Avventure speleologiche
di Iolanda Mascia
 

Quando ho cominciato ad andare in grotta? Subito dopo essermi laureata in Architettura. Il collega col quale studiavo più spesso per prepararmi agli esami universitari era Italo Bertolani, uno dei soci fondatori dello Speleo Club Roma, assieme a Giorgio Pasquini e ad altri amici speleologi che, intorno al 1959, si erano divisi dal Circolo Speleologico Romano.
    Italo era anche un valido alpinista e arrampicatore, iscritto alla SUCAI, la prestigiosa sezione del Club Alpino Italiano, formata da universitari che si distinguevano per la loro abilità di rocciatori, e nelle pause che ci concedevamo durante la preparazione agli esami, mi raccontava spesso le sue entusiasmanti imprese sia speleologiche che alpinistiche.
    Io allora non potevo partecipare a tali attività, anche se mi sarebbe piaciuto, perché per motivi di famiglia dovevo laurearmi al più presto. Ma una volta terminati gli studi e resami indipendente finanziariamente, considerai giunto il momento di sperimentare dal vero l’appassionante mondo della montagna. Decisi quindi di iscrivermi al CAI, e a questo fine chiesi a Italo di accompagnarmi per la presentazione d’uso.
    Era il novembre dell’anno 1961 e allo Speleo Club si stava organizzando il secondo corso speleologico, ragione per cui Italo mi spinse verso la speleologia convincendomi a iscrivermi al corso. Sulle prime ero alquanto titubante: avevo ventisette anni e fino ad allora non mi ero dedicata ad alcuna attività sportiva; ma, fugati i primi timori, cominciai col frequentare un corso di nuoto per allenarmi un po’ e mi presentai allo Speleo. Fui accolta con simpatia e decidemmo che in seguito avrei potuto rendermi utile disegnando i rilievi delle grotte esplorate.
 

