Mezzogiorno di... (fate voi)
di Stefano Marinucci
 

Chissà perché non ricordo il suo nome? Era il 1978 o forse il 1979, (ho dimenticato anche l’anno), e mi apprestavo a calarmi per l’ennesima volta giù per i pozzi della grotta del Mezzogiorno con una squadra di allievi. Avevo strappato due interi giorni al lavoro per godermi questa uscita a cui tutti gli anni partecipavo con allegria, sia perché è una grotta dove "si scende per uscire", sia perché la salita notturna sulla montagna, il fuoco, il vino e le salsicce prima di entrare, le chiacchiere e le risate dei compagni di escursione creano una atmosfera quasi magica in cui si mescolano e si armonizzano gli spiriti austeri delle montagne e i tratti fauneschi di un baccanale, lasciandoti dentro quella sensazione di completezza di chi per un momento ha ritrovato dentro di sé il senso del cammino del genere umano.
    Capisco che la sto facendo un po’ troppo lunga e ampollosa, ma è importante che il lettore sia partecipe del mio stato d’animo. Per di più c’erano anche i miei figli piccoli, che sarebbero andati a vedere la grotta del Vento prima di raggiungerci all’uscita del Mezzogiorno. Sarebbe stata una bella giornata anche per loro, condividendo con papà il fascino misterioso del mondo ipogeo.
    E’, quindi, con questa anima lirica che faccio conoscenza con i miei compagni di squadra. Il mio vice è Vincenzo, simpaticissimo prodotto dei monti Lepini, infaticabile in grotta, ma naturalmente portato a tutti gli eccessi verbali e comportamentali. Poi ci sono gli allievi, due ragazzi e due ragazze giovanissime. Siamo la quarta squadra, ci sarà da aspettare un po' prima di entrare e, come succede sempre, si fa un po' di conoscenza intorno al fuoco, mangiando salsicce e bevendo. Guardo un po' stupito le due fanciulle perché non hanno l’aria delle speleologhe degli ultimi anni. Sono piccole, graziose, non devono rivendicare nulla contro il mondo, non hanno l’aria di maschi mancati, né quella delle femministe arrabbiate, non fanno altre attività pericolose, non urlano o dicono parolacce, anzi sono molto silenziose e infine, udite udite, sono amiche. Una delle due mi colpisce in modo particolare, perché è timida introversa, ha un aspetto fragile, sembra una cerbiatta ombrosa, costretta ad uscire dall’oscurità del bosco. Mi ispira un senso di protezione filiale e decido subito che andrà un po' protetta, anche da Vincenzo, vera forza della natura, ma della cui consapevolezza umana non ci si può fidare troppo. Mangiamo e beviamo intorno al fuoco aspettando il nostro turno; raccomando a Vincenzo di non bere troppo, ma so che è come dire al vento di non soffiare. Uno dei ragazzi è il fidanzato della cerbiatta e sembra un ragazzo sveglio. Quando arriva il nostro turno scelgo lui per andare per primo, poi la sua ragazza, poi io, gli altri due e infine Vincenzo.
    Nella strettoia iniziale cominciamo ad incontrare qualche piccola difficoltà; incastri di indumenti e posizioni sbagliate nei passaggi ci rallentano un po'. Sento dietro di me che Vincenzo, in cui l’ambiente della grotta innesca indubbiamente una regressione nella scala evolutiva sino ai suoi più antichi progenitori, ha iniziato a snocciolare il suo libro di litanie, cominciando da S. Adelio per proseguire con gli antenati di chi ha fabbricato il materiale e finire con i parenti di chi ha armato la grotta. Generalmente non ci preoccupiamo di queste cose, è il suo modo di vivere una esplorazione speleologica, ma gli allievi cominciano ad innervosirsi per le urla e le bestemmie che il loro istruttore sceglie con cura maniacale.
    Superiamo con altri tentennamenti e i timpani esasperati la piccola risalita, i pozzi e gli scivoli sino all’imbocco dell’ultimo pozzo, ma lo stato d’animo della squadra è diventato elettrico e la mia capacità di sciogliere le tensioni con l’umorismo è ormai in riserva.
    Il break avviene nell’ultimo pozzo. Scende senza problemi il primo ragazzo. Dall’alto lo avvertiamo di aiutare la discesa della sua fidanzata, che appare ormai così confusa ed impacciata da non sapere più come si fa una semplice corda doppia. Con il suo ragazzo in basso, Vincenzo in sicura ed io che la guido spenzolandomi dall’imboccatura del pozzo, speriamo di depositarla sul fondo senza troppi problemi.
    La lentezza della discesa è esasperante; scende di dieci centimetri per volta, dopo lunghi pensamenti e meticolose osservazioni della parete alla ricerca di possibili appigli. Alle nostre spalle ci ha raggiunto la quinta squadra, e anche la sesta si annuncia vicina.
