto.
Scendiamo Gianni, Massimo, Lucio ed io; armiamo con altri 90m il pozzo successivo, ma il nostro intuito, misto anche a desiderio e speranza, ci dice che non saranno sufficienti; Lucio non ha voglia di scendere ancora, perciò facciamo alla conta: tocca a Massimo. Gianni si mette a cavalcioni, autoassicurato come meglio può, sul diaframma che divide la seconda verticale dal fondo del primo vasto salone, Lucio in piedi vicino ai chiodi comanda la corda ed io in controsicura più arretrata.
Massimo si ferma spesso, ed è comprensibile; la corda di sicura struscia in molti punti ed è, quindi, quasi impossibile sentire il peso della persona per capire quando si deve tenere e quando invece mollare; per giunta, si comunica anche male.
Questa volta si deve per forza scendere sulle scalette, e 80m sono tanti!!!. L’attesa comincia a diventare spasmodica, sia per noi che per gli altri fuori, perché ancora non abbiamo notizie certe; il tempo passa, fin tanto che una vocina fioca fioca arriva alle nostre orecchie: "sono su una cengia e non vedo niente, né sopra, né sotto, né avanti. Le scalette sono quasi finite; ora mi riposo un po’, poi risalgo".
Il "riposo" si protrarrà a lungo e quando, finalmente, lo vediamo riemergere ha solo la forza di dirci: " Rega’ io st’artri novanta metri me li faccio cor ciufolo!". Dopo un veloce consulto, Gianni ed io decidiamo di rimanere con lui e pernottare a –91m, mentre Lucio uscirà per rassicurare gli altri e mandare giù l’occorrente per bivaccare.
E’ indescrivibile riportare con scarne parole come ci si senta, immersi e sperduti in quell’immenso salone, sapendo di essere nel cuore della montagna. Cerchiamo di capire quale possa essere il luogo meno pericoloso e meno esposto ad eventuali scariche di sassi, cercando di illuderci che ciò sia possibile.
Finalmente ci mettiamo d’accordo (!?) poiché ci rendiamo conto che un posto vale l’altro; tiro fuori il mio fornelletto ad alcool e riscaldiamo ciò che è possibile velocemente, perché Massimo ha bisogno di qualcosa di caldo e tende continuamente a cadere in torpore.
Siamo ora tutti e tre nei nostri sacchi-letto; Massimo ormai dorme, ma io, come al solito stento a prendere sonno e allora decido di tirare fuori dallo zaino il libro di poesie di Baudelaire " Les fleurs du mal" e comincio a declamare a voce spiegata alcune poesie, sperando che l’entità che mi ospita gradisca, e amorevolmente (proprio perché … nun ne po’ piu …) mi scaraventi in braccio a Morfeo.
Massimo, imperterrito, continua a dormire; Gianni, sorridendo, continua a sopportarmi; gli altri di fuori, accampati sul pozzo esterno si chiedono perplessi se sia uscita di senno, finché Giorgio, che ha già sperimentato le mie "mattane" afferra alcune parole, e capisce tutto: sa che sono nel periodo dell’innamoramento dei cosiddetti "poeti maledetti", e quindi si riaddormenta tranquillo. Io, invece, no!
Il mattino seguente arrivano a dare man forte, per il recupero sia di uomini che di materiale: Carlo Bellecci, Giancarlo Costa, Roberto Pastina e Lamberto Laureti. Avevamo iniziato le operazioni alle ore 10 del 2 aprile e le chiudiamo alle ore 16 del giorno 3 disarmando tutti e due i pozzi.
Attenderanno l’arrivo del camion militare solo Giorgio, Lamberto, Gianni e Pierpaolo. Possiamo ritenerci soddisfatti del lavoro svolto, ma abbiamo ormai l’assoluta certezza che solo il campo estivo, forse, ci permetterà di mettere la parola fine all’esplorazione; non è che ci dispiaccia, però…che fatica arrancare ogni volta fino all’imbocco, carichi fin quasi all’inverosimile!!!
