Come il governo libanese, anche quello italiano di centrosinistra è prigioniero dell'errore irreparabile commesso imbarcando nella compagine ministeriale i suoi hezbollah. Non si fanno patti col diavolo senza perdere l'anima. Il Libano si è messo da sé nelle condizioni di esporsi alla reazione israeliana quando ha lasciato alle milizie armate del suo pericoloso partito di governo il controllo della regione di frontiera con lo Stato ebraico. Paga le conseguenze di una politica che non ha scelto, perché hezbollah non risponde a Beirut delle sue azioni, bensì ai burattinai che da Teheran e da Damasco tirano i fili della crisi mediorientale. Anche il governo Prodi va a rimorchio dei suoi hezbollah nelle scelte di politica estera, coinvolgendo l'Italia in una politica dettata dalle frange lunatiche della sua sinistra.
D'Alema non avrebbe messo la "discontinuità" rispetto alla politica del governo Berlusconi al vertice delle sue preoccupazioni, se non fosse per la necessità di tranquillizzare i suoi folli compagni di viaggio. I quali una cosa temono più della solidarietà con Israele, ed è la perdita della loro presa sul governo, in tutte le possibili gradazioni: dall'allargamento della maggioranza, alla dichiarazione di bancarotta del sinistra-centro accompagnata dalla ricerca di un'alternativa di grande coalizione alla tedesca. La conseguenza degli strumentalismi incrociati è il perfetto cinismo di una posizione di politica estera che sacrifica i principi a miserabili calcoli di bottega, e la verità delle cose a un'accozzaglia di affermazioni senza capo né coda.
A cominciare dall'accusa, mossa a Israele dal ministro degli Esteri, di perseguire una "visione militare della propria sicurezza", sostanziata da "reazioni al di là di ogni ragionevole proporzione". Affermazioni incompatibili con la reputazione di D'Alema come persona intelligente.
Come si fa a sorvolare sulle decisioni israeliane di ritirare le proprie truppe dalla striscia di Gaza, come già dal Libano meridionale, al preciso scopo di propiziare la ricerca di una composizione pacifica del conflitto? E com'è possibile rifiutarsi di constatare che ogni gesto di buona volontà dello Stato ebraico è stato seguito da offensive terroristiche, evidentemente dettate dalla scelta dei burattinai di Hamas ed hezbollah di tenere aperto il conflitto? Ne discende logicamente che Israele non può che avere una "visione militare" della sicurezza, e che il suo ricorso alla forza è necessariamente "proporzionato" alla gravità della minaccia e alla potenza dei suoi nemici reali.
Ma non è l'Italia che parla al mondo per bocca di D'Alema alla Camera: è il ministro degli Esteri che, come già Prodi al G8, fa da ventriloquo dei suoi hezbollah. Il sinistra-centro, interamente assorbito dallo sforzo di tirare a campare, non ha nessun contributo serio da dare alla costruzione di una pace giusta nel Vicino Oriente, e alla lotta contro il terrorismo.
In mezzo alla bufera mediorientale, che imporrebbe la presenza di un governo forte, affidabile e coeso, la sortita del sottosegretario Letta sull'esigenza di allargare la maggioranza ai moderati "responsabili" rappresenta un drammatico segnale di precarietà politica per una coalizione che a tre mesi dal voto di aprile non è più autosufficiente. Di fronte all'assemblea federale della Margherita, Letta ha sottolineato la necessità di "allargare questa maggioranza", aggiungendo "senza timore" che il centrosinistra non può "pensare di durare cinque anni in Senato con i voti dei senatori a vita". Da qui la proposta di "una forte azione di convincimento verso i settori moderati". Parole che hanno avuto l'effetto di un missile hezbollah dalle parti della sinistra radicale, tanto che il sottosegretario ha dovuto subito correggere il tiro, precisando che la maggioranza "è autosufficiente, ha dimostrato di esserlo in ogni momento e lo dimostrerà nei prossimi giorni, anche nella politica estera". Il che, però, non toglie che il governo debba "porsi l'obiettivo di adottare provvedimenti che convincano i cittadini e allo stesso tempo facilitino il dialogo con senatori e deputati che nel corso di questi cinque anni, siamo certi, capiranno che il vero riformismo liberale sta da questa parte". Una messa a punto che suona come un atto dovuto, ma che non elimina la sostanza del problema, cioè il fatto che nella sua prima dichiarazione Letta aveva certificato ufficialmente la crisi interna alla maggioranza. In effetti, i settori riformisti dell'Unione sono molto preoccupati per la piega che il dibattito politico sta prendendo su questioni essenziali come la politica estera e l'economia. Preoccupazioni non certo lenite dal commento di Follini, uno di quei "moderati" al quale Letta si rivolgeva segnalando l'esigenza di allargare la maggioranza.