Il corso del novembre ‘61

Il corso comprendeva alcune lezioni teoriche e quattro uscite in grotta. Gli istruttori erano, oltre a Giorgio Pasquini e Italo Bertolani, Pierpaolo Selleri, Carlo Casale, Andrea Maniscalco, Alberta Felici, Nietta Sinibaldi, Franco Mannella, Biagio Camponeschi, Franco Burragato. Fra gli allievi ricordo Augusto Spernanzoni e Simone Severino.
    Nel corso delle lezioni teoriche ci furono illustrate le tecniche allora in uso e ci fu descritto l’abbigliamento necessario per affrontare la grotta: praticamente mi dovetti procurare una tuta mimetica militare da indossare sopra a varie maglie, calzamaglie e calzettoni, inoltre un casco da minatore, stivali di gomma e cordino e moschettone per la sicura. Infine, luce elettrica frontale e lampada a carburo.
    Allora si scendeva in grotta mediante scalette di cavo d’acciaio con gradini d’alluminio, larghe poco più della larghezza di un piede, e si veniva assicurati con una corda azionata dall’esterno da un compagno.
    Sperimentai poi che questa sicura era la croce e la delizia dello speleologo, soprattutto in risalita, perché chi l’azionava, spesso invece di limitarsi a recuperarla, la ritirava a strappo stressando il malcapitato che si trovava al guinzaglio; però se a beneficiarne era una persona leggera (come me, ad esempio) questa riusciva spesso a sfruttare il tiro dell’amico assecondandone il ritmo, e usciva a tappo.
    Per la prima uscita era previsto di terrorizzare l’allievo portandolo alla Grotta di Val di Varri. Questo inghiottitoio ha la caratteristica d’iniziare con un salto di una ventina di metri, proprio adiacente a una rombante cascata il cui fragore metteva a dura prova la resistenza nervosa del novellino. Alcuni allievi, infatti, rimasero impressionati da quella prima esperienza, tanto che si ritirarono dal corso.
    Personalmente avevo già esaurito la mia dose di stress nel corso della marcia in discesa per raggiungere la grotta, a causa delle mie caviglie poco resistenti, quindi l’esperienza delle scalette mi risultò al confronto meno impegnativa e, tutto sommato, me la cavai egregiamente. Ho visto in seguito spesso molte persone uscire stremate dall’esperienza delle scalette metalliche perché, soprattutto in risalita, si è portati istintivamente a tirarsi su di peso con le braccia, mentre è necessario fare forza solo sulle gambe e tenere le braccia all’altezza del petto senza sforzarle.
    A questo proposito Giorgio soleva dire: "Fate conto di trovarvi sulle scale di casa vostra". Dopo aver sperimentato la tecnica di discesa e risalita, visitammo la parte superiore della grotta che si svolgeva orizzontalmente e che in alcune zone ospitava un gran numero di pipistrelli in letargo. Nell’insieme fu un’esperienza esaltante.