Abbiamo ancora un’occasione, prima che arrivi agosto, per riprovare e cercare di sapere quanto è effettivamente profondo questo maestoso secondo fuso, che non incute paura, ma tanto rispetto e …soggezione.
Il 23 aprile rispondiamo all’appello: Pasquini, Stampacchia, Monaci, Gui, Cavanna, Puca, Intini, Valerio, Polidori, Selleri ed io.
Questa volta è tutto molto più complicato, a cominciare dal viaggio (alcuni raggiungeranno Carpineto in autostop!) per poi continuare con il tempo: si passa da una pioggia torrenziale, battente, per tutto il primo giorno e maledettamente insopportabile, alla neve della prima notte, a piovaschi intervallati da nebbia (se così vogliamo chiamarla; in verità sono le nuvole cariche di pioggia che salgono dalla pianura Pontina)………e a me "stavorta me tocca da rimane’ de fori"…..!
Arriviamo in quota dopo quattro ore di marcia infernale, ma, per fortuna, eravamo riusciti ad allettare, con una lauta offerta, il solito mulattiere che, sparolacciando ad ogni passo, disperandosi perché rientrerà tardi a Carpineto, minaccia ad ogni pie’ sospinto di mollarci a metà strada.
Abbiamo portato un mostro di tenda da dieci posti; i sostegni sono pali quadrati di 5cm di lato; i teli sono cinque lenzuoloni di tela mimetica e, per congiungerli bisogna "abbottonare" (proprio così: infilare centinaia di bottoni in asole apposite), i quattro teli a quello che fa da tetto, poi i teli l’uno con l’altro.
E intanto la pioggia torrenziale, accompagnata da violente e continue raffiche di vento, oltre che essere penetrata fino alle ossa, ci ghiaccia le dita in modo tale che, anche sostituendoci vicendevolmente, non riusciamo ad abbottonare più di una decina di elementi alla volta. Siamo quasi all’esasperazione, ma non intendiamo rinunciare: era stato deciso che la tenda sarebbe stata piazzata sulla … spianata davanti all’imbocco, e così sarà.
Ci vuole un bel coraggio per definire "spianata" quella, ormai acquitrinosa, discesa che stiamo calpestando da più di un’ora, però abbiamo quasi vinto. Rimane solo un piccolo, piccolissimo dettaglio: la tenda non ha il catino, quindi l’acqua la percorre formando tanti rivoli. Nessuno ha pensato di portare una pala, però abbiamo l’accetta: si cerca così di creare un solco tutto intorno, ma non c’è niente da fare, l’acqua che arriva è troppa.
Come anticipato, la tenda può ospitare solo dieci persone, e siamo undici. Precisiamo: dieci "omaccioni" e una piccola "donna" che, per giunta, non è stata imprevidente: si è portata il materassino gonfiabile. Decisione presa … non all’unanimità (potete ben dedurre quale era il volo contrario ): "Alberta dormirà di traverso in fondo, in parole più chiare, ai nostri piedi".
Ma chi ospiterà Cavanna nel sacco a pelo, dato che il suo è rimasto all’asciutto ma a casa? Credo che fu solo la bontà di Gianni a derimere la spinosa questione; quello che ricordo benissimo è che continuavamo a svegliarci ogni qualvolta uno di loro cominciava a tremare e tutti piano piano lo imitavano (non per simpatia!), mentre io beatamente galleggiavo sull’acqua che, non ho ancora capito perché, tendeva ad accumularsi dove ero distesa. Il materassino, però, mi ha salvato anche dal prendere parecchi calcioni, non so ancora se dati per invidia, o solo perché tutti e dieci continuavano a scivolare a valle, cioè verso il mio giaciglio.