La risposta di Harry Potter - per il quale il Paese ha bisogno di una grande coalizione, e non di una maggioranza un po' meno piccola - suona come un secco no destinato a riacutizzare i timori sulla tenuta del governo. L'Udc ha fatto notare che la proposta di Letta avrebbe trovato orecchie più attente se la maggioranza avesse avuto un approccio istituzionale diverso. Ma dopo aver fatto tabula rasa, quale dialogo possono pretendere? E allora l'ipotesi di una crisi riaffiora con sempre più forza. Tanto che Cossiga ha già individuato il conseguente percorso istituzionale: se Prodi cade al Senato, Napolitano dovrebbe respingerne le dimissioni e rinviarlo alla Camera. Poi, in caso di sì alla fiducia, dovrebbe sciogliere il Senato e indire nuove elezioni solo per questo ramo del Parlamento. Ipotesi bizzarra, ma che fotografa benissimo una situazione tutt'altro che tranquilla per la maggioranza.
È dal 1967, dalla cosiddetta "Guerra dei sei giorni", che la cultura dominante in Italia è decisamente anti-israeliana. L'entrata del generale Moshè Dayan a Gerusalemme rappresentò un punto di svolta cruciale nei rapporti tra la sinistra italiana e il mondo ebraico, appannando persino il ricordo della shoà. Quando poi ci fu la "Guerra dello Yom Kippur", con la conseguente crisi energetica, petrolio e imperialismo divennero i simboli della lobby ebraico-americana accusata di voler dominare il mondo. Erano gli anni della rivoluzione sessantottina e intere generazioni sarebbero poi cresciute col falso mito di Arafat, accolto come un eroe ogni volta in cui metteva piede in Italia, e della kefiah, diventata l'emblema della libertà contro gli oppressori. La deriva anti-israeliana conquistò sempre nuovi spazi tra gli operai e nella borghesia attratta nell'orbita comunista.
Eppure era stato proprio Stalin il capo di Stato che per primo riconobbe Israele, salvo poi scoprire la "congiura dei medici ebrei" all'inizio degli anni Cinquanta e collocarsi agli antipodi di Israele via via che lo Stato ebraico si avvicinava agli Stati Uniti. Da allora in poi, in Italia, si sono fatte autentiche acrobazie per distinguere Israele dagli ebrei, senza però cancellare il sospetto di un antisemitismo strisciante.
Negli anni Settanta Israele dovette difendersi dal terrorismo di "Settembre nero", dai vari gruppi palestinesi insediati a Beirut. Le prime guerre libanesi, che portarono al massacro di Sabra e Chatila, allargarono il solco tra la sinistra italiana e Israele. Nel "grande calderone" della condanna alla politica dello Stato di Israele si mescolano anti-israelismo, anti-sionismo e anche antisemitismo. I terroristi di Al Fatah erano comunque "martiri" che lottavano per l'indipendenza del loro Paese contro uno Stato "fascista".
Le politiche levantine della Democrazia Cristiana hanno contribuito a far prosperare nel Paese un humus anti-israeliano che ha trovato una censura storica solo col governo Berlusconi. E oggi che la sinistra è tornata al governo, con una fortissima ala filoislamica, mentre Israele è sotto un attacco incrociato che torna a minacciare la sua stessa esistenza, il ministro degli Esteri è costretto ad accusare in Parlamento il governo di Tel Aviv di "reazione sproporzionata". Questo per tener buona la sinistra radicale in vista del voto di oggi sul rifinanziamento della missione in Afghanistan. In nome della sopravvivenza del governo, i Ds non esitano a ripescare i vecchi slogan e l'antica doppiezza comunista: Fassino partecipa alla veglia in sinagoga, D'Alema attacca Israele. Tutto secondo copione.
Alcuni commenti a microfoni spenti da parte di esponenti autorevoli della maggioranza definiscono il discorso di D'Alema ieri alla Camera come "tremendo", "forse neanche un ministro di Rifondazione avrebbe pronunciato quelle parole" (Giacchetti della Margherita).
In effetti, il discorso di D'Alema è stato deludente, almeno per chi confida sempre nella proverbiale intelligenza politica del ministro degli esteri, regolarmente contraddetta alla prova dei fatti.
L'intervento di D'Alema è stato durissimo nella sostanza contro la politica di Israele e degli Stati Uniti. Le maggiori responsabilità di quanto sta accadendo in Medio Oriente sono fatte risalire all'intervento contro l'Iraq, che avrebbe alimentato e non sopito le tendenze estremiste del fondamentalismo islamico. Addirittura, nel suo intervento, D'Alema ha tenuto a ricordare che il regime di Saddam costituiva un argine al fondamentalismo religioso degli sciiti, venuto meno (sic) dopo l'applicazione dell'ideologia interventista degli americani per esportare la democrazia.
Vi sono due possibili spiegazioni di questo atteggiamento di D'Alema. Innanzitutto la mai superata doppia verità, in questo caso una da esibire per salvare la coscienza e in occasione dell'incontro con la comunità ebraica di Roma, l'altra di carattere politico per tenere insieme una coalizione divisa e per accontentare l'ala estremista della sinistra.
Cosicché, Fassino può ottenere gli applausi durante la veglia in solidarietà del popolo ebraico, giustificando la reazione di Israele come legittima difesa dall'attacco dei terroristi islamici, e D'Alema può in Parlamento ottenere l'approvazione entusiasta di Diliberto e della sinistra radicale.