    La seconda uscita fu a .............. Di questa grotta ricordo un lungo cañon, cioè una spaccatura verticale formata da due pareti di roccia parallele molto ravvicinate, ma che scendevano in profondità, tanto che guardando in basso non se ne vedeva la fine. Questo cañon bisognava percorrerlo a contrasto, e cioè aderendo con la schiena a una parete, appoggiando i piedi all’altra, e muovendosi di conseguenza.
    In quell’occasione l’istruttore del mio gruppo era Pierpaolo Selleri, il terrore del neofita. Era famoso per il suo grido che echeggiava nella grotta ogniqualvolta un allievo, evidentemente in difficoltà, gli chiedeva aiuto: "Ce la devi fare da soolooo!".
    Io mi ero sistemata a contrasto reggendomi con la schiena, i piedi e un braccio, e mi venne in mente di chiedergli come avrei dovuto usare l’altro braccio per sostenermi con maggior sicurezza. Per tutta risposta mi fece staccare dalla parete il braccio e una gamba e, stando più in basso di me, mi tirava in giù con tutte le sue forze per dimostrarmi che con quel contrasto era impossibile cadere, e quindi la paura era solo effetto di suggestione. Dopo quella lezione fui molto più disinvolta nei cañons.
    La terza uscita fu alle grotte del monte Soratte: due verticali e una orizzontale, la Grotta della Madonnina. Ricordo che siccome mi affacciavo imprudentemente alla grotta più profonda per osservare meglio le manovre, Pierpaolo mi assicurò a un albero.
    L’ultima uscita del corso era programmata alle Tassare. Per raggiungere questa grotta era prevista una marcia notturna sulla neve. Fu un’esperienza particolarmente emozionante. Il cammino era lungo e faticoso, e durante il percorso per due o tre volte provai una grande stanchezza, tanto che pensavo: "Tra poco chiederò di fare una sosta, perché non credo di poter proseguire." Invece, continuando a camminare, la stanchezza d’un tratto spariva da sola senza che me ne rendessi conto, e dopo un po’ mi sentivo più in gamba di prima.
    Seppi poi che questa è un’esperienza comune a chi cammina molto in montagna: forse ci si addormenta per una frazione di secondo e così si riacquistano le energie. Purtroppo la discesa in grotta non si effettuò perché era nevicato molto e l’ingresso della grotta era ostruito.
    Dopo il corso cominciai a frequentare assiduamente lo Speleo Club come socia aggregata. La sede era allora a Via Cavour, vicino a Via dei Fori Imperiali. Era costituita da un’ampia sala a piano terreno e da una stanzetta dove periodicamente si riuniva il direttivo per deliberare.
    La sede era aperta il martedì e il venerdì, e ci si riuniva soprattutto per organizzare le uscite della domenica. Su di una lavagnetta venivano scritte le varie proposte di esplorazione o di ricognizione, e il nome di chi le aveva formulate.
    Ognuno poteva scegliere dove aggiungere il proprio nome; così si formavano le squadrette. Su una parete era appeso un foglio con i nomi di tutti i soci e le uscite effettuate durante l’anno. Alla fine dell’anno, a seconda del numero delle uscite, il direttivo decideva quali fossero i soci effettivi e quali gli aggregati.
 