Come già anticipato il mio compito sarà all’esterno con Massimo ed uno dei nuovi; Giorgio ed altri due resteranno a –91m ; Gianni con un altro forte raggiungeranno la ormai battezzata "cengia Monaci" per tentare di raggiungere il presunto fondo.
Ma ora viene il bello! Abbiamo solo 110m di scale e dobbiamo affrontare un dislivello di almeno 250m.
Credo che fra poco capirete perché eravamo reputati pazzi scatenati, non solo perché avevamo l’ardire di scendere a "corda doppia" salti, anche di 100m! Noi, invece, ci reputavamo solo all’avanguardia; giovani spavaldi, impavidi, con molto sangue freddo ma, comunque, assolutamente e completamente raziocinanti, con desiderio, e, spesso con necessità, di sperimentare nuove tecniche e trucchi che ci permettessero di fare cose che non ci saremmo potuto permettere per più di una ragione . Le due più importanti?: soldi e fatica! Soldi per comperare l’occorrente con cui costruire le scale; soldi per comperare le corde; fatica durante le marce di avvicinamento nel trasportare materiale, non posso sinceramente dire non necessario, ma quasi superfluo sì.
In breve, abbiamo 110m di scale, 100m di corda da sicura e…200m di "sagola" da usare come richiamo. Procederemo così: tutti, tranne Massimo, Puca ed io, scenderanno il primo pozzo, dopo di che, noi sganceremo 90m di scale e le caleremo, con la corda e coadiuvati dagli uomini sul fondo, direttamente nella prima tratta del secondo pozzo, dopo caleremo anche la corda con la sagola. Gianni e Pietro Gui, raggiunta la cengia Monaci, riceveranno 80m di scale e la corda per scendere al fondo a turno. È tutto chiaro? Vi assicuro che è semplice e lineare: basta essere molto affiatati ed avere le persone giuste al posto giusto.
Tutto procederà a meraviglia; in sole dieci ore si raggiunge, finalmente, la massima profondità e tutti siamo fuori. La tensione si allenta; baci, abbracci, e complimenti per tutti; domani mattina disarmeremo, ora è solo tempo di farci una sostanziosa mangiata ed anche una bella bevuta. Ci sentiamo quasi imbattibili, abbiamo vinto una grande battaglia, ma dobbiamo ancora vincere la guerra; almeno altri tre fusi ci attendono. Il gigante della montagna è solo addormentato; lo abbiamo solo "rintronato", per dirla in romanesco.
Riassumendo, con soli 110m di scale e 100m di corda abbiamo superato, con armi successivi, il pozzo da 91m e quello da 80+53m, ossia un dislivello complessivo di 233m. Bella impresa o no?
Arriva agosto e, con esso le ferie e due enormi camion militari per trasportate materiali ed uomini al Pian delle Faggeta in quel di Carpineto Romano. Abbiamo dieci giorni ed abbastanza persone per poter svolgere un buon lavoro. Angelucci, Befani, Camponeschi, Felici, Mainella, Maniscalco, Negrini, Pasquini, Pastina, Ribacchi, Sarno, Sinibaldi, Stampacchia, Toro, Trigila, Bellecci, Selleri, Valerio, Mariani, Nolasco, Severa, Bertolani. Sono nostri ospiti Biardi e Turco della Società Adriatica di Scienze Naturali di Trieste; Fernandez e Ugarte di Bilbao; abbiamo anche un Granatiere in prestito che si occuperà delle radio che ci permetteranno di tenere contatti ad intervalli di un’ora tra il Campo Base posto sui prati vicini a Pozzo Comune e la squadra esterna, posta all’imbocco del Consolini.
