Roma - "Piu' avanza la calura estiva e piu' aumenta la fiera delle invenzioni sui giornali". Cosi' Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, commenta alcuni retroscena sulle mosse che intenderebbe fare il leader di Forza Italia apparse anche oggi su alcuni quotidiani. "Prima si dice che Berlusconi vorrebbe fare il ministro degli Esteri agli ordini di Rutelli - ricorda Bonaiuti - poi che punta su Marini e su Amato, magari anche su un Prodi bis... La verita' e' che la sinistra tenta di scaricare tutta la debolezza del suo governo e tutti i suoi spaventosi contrasti interni ancora e sempre su Berlusconi".
E sono sette. Sette in due mesi. Anzi in cento giorni. Come primo tagliando non c'è male. Sette fiducie per un governo neonato sono davvero troppe. Perché nascondono una fragilità estrema. Perché i cocci tenuti assieme dal professor Prodi con grande fatica in queste settimane gli stanno scivolando dalle mani e cadendo a per terra. Ma davvero l'episodio che fa più riflettere sono le scuse di Prodi al Parlamento. Questa è davvero una boutade. Signori mi scuso, non lo farò più. Forse andrebbe scomodato il grande Totò, fustigatore di una politica diversa che non annoverava certamente tipi come il professore bolognese: "Scuse?? Ma mi faccia il piacere!!!"
Che si stia avverando velocemente l'ipotesi avanzata da Berlusconi sulla imminente caduta del governo nella discussione autunnale sulla Finanziaria? Certo, ragiona Massimo Franco sul Corriere, una fase si è chiusa.
L'Unione ha finalmente capito profondamente che così non si può andare avanti per un quinquennio. Che le carte vanno rimescolate e subito. Che dietro la perenne irritazione di Napolitano c'è più di una proposta o un suggerimento. Come si comporterà Prodi al ritorno dalle vacanze? Cercherà di gestire una eventuale nuova fase parlamentare, cercando di pescare qualche deputato o senatore in più? O farà una discussione più matura e responsabile?
Perché dietro alle scuse al Parlamento, oltre alle difficoltà intrinseche di un governo in apnea, sta una preoccupazione tutta privata del professore. E' la paura di esser tagliato fuori da una nuova stagione che si potrebbe aprire a breve per la politica nazionale.
E' il timore di essere scavalcato da qualche colonnello che ha già in mente, probabilmente, i disegni futuri. Fino a poco tempo fa il ritornello di Prodi era sempre lo stesso: questa maggioranza non si cambia.
Ma i patemi d'animo vissuti sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, quelli sull'indulto e quelli quotidiani che si vivono al Senato lo avranno convinto ad abbandonare la sua sicurezza.
Proprio ieri Prodi ha cominciato timidamente a parlare di maggioranza allargata. Cosa significhi e come sarà allargata questa maggioranza è ancora un mistero.
Ma il professore sa bene che il suo arroccamento su numeri esigui lo porterà presto ad un suicidio politico. D'altra parte, ipotizzare altre strade significa rispedirlo a pedalare sulle colline bolognesi.
Non c'è voluto molto tempo alla sinistra per comprendere che il dibattito sull'allargamento della maggioranza era controproducente e che se ne avvantaggiava l'opposizione di centrodestra che appariva con la forza che teneva nelle sue mani il destino del Governo.
Questa è la ragione principale per cui Prodi ha deciso la linea dura , che si traduce in un massiccio ricorso al voto di fiducia anche alla Camera, dove il centrosinistra ha una larga maggioranza.
Proprio perché la sinistra non è stupida, è stato banale - anche se non c'erano alternative - tentare di fare approvare anche un solo emendamento sui testi della manovra-bis o del decreto Bersani o del decreto Visco allo scopo di provocare un secondo passaggio al Senato a ridotto della scadenza del termine per la conversione in legge del decreto stesso (4 settembre).
Quindi Prodi ha scelto la linea dura, che sul piano formale consiste nel ricorso al voto di fiducia, ma sul piano sostanziale consiste nell'attacco a settori elettoralmente più vicini al centrodestra al fine di metterli sotto tiro per costringerli a cambiare orientamento.
Lo sgretolamento del centrodestra è il vero obiettivo della sinistra per cui non bisogna illudersi di fronte alle sue polemiche interne, ma bisogna considerare il fatto che questo sgretolamento avviene a livello di corpo elettorale come premessa dello sgretolamento a livello parlamentare.
Il punto debole della sinistra è nei rapporti interni di forza. I Ds hanno presentato un progetto di legge per tornare al sistema elettorale prevalentemente maggioritario: è chiaro l'obiettivo egemonico che si prefiggono.