    Vincenzo, in cui la corteccia cerebrale ha perso definitivamente la lotta con i centri degli istinti primordiali, esplode in una salva di insulti, invitando la ragazza, con la sottigliezza psicologica che gli è propria, a buttarsi nel vuoto. La cerbiatta esplode in un urlo d’angoscia: "Basta, ho paura, io non vado più avanti". Non è ancora a metà, la faccenda sembra diventare seria e la profondità del pozzo sembra diventata di 250 metri. Mi sporgo ancora di più dall’attacco e cerco di farle capire, con tono seduttivo, che non ci sono molte alternative praticabili. Non possiamo risalire tutta la grotta con le corde, non possiamo dare vita ad una tribù di neocavernicoli, decidendo di stabilirci nella grotta a tempo indeterminato, e del resto lei incontrerebbe qualche difficoltà a vivere appesa ad una corda, per cui non le resta che continuare a scendere piano piano come stava facendo benissimo (mento spudoratamente), fino al fondo. La risposta è agghiacciante; la tenera cerbiatta si è trasformata in un durissimo macigno, fortemente intenzionato a non farsi trascinare fuori da quello che ormai sembra aver scelto come suo ambiente naturale. Le sue urla superano quelle di Vincenzo. "Cazzo, penso io, guarda tu se mi doveva capitare una crisi di panico a metà di un pozzo".
    Il tempo comincia a scorrere; ci ha raggiunto anche la sesta squadra e, visto che la vicenda si sta facendo interessante, sul terrazzino da cui parte il pozzo si sono affollati tutti gli altri, disponendosi come spettatori in un anfiteatro romano per seguire lo spettacolo. Per circa mezz’ora, dal basso e dall’alto cerchiamo, con dolcezza, di convincerla a scendere, tranne Vincenzo che insiste, perverso, a terrorizzarla. Ci raggiunge anche la squadra di recupero, gli spettatori aumentano e anche il freddo e la stanchezza. Gli spettatori cominciano a far piovere i consigli, le esortazioni e le ingiurie.
    "Sganciati dalla corda fissa che ti caliamo noi con quella di sicura", ma l’invito non è accolto dall’interessata, anzi è seguito da altre urla di terrore; "Tagliate le corde", ma questo lo respingo io; "te possa venì ‘no sbocco de sangue, stronza, così crepi e te famo scende" (il solito Vincenzo).
    Ho una corda di riserva di 40 metri nello zaino. Decido di armare una corda di discesa parallela a quella su cui sembra avere fatto il nido la tenace fanciulla e di calarmi alla sua altezza per parlarle in modo più persuasivo. La trovo avvinghiata alle corde con lo sguardo allucinato. La mia vicinanza sembra rincuorarla, ma non è ancora sufficiente a convincerla a calarsi, sia pure lentamente. Dall’alto continuano a scendere sarcasmi, cachinni, improperi. Mi impegno in una seduta di psicoterapia appeso alla corda, ed è una seduta molto molto lunga. Piano piano l’atmosfera da circo si quieta, alcuni sembrano interessati ad impicciarsi degli affari della pulzella, altri si addormentano, solo qualcuno emette blande lamentele, mentre anche Vincenzo tace, ormai cupamente deciso a sbudellarla non appena saremo all’aperto. E’ passata un’ora e mezza ed io sono completamente anchilosato, appeso a quella maledetta corda; confesso di avere avuto anche il fugace pensiero di stordirla e calarla di peso, quando la crisi di panico volge al sereno, ed il macigno si riscuote e inizia lentamente a scendere. Urla di giubilo accolgono il tentativo; temo che il primitivo ricominci a fare opera di terrorismo verbale, ma ormai è completamente assorbito dall’idea del successivo sanguinoso progetto, per cui la discesa in tandem, sia pure a piccolissimi strappi, ci porta finalmente in fondo al pozzo.
    Il resto della grotta non presenta difficoltà e tutto si svolge regolarmente e tranquillamente. Noto però che la ragazza si è abbarbicata al fidanzato e si tiene ben alla larga dal resto della squadra e anche dagli altri allievi. Penso che si vergogni e si senta in colpa e mi riprometto, arrivati al tempietto, di parlarci per allentare la tensione e risollevarle l’umore, reinserendola nel gruppo. Così, nella sala finale, intenti al riposo, mi avvicino ai quattro allievi che se ne stanno in disparte e in silenzio e interpello la soave: "Beh, non è poi così grave, tutti una volta o l’altra abbiamo avuto paura in grotta, spero che non ti sia passata la voglia di fare speleologia". Mi aspetto una qualche forma di ringraziamento per la delicatezza, per la fatica che ho fatto, per la pazienza, ma quello che mi arriva è invece un furioso "‘fa ‘n culo, col cazzo che ci torno in grotta". Ci rimango male e sto quasi pensando di dare una mano a Vincenzo nei suoi propositi, ma poi mi ricordo che ci sono i figli ad aspettarmi e vado verso la luce. Incrocio gli altri istruttori "Bella squadra che mi avete dato!" Risposta logica e lapidaria "lo sapevamo, se no che lo fai a fare lo psichiatra".
    Sono stanco, infangato, affamato e incazzato; non vedo l’ora di togliermi casco, tuta e stivali, meglio che vada ad abbracciare i figli. Eccoli, mi aspettano alla fine della discesa; Francesco, 7 anni, mi viene incontro tutto festante e felice. Gabriele, 4 anni, invece si nasconde dietro alla madre e lo sento distintamente chiedere sottovoce "Mamma, chi è quello cattivo".
    Chissà perché non mi riesce di ricordare il suo nome.
 


{Articolo precedente} | {Sommario} | {Articolo successivo}

This page hosted by Get your own Free Homepage