Il primo giorno è dedicato al montaggio delle varie tende, della cambusa, dell’angolo preposto per la cucina, dei tavoli per la refezione e per una sorta di segreteria (la macchina da scrivere per preparare gli ordini del giorno e per fare subito le relazioni giornaliere, ai contatti con le Autorità del luogo e con e varie persone che dovranno approvvigionarci di alimenti freschi in quantità sufficiente. Il Sindaco e il Maresciallo dei Carabinieri vengono a trovarci, portandosi dietro, oltre che i vari notabili del luogo, anche un codazzo di ragazzi, un po’ di graditissimi fiaschi di vino locale e svariati chili di pasta.
Sono con noi anche un giornalista di "Paese Sera" Mannoni ed il fotografo Pais, che pubblicheranno, giornalmente, pezzi e foto su ciò che facciamo. Un paio di giorni dopo il fotografo verrà portato a – 91m, perché il suo capo vuole foto d’azione e, vi assicuro, si comportò benissimo.
Non vi annoierò descrivendo tutto ciò che facemmo giorno per giorno; sarebbe lungo e tedioso. Mi soffermerò di più a raccontare la vita e le situazioni tragi-comiche che si avvicenderanno.
Il primo problema ce lo procurò il verricello; era stato portato fino all’ingresso da tre uomini: uno caricava il treppiede, un altro il rullo, un altro ancora i 300m di cavo d’acciaio. Nel momento in cui si comincia a trasferire il cavo sul verricello, tutto si ingarbuglia; e allora si vedono una decina di persone che, passo dopo passo, nel tentativo di sbrogliare un malloppo di cavetto armonico raggiungono la sella tra Monte la Croce e il Monte Erdigheta, dando ad ogni passo un nome particolare ed irripetibile; alla fine si grippa anche una bronzina e … si manda tutto al diavolo. Alcuni, previdenti, cominciano a coniare improperi da subito, anche per aiutare coloro che avranno la sventura di doverselo ricaricare al ritorno.
Così si perde il primo giorno; l’unico lavoro utile è stato aver portato il cavo telefonico fino al fondo della prima verticale. Il mio impegno, invece, è stato divertente: sono riuscita a portare la bandiera tricolore sull’alta chioma di un maestoso faggio affinché la si veda dal Campo Base; il Gagliardetto dello SCR, Pipistrello bianco in campo nero, questa volta sventola al centro delle tende a Pian delle Faggeta.
Il giorno seguente, 24 agosto, si torna ai vecchi e più sicuri metodi: discesa del primo pozzo a corda doppia. Supportati da Pasquini e Biardi sulla cengia a – 170m, Stampacchia e Trigila calpestano il fondo intorno alle 18,30 e controllano per eventuali prosecuzioni. Intanto si alternano a – 91m Toro, Sinibaldi, Turco, Ugarte e Fernandez. Viene fatto scendere anche il fotografo Pais, che immortala la lapide posta all’inizio dell’anno per dedicare la grotta a Franco Consolini e scatta altre foto che userà per il prossimo articolo che Mannoni scriverà per il Paese Sera. Pur avendo deciso di lasciare tutto armato, prevedendo di fare il rilievo già domani, l’ultimo uomo esce che sono ormai le 23,30.
Il mattino dopo, 25 agosto, si lascia il campo con qualche ora di ritardo, in deroga all’ordine del giorno; il compito di fare il rilievo e la campionatura viene dato a Befani e Nolasco; l’appoggio alla cengia Monaci è affidato a me ed a Fernandez.
Dovendo far trascorrere le lunghe ore relegata su quella cengia, credo di aver fatto ascoltare a Fernandez tutto il "mio repertorio": canti di montagna, inni a Roma, al Sole, il Nabucco, brani di opere di personaggi sia femminili sia maschili, duetti ("imito!?" voci di tenore, baritono, basso, soprano, mezzosoprano, contralto; mi diverto e faccio divertire, tanto il tempo non mi manca) Ho messo il naso, e quando possibile me stessa, in tutti gli anfratti raggiungibili (purtroppo pochi). Non so cos’altro sarei riuscita ad escogitare per ingannare l’attesa quando le voci di Gianni Befani e Franco Nolasco annunciano che sono pronti a risalire. Allerto, con il telefono che era stato portato fino alla cengia, sia la squadra che attende a –91m che aveva lavorato ad uno dei pozzi paralleli e che, ormai, si è ridotta solo a Trigila e Sarno, sia la squadra d'appoggio esterna anche essa ridotta e composta da Pasquini e Stampacchia.