Traversata notturna al Velino

Dopo il corso, Giorgio Pasquini organizzò una gita invernale al monte Velino. Il programma prevedeva di mettersi in cammino la sera partendo da Rovere, per raggiungere il rifugio Sebastiani, da dove la mattina seguente si sarebbe ripartiti per salire in vetta. Purtroppo il giorno della partenza Giorgio non era perfettamente in forma a causa di una forte influenza che lui aveva sbrigativamente debellato mediante massicce dosi di antibiotico, e questa cura intensiva aveva contribuito a indebolirlo. Il programma non fu modificato, in quanto il Pasquini sosteneva di stare benissimo, e partimmo regolarmente. Il gruppo era formato da Giorgio e Nietta, Pierpaolo Selleri, Simone Severino, Pierantonio Bellogini, Pietro Gui, Lucio Valerio, Filippo Gammarelli, Renato Ribacchi ed altri, e formavamo diverse squadrette. Iniziammo la marcia sotto la luce intensa della luna piena. Qualcuno inizialmente ogni tanto accendeva una torcia elettrica, provocando subito le proteste di chi gli camminava accanto e non voleva luci artificiali perché creano ombre in movimento che confondono più che aiutare.
    La prima parte del cammino fu relativamente agevole, ma via via che avanzavamo la marcia divenne sempre più difficile e faticosa perché era nevicato abbondantemente e la neve spesso arrivava fin sopra le ginocchia. Camminammo per ore, non so quanto, alla volta del rifugio; io mi trovavo dietro Nietta che a sua volta seguiva Renato Ribacchi, il quale camminando formava dei profondi buchi nella neve dentro ai quali passavamo noi. Renato camminava in silenzio consultando il suo altimetro, e Nietta ogni tanto gli domandava: "Quanto manca ancora per arrivare?" La risposta invariabilmente era: "Ancora dieci minuti!" Quante volte furono formulate domanda e risposta? Non lo so. Dopo ore di marcia durante le quali ogni tanto si registravano alcune scene di panico o si sentivano frasi del tipo: "Io mi scavo una buchetta e vi aspetto qui!", Giorgio, che si sentiva sempre peggio e accusava un principio di congelamento ai piedi perché gli era entrata l’acqua negli scarponi, decise che non era il caso di raggiungere il rifugio e stabilì di tornare indietro. Ma mentre eravamo sulla via del ritorno, da una squadretta all’altra si sparse la notizia che Giorgio era svenuto. Ci dirigemmo quindi tutti verso il suo gruppo e trovammo Giorgio steso a terra. Gli erano stati tolti gli scarponi e i calzettoni bagnati, e intorno a lui due gruppi di persone esagitate questionavano animatamente sulla tecnica di massaggio da attuare ai suoi piedi per riattivare la circolazione del sangue. Si alzavano grida: "Con la neve!", "No, con la lana!", "No, ignoranti, con la neve!", "Lana!", "Neve!". Finalmente si alzò Filippo Gammarelli urlando fuori di sé: "Neve o lana, facciamo qualcosa ...! (non ricordo l’epiteto)", e cominciò a sfregare i piedi di Giorgio, che stavano diventando violacei. Lentamente Giorgio si riprese e in breve fu in grado di rimettersi in cammino.
    Era l’alba quando si decise di riformare le squadrette per riprendere la via del ritorno. Il primo ad alzarsi fu Pierantonio, e io mi misi subito dietro di lui, attirata dall’idea di tornare indietro al più presto. Altri avrebbero voluto far parte della nostra squadra, ma non erano ancora pronti, quindi ci esortarono a cominciare a camminare dicendo che ci avrebbero raggiunto quanto prima. In realtà ci raggiunsero solo alla locanda dove arrivarono due ore dopo di noi. Il resto della comitiva arrivò ancora più tardi.
    Quel ritorno attraverso i Piani di Pezza costituì un’avventura indimenticabile per lo stile e soprattutto la velocità con cui Pierantonio mi riportò indietro. Mi spiegò poi che anche a lui era entrata l’acqua negli scarponi, e questo fatto, unito al timore del possibile incontro di lupi, gli aveva messo le ali ai piedi. Pierantonio era un buon camminatore e proveniva da un paese nelle vicinanze del Monte Rosa su cui si era fatto le ossa, ma diceva di aver avuto qualche difficoltà a orientarsi sul Velino, perché le montagne dell’Abruzzo, a differenza di quelle alpine, erano allora scarse di segnalazioni. Nonostante ciò si orientò benissimo, però il suo passo, che inizialmente era normale, accelerava sempre più strada facendo. Io mi sforzavo di stargli dietro il più a lungo possibile, ma ogni tanto avevo la netta sensazione che mi si mozzasse il respiro, e così gli chiedevo di fermarsi un momento per riprendere fiato. Lui allora si arrestava e restava in piedi con le mani appoggiate alle ginocchia, senza neppure voltarsi. Dopo un brevissimo tempo la mia stanchezza, che inizialmente mi era sembrata mortale, scompariva miracolosamente e quindi proponevo di rimetterci in cammino, raccomandandogli però ogni volta di camminare più lentamente. Lui riprendeva la marcia a un passo più umano che però poi aumentava gradatamente come sopra. Quando incontrava piccole salite coperte di ghiaccio che potevano crearmi qualche difficoltà, vi intagliava dei gradini con la punta dei suoi scarponi e procedeva tranquillamente senza girarsi. Traversammo così a tempo di record i Piani di Pezza, e solo in vista del paese Pierantonio concesse un piccolo riposo, seduti su una pietra asciutta. Ci rifocillammo con qualche biscotto e un sorso d’acqua. Ricordo che, guardando il paese che si riusciva finalmente a scorgere, disse: "Sento odore di stalla".
    Tornati a Roma raccontai l’esito della nostra spedizione a Italo e la mancata ascesa al Velino, allora mi promise che mi ci avrebbe portato lui dopo l’inverno. E mantenne la promessa: a primavera, insieme a Ezio Musumeci, raggiungemmo la vetta.
 