Con il ritorno al Mattarellum, la massa di manovra elettorale Ds-Cgil viene esaltata a spese degli altri partiti del centrosinistra, e questo può provocare tensioni.
Non solo: dopo una fase difficile, Bersani sta riprendendo quota poiché la sua linea, nascosta dietro il disegno delle privatizzazioni, di attacco alla base sociale del centrodestra è condivisa da quasi tutta la sinistra.
Dopo che questo attacco avrà prodotto i suoi effetti, si potrà parlare di elezioni anticipate, eventualmente con una nuova legge elettorale che, contrariamente a quanto si afferma, non necessariamente sarà votata sulla base di larghe intese.
Prodi lo ha derubricato a "tormentone" dell'estate, facendo anche lo spiritoso con i giornalisti ("Allargamento? Cercate di non allargarvi troppo voi…"), l'allargamento della maggioranza resta al primo punto dell'agenda politica in vista della ripresa autunnale. Il Corriere ieri scriveva che emissari del premier hanno già contattato una decina di parlamentari del centrodestra per cautelarsi dai rischi, assai probabili, di incidenti. Anche le mosche sanno che il bacino in cui pescare è stato individuato in quella zona grigia - anzi biancofiore - della CdL in cui è attestata l'Udc. Non a caso ieri, quando Forza Italia, An e Lega sono uscite dall'aula per protestare contro l'ennesima fiducia posta dal governo sulla manovrina, i centristi di Casini sono rimasti ostentatamente al loro posto, tanto per dare agli avversari e al Paese l'immagine di un'opposizione disunita. Comunque, va preso atto che l'Udc ha affidato al suo portavoce Vietti il compito di definire "patetico" il tentativo di Prodi di calamitare parlamentari del centrodestra. Lo stesso Follini, uno dei maggiori indiziati, continua a respingere - come aveva fatto rispondendo all'invito di Enrico Letta - l'ipotesi della "piccola coalizione" preferendo insistere sul progetto di un governo di larghe intese. Ma di Harry Potter non c'è mai da fidarsi, come hanno ampiamente dimostrato i cinque anni di governo Berlusconi. E fa molto riflettere, in questo senso, la sua volontà, ormai esplicita, di uscire dall'Udc per iscriversi al Gruppo misto. Un trasloco che non equivarrebbe a un passaggio automatico col centrosinistra, ma che consentirebbe all'ex segretario udicino di valutare in piena autonomia i provvedimenti parlamentari, potendo così fornire un supporto surrettizio a Prodi, che al Senato ha bisogno di voti aggiuntivi come dell'aria per respirare. Follini ha già messo in cantiere i "circoli Italia di mezzo" con i quali potrebbe addirittura presentarsi alle regionali del Molise, oppure presentare liste autonome alle amministrative del 2007. Tutto questo sembra aver molto poco a che fare con i propositi, più volti manifestati, di aspettare la Grosse Koalition alla tedesca, e sembra piuttosto andare nella direzione di quelle "maggioranze variabili" tanto care a Giovanni Sartori. E al "restringimento dell'opposizione" auspicato da Prodi. Per la CdL questo è molto più di un segnale d'allarme.
Partita in sordina nonostante gli ingombranti interventi di Pannella, la querelle interna alla Rosa nel pugno assume sempre più i contorni della crisi.
Nonostante Boselli si dia da fare come pompiere per spegnere i "fuochi" pannelliani e come paciere per placare gli animi di chi non tollera più la prepotenza dei radicali, l'esito dell'appuntamento con il gruppo parlamentare per la rielezione di Villetti non è scontato. Anzi, stando alle cronache, pare molto più probabile che i fedeli a Pannella decidano di passare al gruppo misto, lasciando così cadere - insieme a Villetti - i petali della rosa e stringere nel pugno solo le spine. Spine che pungeranno l'intera coalizione perché non è da escludere che, "appassito" il fiore dell'accordo socialista-radicale, anche in nome di un sistema elettorale proporzionale, Pannella non rinunci - per ragioni di bottega politica oltre che di dna - a far valere i suoi convincimenti culturali che non sempre, anzi quasi mai, coincidono con quelli dell'Unione, dalla politica estera alla politica economica, dalle questioni sociali alla bioetica.
Un altro tassello, quindi, che si rompe nel caotico mosaico del governo Prodi il quale ogni giorno deve fare i conti con la debolezza della sua non-maggioranza e della sua leadership.
Partito come un brusio, il convincimento che questo esecutivo non dura diventa sempre più un coro le cui voci "alte" sono proprio all'interno del centrosinistra. Lo pensa addirittura lo stesso Prodi, l'hegeliano premier come lo definisce Giovanni Sartori in un recente fondo sul Corriere della Sera, quando sostiene che in mancanza dei voti si torna a votare. Tanto che l'editorialista non rinuncia ad una razionale replica: "Se si torna a votare, come fa Prodi a sapere che vincerà lui? Non lo sa (e non è nemmeno probabile)". E in risposta invece alla tesi ciclistica del premier secondo cui "pedalando si resta in sella", il professore chiude il suo articolo: "Auguri. Ma non lo credo".