Tutto procede come previsto fino a quando un qualche diavoletto decide di metterci lo zampino. E se invece fosse il folletto custode e padrone della cengia che, memore della mia notte passata a – 91m, invidioso, vuole anche lui prolungare la mia visita per un’altra notte per godere ancora della mia compagnia? No, forse ha solo "non" gradito i canti, le esibizioni della lunga giornata e vuole ricompensarmi mettendo alla prova la mia pazienza. Ho capito, sa che amo le sfide e tutto ciò che esse comportano: bene, accetto, tanto non ho alcuna possibilità di scelta! Iniziamo la battaglia per riguadagnare l’uscita, 170m più in alto!
Abbiamo avuto il primo piccolo intoppo nel recuperare il sacco del materiale e dei campioni e che mi ha costretto "solo" a rilanciare le scale verso il fondo, e non "anche" a scendere i 53m; comunque Befani e Nolasco sono anche loro sulla cengia. Nolasco inizia ora a risalire la tratta degli 80m; ha la corda di sicura tenuta con un moschettone al cordino che porta legato in vita, e una seconda corda, che verrà filata da noi man mano che si allontanerà verso l’alto; finita la salita le due corde verranno moschettonate insieme, affinché dal basso si possa recuperare la corda di sicura che, altrimenti, non potrebbe più raggiungerci.
Ho ancorato l’ultimo gradino delle scale alla mia vita, sperando che, così, tutto fili più liscio, cioè mi auguro che, anche se la persona, salendo, dovesse fare dei giri intorno alle scale, tenendo le due estremità divise e fisse, la corda di richiamo ritorni giù bene libera. All’improvviso mi sento tirare verso l’alto, prendo il telefono e avviso i due che sono alla sicura; Nolasco prova a ridiscendere di alcuni metri più volte: niente da fare, la situazione è sempre la stessa.
Dopo vari "tira e molla" mi arriva "l’ordine" di mollare scale e corda; io oppongo un netto rifiuto, perché so che, se le lascio, resteremo isolati fino al giorno seguente. Interviene Pasquini dall’esterno per cercare di convincermi, ma io, caparbia, non ho alcuna intenzione di ubbidire se non mi promettono di tentare di risolvere "subito" il problema almeno per poter pernottare a – 91m. So benissimo che la realtà sarà diversa; so anche che i miei amici tenteranno, nel limite del possibile ma la nostra sorte è già segnata: saremo costretti a bivaccare su questa maledetta cengia senza cibo né bevande, senza poterci riparare dal freddo, poiché siamo entrati in grotta non sufficientemente coperti da poter affrontare tante ore di inattività, per giunta su uno spazio così limitato, senza poter trangugiare bevande calde (ma neanche fredde!). Sto per finire anche le sigarette! Grrrr!
Alla fine debbo arrendermi all’inevitabile: sono costretta a lasciare andare verso l’alto scale e corde; siamo anche fortunati, poiché ci resta il telefono (bella consolazione!); intanto Nolasco ha raggiunto la sommità del pozzo, portandosi dietro un’enorme malloppo costituito da almeno 50m di scale, altrettanto di corde e cavo telefonico. Il peso è tale che non riescono a fargli superare la cresta franosa da cui ha inizio il pozzo, per poter lavorare comodi e a più mani; hanno paura ad insistere più di tanto, perché sanno che siamo molto esposti e temono di scaricarci addosso tutto ciò che verrebbe mosso se si trascinasse quella matassa informe sullo scivolo franoso. È assolutamente necessario dipanare il groviglio nel vuoto.