Campo estivo al Matese

Nell’estate del 1962 lo Speleo Club Roma organizzò un campo estivo al Matese. L’organizzatore principale sia delle uscite che dei campi era Giorgio Pasquini. Giorgio era allora professore di Geografia, e aveva scelto di insegnare in una scuola serale per poter dedicare le sue mattinate libere alle varie organizzazioni speleologiche.
    In genere per i campi estivi si procurava materiale militare, facendoselo prestare direttamente dall’Esercito, e in quell’occasione potemmo usufruire di stoviglie, radio portatili, tavoli da campeggio, tende e persino di due camion per raggiungere il campo dove accamparci.
    Eravamo: Giorgio e Nietta, Alberta Felici, Andrea Maniscalco, Lucio Valerio, Carlo Casale con il cugino Alberto Moretti, Pierpaolo Selleri, Franco Stampacchia, Guido Saiza, Mauro Rampini, Maurizio Polidori, Carlo Bellecci. In seguito ci raggiunse Renato Ribacchi. Il posto era bellissimo. Avevamo posto le tende su un altopiano dietro al quale scorreva un torrentello, nelle vicinanze del Lago del Matese.
    La vita al campo era regolata con molta precisione: venivamo svegliati all’alba dalla voce stentorea di Giorgio che invariabilmente gridava: "Maniscalco, sveglia!" Sembra che il cognome di Andrea fosse il più adatto a questa funzione. Dopo la colazione a base di caffelatte e pane (il latte era venduto a caro prezzo dal pastore), ogni squadretta partiva per svolgere il programma del giorno, portandosi il necessario per un pranzo frugale: carne in scatola, pane, acqua, niente vino (taglia le gambe). Naturalmente per il vino c’era qualcuno che faceva eccezione.
    La sera, invece, si cenava a sazietà con lasagne, polli arrosto ecc. All’uopo erano state assunte due donne del paese vicino che ci preparavano la cena. Dopo si indugiava a lungo, seduti in circolo intorno al fuoco, parlando delle imprese della giornata o cantando, mentre un gamellino di vino faceva il giro.
    Intorno alle dieci ci si ritirava nelle proprie tende. Io dividevo una canadese con Alberta, ed era nostra cura di provvederci furtivamente di un gamellino di vino da bere per conto nostro nella tenda. Questa usanza era considerata disdicevole da Giorgio che invano usò ogni precauzione per evitare tale infrazione ai regolamenti.
    Accanto al fuoco nascevano discussioni di tutti i tipi, che finivano anche col toccare problemi di metafisica, e che spesso proseguivano animatamente anche all’interno delle tende. Una sera, mentre tutti erano andati a dormire, dall’abitacolo di Carlo Casale e Alberto Moretti si alzò una voce che ruppe il silenzio con un drammatico interrogativo: "Ma insomma, se Dio non esiste, il mondo chi l’ha creato??!!" Da un’altra tenda arrivò inattesa la risposta: "Sono stato io!!! Basta! Lasciateci dormire!".
    Nel corso dei giri giornalieri si andava in ricognizione o in grotta, oppure si cercavano minerali che rivestivano particolare importanza per i geologi. Una volta Andrea Maniscalco riempì il mio zaino di bauxite, con grande soddisfazione della mia schiena.
    Maurizio Polidori, oltre ad essere il medico del campo, aveva una particolare conoscenza del mondo animale. Era inoltre un bravo pescatore. Dal lago vicino, Maurizio pescò tanti di quei pesci che alla fine ne regalammo una parte ad altri campeggiatori. Un giorno la squadretta di cui lui faceva parte si imbatté in un serpente. Maurizio si chinò e lo prese tranquillamente con due dita in prossimità della testa, lo sollevò, lo esaminò e sentenziò: "Non è velenoso". Quindi lo rimise a terra.
    Essendo in tanti formavamo ogni giorno diverse squadrette. Giorgio andava fiero in particolare della squadretta femminile, formata da Nietta, Alberta e io. Spesso noi tre andavamo insieme in ricognizione. Fummo noi ad esplorare per prime e a rilevare la parte iniziale di Cul di Bove, che oggi è una delle più profonde e interessanti del Matese.
    Ma la grotta più importante che fu esplorata in questo campo è Pozzo della Neve, di cui ricordo la grandiosa imboccatura ornata da una lussureggiante vegetazione, posta in un bellissimo bosco rosseggiante di fragole.
    Ma anche stando di guardia al campo le emozioni non mancavano. Ogni tanto arrivavano a visitarci i più disparati animali: bovini, suini. Una notte che dimenticammo fuori alcune stoviglie sporche, provvidero i cani a lavare i piatti. Un giorno mi capitò di rimanere sola di guardia al campo. A un dato momento arrivò al galoppo una mandria di mucche che solo per un pelo non travolse tutto il campo.
    Alcuni giorni dopo il nostro arrivo giunse un gruppo di speleologi torinesi diretti al Cervati. Per loro fu un brutto colpo constatare che i romani li avevano preceduti. Li invitammo a cena (fu una fortuna per loro, che di solito al campo si nutrivano quasi esclusivamente di scatolame) e in loro onore preparammo anche un fritto di cosce di rane che avevamo pescato nel torrente vicino. L’anno seguente si trasferì a Roma uno di loro: Gigi Marchetti, che venne a far parte dello Speleo Club Roma.
    Dopo il campo continuai a partecipare alle uscite e mi resi utile disegnando i rilievi delle grotte e i manifesti per i nuovi corsi di speleologia. All’inizio del nuovo anno ero già socia effettiva. Preparai anche il nuovo foglio con i nomi dei soci e sul quale venivano scritte le partecipazioni alle uscite dell’anno.
 

