PAZZI IN
ALABAMA
La collocazione di Crazy in
Alabama in Italia non è stata certamente felice:
il film è andato a intrufolarsi tra due colossi come
Star Wars: Episode I e il kubrickiano Eyes wide
shut. E' destinato inevitabilmente a risentirne, ed
è un vero peccato, perché l'esordio alla regia
di Antonio Banderas è una pellicola che tratta temi
come la libertà e le discriminazioni razziali con una
delicatezza, un'eleganza ed un'ironia tali, difficili da
riscontrare in molte altre produzioni del genere. Per la
prima esperienza dietro una telecamera, Banderas si è
ispirato ad un libro di Mark Childress, a cui ha affidato la
sceneggiatura. Il ruolo principale (non poteva essere
altrimenti) l'ha costruito su misura per sua moglie, una
Melanie Griffith che non ricordo di aver mai visto
così in forma. Il personaggio del cattivo, uno
sceriffo gretto e razzista, è incarnato da Meat Loaf
Aday, famoso negli ambienti del rock, che conferisce alla
sua figura uno straordinario alone mefistofelico.
La dark comedy, che si svolge negli
anni '60, inizia subito con un morto ammazzato: è
Chester, un uomo dalla caratteristiche animalesche, il cui
cadavere è ritrovato nel freezer della casa in cui
viveva con la moglie Lucille. Ma qualcosa non quadra: al
corpo manca la testa
. l'ha presa con sé la
tenera Lucille, e l'ha nascosta in una cappelliera. Tutto
questo per dimostrare al marito che ce l'avrebbe fatta anche
senza di lui, che sarebbe riuscita a realizzare il suo
sogno: diventare una star hollywoodiana. La testa di
Chester, però, comincia presto a parlare; è
solo la prima di una serie di peripezie con cui si
scontrerà la donna, mantenendo sempre una schiettezza
e una forza d'animo a tratti epica, a tratti
esilarante.
Nel frattempo il nipote di Lucille,
Peejoe è testimone di un avvenimento sconvolgente:
durante una rivolta della comunità di colore in un
piccolo paesino, il vile sceriffo John Doggett uccide un
nero dodicenne, accidentalmente ma non troppo. L'uomo
è lo stesso che sta alle calcagna di Lucille,
smanioso di mandarla sulla sedia elettrica. Inevitabile,
allora, che le due situazioni si intreccino. Il finale, come
sempre, non si dice. Basti sapere che è sbalorditivo,
coinvolgente, emozionante; il tutto condito da uno humor
nero che nelle ultime scene raggiunge il suo
culmine.
La mano mi freme sulla tastiera, ho
l'impulso di scrivere che Banderas è migliore nelle
vesti di regista che nella recitazione; ma forse sarebbe una
cattiveria. Il fatto è che un film del genere non
può passare inosservato, né rimanere isolato:
108 minuti di sensibilità e tenerezza, e allo stesso
tempo originalità, cattiveria, profondo e graffiante
realismo. La dimostrazione che si può stupire anche
senza gli effetti speciali.
Voto: 7
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