Trigila prova a lavorare appeso sui pochi metri di scale ancora ben posizionate, assicurato dagli altri due, che però non possono collaborare in alcun modo; tenta per più di mezz’ora, ma non c’è niente da fare; quantunque sia ben assicurato può lavorare con una mano sola; bisognerebbe riscomporre prima di tutto le scale spezzone dopo spezzone, filare i 200m di corde per liberarle dal cavo telefonico, dopo di che, uno di loro dovrebbe scendere il salto per raggiungerci. Basta, si deve rinunciare, altrimenti si rischia di provocare qualche incidente; siamo troppo stanchi , pochi e scarsi di materiale non impegnato. L’appuntamento viene concordato per domani: quando? Il più presto possibile nei limiti del recupero degli uomini. Buonanotte!? Bellecci e Selleri saranno i nostri angeli custodi all’esterno.
Non posso, quindi, asserire di aver gradito il lento trascorrere delle ore; abbiamo tentato di addormentarci, ma in un primo momento ci terrorizzò l’idea che, nel sonno, potessimo rotolare lentamente e cadere nel vuoto. Decidiamo così di fare una ghirlanda con una scale e dei cordini per poterci auto-assicurare e, sdraiandoci vicini sullo stesso fianco, cerchiamo di dissipare meno calore possibile. Chi, per turno, è al centro, riesce a riposare un po’ meglio, fin tanto che uno degli altri due comincia a tremare; allora si entra tutti e tre in risonanza e ci si sveglia di nuovo. Dopo qualche saltarello battendo piedi e braccia, qualche improperio e alcune barzellette (non freddure, per carità!), si cambia fianco e posto nella catena e si riprova a prendere sonno.
Ricorderò solo quando, l’indomani, sarò fuori che quella notte si sarebbe dovuta verificare una eclisse lunare; così è stato, ma noi siamo ritornati alla luce del sole il giorno dopo nel pomeriggio. Potete ben immaginare gli sberleffi che si "beccò" Giorgio Pasquini quando, appena ritornati al campo davanti a Pozzo Comune a pomeriggio inoltrato, leggiamo sull’ordine del giorno di "quello stesso giorno": Felici, Fernandez, Befani, Trigila, Nolasco e Sarno sono obbligatoriamente in riposo (vietato allontanarsi dal campo). Il perché, comunque è chiaro: la situazione creatasi in grotta il pomeriggio precedente ha fatto saltare tutti i programmi all’ordine del giorno per il 26; Pasquini era stato troppo ottimista, sperando di tirarci fuori nelle prime ore della mattinata. La trappola che era scattata ha continuato a spargere trabocchetti a catena ma, sono stati tutti neutralizzati, e … non solo per fortuna!
Il giorno 27 sono di servizio al campo, anche perché dovrò, in serata, ritornare a Roma ; debbo ricominciare a lavorare. Intanto una squadra è andata a disarmare il pozzo grande dalla cengia Monaci in su; un’altra composta da Bellecci e Turco, esplora e rileva il pozzo dell’Occhialone, già armato da Trigila due giorni prima.
Il 28 agosto sono presenti al campo, in rigoroso ordine alfabetico, Befani, Biardi, Cocozza, Fernandez, Mainella, Maniscalco, Mariani, Pasquini, Pastina, Selleri, Sinibaldi, Trigila, Turco, Ugarte, Velani, Valerio.
Scendono in grotta a quota – 91m Trigila, Maniscalco, Biardi, Turco, Mariani, Ugarte. Si tenta di esplorare tutti i pozzi che si dipartono, paralleli e affiancati al – 133m. L’Abisso Consolini, così, si arricchisce del pozzo dell’Occhialone (25m); del pozzo dei Triestini che scendendo per circa 85m, si riaffaccia, con un enorme finestrone sul pozzo di 133m, alla stessa quota della cengia Monaci, per poi continuare con due appendici: una di 12m, l’altra più complessa ed articolata raggiunge i 25m; del pozzo delle Cenge, che tramite scivoli e saltini, raggiunge i 33m e un altro enorme finestrone che lo congiunge al pozzo dei Triestini.