Inghiottitoio di Pozzo Comune

Una delle uscite più avventurose fu a Pozzo Comune nei Lepini, effettuata nell’inverno del 1962. La squadra era composta da Giorgio Pasquini, Nietta Sinibaldi, Alberta Felici, Andrea Maniscalco, Fabio Carosone, e io. La grotta ha inizio con un salto di 20 metri e prosegue presentando tutte le difficoltà immaginabili: discese scivolose, pozzetti profondi pieni d’acqua che inevitabilmente entrava negli stivali, cascate sotto le quali era d’obbligo farsi la doccia, salti a corda doppia, e soprattutto tanto fango.
    Dopo avere sperimentato di tutto in andata e ritorno, giunti finalmente all’ultimo salto per uscire all’aperto, scopriamo che la neve all’esterno si era sciolta e il salto si era tramutato in una cascata, per cui risultava impossibile per chiunque uscire da primo senza sicura. Passò parecchio tempo in attesa che la situazione migliorasse. Noi ci aspettavamo che Giorgio dicesse qualcosa o prendesse un’iniziativa, ma lui per l’occasione si era messo tranquillamente a dormire.
    In effetti, come occupare meglio il tempo? Dopo che furono trascorse alcune ore e il getto d’acqua non accennava a diminuire, improvvisamente ad Andrea Maniscalco venne l’ispirazione di provare ad affrontare la scaletta senza sicura. Non so come abbia fatto, dato che l’acqua cadeva in quantità sul viso, sugli occhi, in bocca, e non si poteva vedere niente. Fatto sta che riuscì a salire e, grazie a lui, potemmo uscire anche tutti noi, incolumi.
    Fuori diluviava. Avevamo una Topolino per raggiungere la trattoria dove cambiarci gli abiti e rifocillarci; i ragazzi decisero cavallerescamente di lasciare l’automobile alle ragazze e se ne andarono a piedi sotto la pioggia torrenziale. Peccato che la Topolino non volle saperne di uscire dalla semi-palude del prato davanti alla grotta. Ci mettemmo quaranta minuti, sotto la pioggia battente, per riportarla sulla strada: immaginate tre donne simili a "zombi", in mute di foglia, spalmate di fango.
 