Pensieri di Prodi, parole di Sartori. C'è da augurarsi che il centrodestra, Forza Italia sappiano farsi carico delle "opere" e fare una cosa "buona, giusta e fonte di saggezza" per il bene del Paese.
Il governo Prodi è in mano alle banche. Non solo perché i grandi banchieri hanno fatto la fila per partecipare alle primarie che hanno incoronato il Professore quale candidato premier. Non solo perché uno dei principali sponsor di Romano è un certo Giovanni Bazoli da Brescia, incidentalmente presidente di Banca Intesa. Ma anche perché se questo governo è riuscito a dispiacere quasi tutte le categorie (dai farmacisti ai tassisti, dai panificatori agli industriali), l'unica che non ha disturbato è proprio quella dei banchieri.
Anzi. Ha loro consentito di migliorare i bilanci. Come? Per esempio introducendo l'obbligo di pagare con assegni ogni transazione finanziaria: dal dentista all'idraulico. E per ogni assegno staccato, le banche guadagnano.
L'ultimo atto di come questo governo sia il governo delle banche viene dal decreto legislativo che modificherà la legge sul Risparmio. Quella legge, per difendere i risparmiatori, introduceva una serie di norme che vietavano meccanismi di finanziamento degli istituti di credito. Ora questo governo, con un colpo di spugna, toglie tutti quegli appesantimenti (così venivano visti dalle banche) burocratici, che altro non erano che maggiori controlli per evitare nuovi casi come i bond Parmalat e Cirio.
Incidentalmente, il nuovo presidente dell'Abi è un uomo vicino a Bazoli; cioè, a Prodi.
I movimenti erano nell'aria, ma il risiko organizzato dal nuovo comandante generale dei carabinieri, Gianfranco Siazzu, non ha precedenti. Nelle prossime ore muteranno, infatti, tutti i vertici dell'Arma: dal capo di Stato Maggiore ai comandanti interregionali e delle unità speciali.
Una rivoluzione che, a detta degli esperti militari, tiene conto dello stato di servizio e delle capacità dei singoli ufficiali superiori.
Dopo anni di attendismo, il generale Siazzu, a pochi mesi dal suo insediamento al vertice di viale Romania, ha proceduto a quella che gli stessi carabinieri definiscono una rivoluzione copernicana che, tra l'altro, non sembra tener conto delle spinte politiche, fatta eccezione probabilmente per il nuovo capo di Stato Maggiore, Dino Gallitelli, che da sottocapo aveva partecipato attivamente con il governo D'Alema per trasformare i Carabinieri nella quarta forza armata.
C'è da dire, però, che il peso politico del capo di Stato Maggiore si è molto assottigliato da quando ai vertici dell'Arma c'è un carabiniere. Prima di Gottardo, infatti, il capo di Stato Maggiore era considerato il vero comandante dell'Arma: nulla si muoveva, nulla si faceva se prima non era stato interpellato questo ufficio. Adesso che i carabinieri hanno un loro generale, la figura del capo di Stato Maggiore si è molto ridimensionata finendo per essere più assimilabile a quella di un supersegretario che non a una mente "politica".
Vediamo gli spostamenti:
Dino Gallitelli, da comandante regionale della Campania a capo di Stato Maggiore.
Elio Toscano, da capo di Stato Maggiore a comandante interregionale "Ogaden" di Napoli.
Massimo Cetola, da comandante "Ogaden" a comandante interregionale "Podgora" di Roma.
Giorgio Piccirillo, da comandante Unità speciali "Palidoro" a comandante interregionale "Pastrengo" di Milano.
Borruso, da sottocapo di Stato Maggiore a comandante delle Scuole.
Jadanza, da comandante regionale del Veneto a comandante della Scuola Ufficiali.
D'Angelo, da comandante della scuola Ufficiali a comandante della Divisione Unità Speciali.
Franzè, da comandante Unità Mobili a comandante Unità speciali "Palidoro".
Leso, da comandante del Centro Interforze a comandante delle Unità Mobili di Verona.
Borghini, da comandante dei Nas a comandante Centro Interforze di Vicenza.
Nei giorni scorsi era stato nominato il nuovo vicecomandante generale, Mencagli che comandava le Scuole. Adesso restano da nominare i generali di brigata che dovranno essere destinati a Napoli e a Padova e al Naas: il che comporterà sicuramente un nuovo valzer di ufficiali.