Non è facile descrivere la complessità del fenomeno; continuiamo a farci domande a cui, però, non siamo in grado di rispondere; siamo contenti del risultato ottenuto ma siamo, nello stesso tempo, insoddisfatti. Per ora non ci resta altro da fare se non disarmare la cavità.
Ma siamo davanti a Pozzo Comune, perché non fare una puntatina al fondo, dato che siamo in pochi ad averlo raggiunto e gli ospiti, ormai amici, gradirebbero molto? Così il giorno 29 agosto, mentre Valerio, Sarno, Nolasco, Turco, Severa vanno a finire di disarmare il Consolini, un’altra squadra composta da Pasquini, Selleri, Maniscalco, Pastina, Ugarte, Fernandez, armano l’inghiottitoio. Impiegano quattro ore per armare, lasciando sopra il secondo salto Pastina e sopra il terzo Selleri (verranno raggiunti anche da Camponeschi); usciranno, lasciando armato, in sole due ore.
Il giorno 30 alcuni ritornano al campo per festeggiare tutti insieme la riuscita dell’esplorazione; non ricordo bene come si cominciò a discutere del fondo di Pozzo Comune; qualcuno reputa che la squadra che è entrata il giorno precedente non abbia raggiunto il vero sifone terminale. Giorgio Pasquini si picca; fortuna o sfortuna volle che l’unica che avesse raggiunto il fondo la notte tra il 18 ed il 19 marzo (con Monaci e Stampacchia, perché Trigila era stato lasciato a farci sicura sul salto da 23m), fosse presente: io! Ricordo e dico che noi avevamo piantato sul pavimento un chiodo Cassin e vi avevamo legato un qualcosa di colorato.
"Bene", dice Giorgio, "andiamo a vedere". "Bene" ,rispondo io, "andiamo, però procederemo di conserva, senza portare corde". "Posso venire anch’io?" ribatte Fernandez. Giorgio ed io rispondiamo all’unissono positivamente. Indossiamo la muta in foglia di gomma della Pirelli, allora comincio a pentirmi di aver acconsentito, perché, dovete sapere che il mio numero di piede è solo 36, invece lo scarpino della muta, anche se piccola, ha il numero 43, perciò potrò indossare solo stivali numero 45. Maledizione a me ed alla mia boccaccia! Sapeste cosa vuol dire scendere e salire sui gradini, specialmente quando le scalette toccano la parete, con stivali che sono lunghi il doppio dei tuoi piedi! Non parliamo poi dello scivolo di fango che era la via che a quei tempi percorrevamo, per risparmiare dieci metri di scale!
Si parte; abbiamo assicurato che usciremo nel limite delle tre ore, ma ci siamo tenuti un buon margine in previsione di qualche intoppo che, fortunatamente, non si verificherà. L’unica parola che pronunceremo per tutto il percorso, con tre voci diverse, sarà: "arrivato" ogni volta che uno di noi lascia libera la scaletta. Siamo sempre in movimento; voliamo verso il fondo in meno di un’ora e altrettanto velocemente riusciamo. Il fondo è proprio il fondo.
E così, con nostro grande rammarico, termina il Campo del 1961 per l’esplorazione dell’Abisso Consolini, resta, però, da curiosare bene sul fondo. Domani mattina si smonteranno le tende ed aspetteremo i camion militari che verranno a riprenderci per riportarci a Roma, davanti alla nostra sede.
La grande avventura dell'Abisso Consolini, divenuto nel frattempo forse la più profonda grotta del Lazio, non è ancor oggi terminata: chissà quante altre generazioni di giovani speleologi vi si cimenteranno?
© 1999 di Alberta Felici.
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