L'Antro del Corchia

A Pasqua del ‘64 era in programma la discesa nell’Antro del Corchia, una bellissima grotta di marmo situata nelle Alpi Apuane, che allora raggiungeva i ... metri di profondità, e che oggi, con i suoi ... metri, è una delle grotte più profonde d’Italia. Affrontammo l’impresa insieme a un gruppo di speleologi fiorentini. La squadra dello Speleo Club era formata da Giorgio Pasquini, che aveva organizzato la spedizione, Guido Saiza, Franco Stampacchia e io; i fiorentini erano Luca....., Marco..... e ..... Prelosh.
    Ci incontrammo la sera del Venerdì Santo a ....., un paese in provincia di ..., accolti dal caratteristico funereo rumore come di sassi rotolati in un tamburo, che sostituiva il suono delle campane, e prendemmo alloggio in una locanda dove avremmo passato la notte.
    Ci sistemammo, quindi, per la cena intorno a un tavolo, in un locale triste e male illuminato, muti e pensierosi, perché, senza che ce ne fossimo resi conto, eravamo stati colti da depressione. Quando Giorgio, che si era temporaneamente assentato, ci raggiunse, stupefatto da quella malinconica scena, prese subito in mano la situazione ordinando di accendere le luci e servire del vino, e riuscì così a riportare l’atmosfera alla giusta vivacità.
    La mattina dopo entrammo in grotta, stracarichi di materiale e viveri, ognuno caricato secondo le sue possibilità. Questa grotta è eccezionale per la sua bellezza e la varietà degli ambienti, e inoltre è una grotta nel marmo e non nel calcare, come invece sono generalmente quelle del Lazio, che si presentano viscide e fangose e dalle quali si esce in uno stato pietoso, coperti di limo come vermi.
    Vi si possono ammirare fragorose cascate che vanno a formare laghetti pittoreschi, sale fossili ornate di stalattiti e stalagmiti, oltre a pozzi di varie profondità. Allora il salto più profondo era il Pozzacchione, un salto di 50 metri, risalendo il quale potei sperimentare la famigerata sicura a strappo di Giorgio, che mi distrusse.
    Fu interessante vivere questa esperienza di grotta insieme ad un altro gruppo, formato di giovani fiorentini, per carattere decisamente diversi dai romani. In generale i toscani sono più chiusi e riservati, noi romani, più caciaroni e parolacciari, restammo tuttavia stupiti e un po’ scandalizzati dalla loro inveterata abitudine di infiorare il dialogo con bestemmie di vario tipo. Soprattutto ci meravigliava il fatto che alle bestemmie tradizionali venissero aggiunte altre di nuovo conio e spesso incomprensibili.
    Questa convivenza cavernicola costituì comunque un’esperienza positiva e restammo buoni amici. Marco era allora poco più che un ragazzo e affrontava le varie difficoltà con una certa strafottenza. Prelosh, tarchiato e forte come un torello era di pochissime parole.
    Una volta ci trovavamo all’inizio di un cañon, davanti a una piccola salita in roccia che presentava qualche difficoltà. Quando toccò a me, stavo ancora studiando la situazione e già mi trovai al di sopra del punto difficoltoso, perché Prelosh, che mi stava dietro, con una mano sola mi aveva sollevato e depositato più in alto, come se si fosse trattato di uno zainetto.
    Superato il Pozzacchione, ricordo che a un certo punto l’atmosfera diventò sempre più umida e si cominciò a sentire il rumore di una cascata che diventava via via sempre più fragorosa. Finalmente la raggiungemmo e ci trovammo davanti a uno spettacolo grandioso. Seguendo il percorso della cascata si raggiungeva alla fine un placido laghetto.
    Un altro ambiente che mi colpì per il suo aspetto quasi fiabesco fu la Sala Manaresi, un locale a forma circolare, coperto da una volta a cupola che lo faceva assomigliare ad una sala da ballo. Visto dall’alto, illuminato dalle luci delle carburo, appariva molto suggestivo. Per raggiungere questa sala, allora si scendeva (senza sicura) una vecchia scaletta di ferro lunga alcuni metri, che stava lì chissà da quanto tempo. Sembra che adesso sia stata tolta.
    Ma il massimo dell’atmosfera da Guerrin Meschino si raggiungeva nella Sala Fossile, un ambiente piuttosto esteso, ornato da decorative colonnine di stalattiti e stalagmiti saldate insieme, che, essendo vuote all’interno, se venivano percosse leggermente, emettevano suoni diversi in un magico concerto.
    Poi mi è rimasta impressa una lunga zona in salita chiamata Le Lame, dall’aria così secca e polverosa che a stento si riusciva a respirare. Lì mi fu offerto un po’ di whisky che mi ridiede a un tratto tutte le energie.
    Passammo due notti all’interno del Corchia. La prima notte abbiamo dormito in una zona asciutta nei pressi della Sala Fossile. Si trattava di una specie di corridoio dal fondo leggermente inclinato. Io mi trovavo dentro al mio sacco a pelo nella parte più bassa e, benché fossi ben coperta, non riuscivo ad addormentarmi per il freddo. Ma, a causa della base inclinata, tutti rotolarono un po’ in giù e qualcuno nel sonno mi venne quasi addosso. Così mi riscaldai e riuscii a dormire. La seconda notte la trascorremmo camminando per uscire dalla grotta. Raggiungemmo l’imboccatura all’alba, e fu uno spettacolo incomparabile il rivedere la luce del sole. Ricordo che Luca, appena fuori, cominciò a emettere strani ululati. "Che fai?" "Niente, urlo."
    L’avventura terminò con una discesa a valle in funivia. Una funivia che avrebbe dovuto essere usata solo per il trasporto dei materiali per le cave.
 

Il campo agli Alburni

Nell’estate del 1964 fu organizzato un campo speleologico agli Alburni. Vi partecipai insieme a Giorgio Pasquini e Nietta Sinibaldi, Alberta Felici, Lucio Valerio, Andrea Maniscalco, Alberto Moretti, Carlo Casale, Mauro Rampini, Aurelia Mohoroff con la sorellina Irene, Guido Saiza col fratello Franco e il cugino ............. Irene e Franco avevano circa quattordici anni ciascuno.
    Questa volta ci trasferimmo con le nostre auto e senza aiuti da parte dell’esercito. Io per l’occasione guidavo la mia Seicento. Arrivati nella tarda mattinata al paese e lasciate le auto al parcheggio, dopo esserci provvisti di viveri nell’unica bottega esistente, affrontammo intorno alle tre del pomeriggio, sotto un sole cocente, la peggiore salita di montagna che si possa immaginare.
    Non si trattava, infatti, di una normale mulattiera o un sentiero di capre, ma di una chilometrica scalinata intagliata nella roccia che rendeva la marcia estremamente faticosa. Arrivammo alla sommità del monte stremati, ma il posto era talmente bello che ci fece quasi dimenticare la fatica.
    Irene, che in precedenza era letteralmente terrorizzata all’idea di imbattersi in qualche grillo, dopo quella epica camminata era talmente stanca che aveva finito col fraternizzare col primo ortottero che aveva incontrato.
    L’altipiano dove avevamo posto il campo era praticamente deserto; nei quindici giorni che passammo lassù non abbiamo incontrato anima viva, se si eccettuano un paio di pastorelli che passavano le giornate seduti a una ventina di metri di distanza da noi a contemplarci. Il cielo era di un azzurro intenso, non si vide passare una nuvola.
    Io non possedevo una tenda, decisi così di dormire all’addiaccio, e fu un’esperienza bellissima. Quando durante la notte mi svegliavo, potevo notare gli spostamenti graduali della volta celeste fittamente stellata.
    La prima notte eravamo in pochi a dormire sotto le stelle, ma poi molti seguirono l’esempio uscendo dalle loro tende soffocanti, e alla fine avevamo costituito un bel gruppetto. Giorgio, sempre incoraggiante, diceva che così, tutti in fila nel nostro sacco a pelo, gli ricordavamo scene di identificazione di cadaveri.
    Di giorno, andando in ricognizione, si attraversavano vaste distese di prati, e, a volte, aspettando fuori da una grotta, si potevano gustare scene idilliache: si sentivano risuonare lontano i campanacci delle mucche e si vedevano Irene e Franco correre per i prati raccogliendo fragoline di cui riempivano i caschi da speleologo.
 

Qui hanno termine le mie avventure speleologiche. Nel corso dell’anno scolastico 1963-64 avevo incominciato a insegnare "Disegno" in un Istituto Tecnico, così nell’estate, dopo il campo agli Alburni, passai il mese d’agosto a Ponza in compagnia di alcuni miei colleghi. Uno di questi sarebbe diventato mio marito. Di conseguenza, la professione d’architetto, l’insegnamento e la vita famigliare finirono con l’assorbire il mio spirito d’avventura per incanalarlo su altri fronti.
    Ma devo dire che questi cinque anni vissuti intensamente in montagna e in grotta, superando pericoli e difficoltà, nello spirito di amicizia e fraternità che caratterizzano l’esperienza speleologica, avevano temprato il mio carattere, insegnandomi ad affrontare con lo stesso impegno le mie attività sia professionali e d’insegnamento che di madre di famiglia.
    Quando poi meno me lo sarei aspettato, all’improvviso l’interesse per la speleologia e per le attività alpinistiche risorse nella mia famiglia. Infatti, le mie due figlie Emanuela e Giulia hanno cominciato a dedicarsi all’arrampicata in montagna, mentre mio figlio Paolo è diventato un valido speleologo e ha superato di gran lunga le mie modeste imprese, scendendo in alcune tra le grotte più profonde d’Italia e distinguendosi nel campo dell’esplorazione.


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