La seconda ragione del tipo di discorso di D'Alema, indifferente al dovere della coerenza e della verità, risponde alla necessità di oscurare il voto sul rifinanziamento dell'Afghanistan, in cui stanno emergendo le maggiori divisioni, dietro la ritrovata unità sulla posizione da assumere nei confronti del Medio Oriente e di Israele.
Il giorno dopo l'accordo sui taxi il ministro Bersani, posto sugli scudi come eroe delle liberalizzazioni allorché varò il decreto che colpiva alcune categorie autonome e minori diventa obbiettivo di polemiche per i suoi "cedimenti". La sua dichiarazione su un "pareggio soddisfacente" con i tassisti si rivela una gaffe contro la quale si pronunciano oggi Rutelli e la presidente della regione Piemonte Bresso che si chiede come farà a questo punto a condurre la sua battaglia contro la piazza a proposito della Tav.
Bersani va incontro ad un isolamento e viene lasciato in ombra invece l'errore fondamentale del ministro, quello di avere escluso dalle consultazioni preventive, le categorie dei lavoratori autonomi restringendo il campo solo alle "concertazioni" riguardanti i sindacati. Questo limite venne però indicato come un "errore di metodo" da fonti della CdL subito dopo il varo del decreto che ha rappresentato, in sostanza, un atto di forza, o di prepotenza, contro le categorie ritenute più marginali, quelle del lavoro autonomo.
Allo stato attuale della vertenza, a Bersani vanno addebitati i disagi provocati alle reazioni dei taxisti, e le critiche di questi giorni. In sostanza, poi, Bersani si limita alla fine a demandare ai Comuni le ulteriori fasi della vertenza che potranno avere così altre code. Non è davvero un buon inizio.
Scosse sismiche che, seppur di lieve entità, sono destinate ad aumentare e comunque a far discutere: questo lo scenario della politica italiana, nella maggioranza come nell'opposizione.
Tra lo sfortunato decreto Bersani, l'individualismo della politica dalemiana, l'inadeguatezza del premier e la generale inconciliabilità dei suoi componenti, il governo traballa ed è costretto ad affrontare quotidiane prove di "tenuta" della maggioranza. Prova ardua tanto che oggi, sulla Stampa e sul Corriere della sera, i soliti bene informati Minzolini e Verderami prefigurano nuovi scenari, nuovi assetti e nuovi equilibri. In alcune parti coincidenti.
Anche nella Casa delle libertà il momento è, come direbbero i francesi, pétillant: sono stati lanciati messaggi forti che fanno prevedere nuovi panorami per il centrodestra.
Casini insiste con il disconoscere la leadership di Berlusconi, respinge l'ipotesi del partito unico, accoglie con interesse l'appello di Enrico Letta per allargare la base parlamentare del governo e giustifica l'appoggio che il suo partito darà al Senato come strategia "per riconquistare il voto degli elettori moderati".
Dopo gli scandali, Fini detta nuovi comportamenti e prospettive future: tutti più composti, educati ed impegnati per fondare un partito unitario del centrodestra ed entrare a testa alta nel Ppe.
In un'articolata intervista a Repubblica, per gli azzurri, Giulio Tremonti ripropone con la forza degli argomenti una tesi già avanzata da Berlusconi: la grande coalizione per risolvere i problemi di un Paese diviso. "Forza Italia e Ds preparatevi".
Questo il quadro del nuovo "risiko" politico: ognuno ha occupato i suoi territori e ha piazzato i suoi carri armati. Adesso parte la fase più delicata e importante, quella in cui intervengono i generali, i presidenti. I leader.
E, a partire da oggi, Berlusconi farà bene a diventare l'unico interlocutore della CdL: dovrà essere, e non solo apparire, il leader del centrodestra. Per non rischiare l'isolamento, per non risultare il grande assente e per dare conferma di una convinta linea politica al suo elettorato. Quel popolo di centrodestra che lo vuole protagonista. E vincitore.
Non è un caso che la maggioranza si trovi in cattive acque e che Enrico Letta denunci tutti i limiti del centrosinistra proprio quando l'opposizione non ha sviluppato attacchi frontali.
È la conferma della linea che abbiamo sempre segnalato: il centrosinistra, per così dire, è in grado di fare tutto da solo e non servono spinte. Al contrario, proprio nei momenti di maggiore difficoltà del centrosinistra, gli attacchi del centrodestra potrebbero sortire un effetto opposto a quello voluto, spingendo le forze della maggioranza a una coesione forzata, a una unità obbligata per reagire alle bordate della CdL.
La strategia ci sembra vincente e utile per il futuro: lasciare che le contraddizioni del centrosinistra emergano e si sviluppino da sole in tutta la loro drammaticità.
Questo, ovviamente, non deve impedire al centrodestra di stigmatizzare ed amplificare i problemi politici della maggioranza, senza tuttavia enfatizzarli.
I terreni di divergenza più profondi sono, come previsto, due: la politica estera e l'economia.
Sulla politica estera si potrebbe ironizzare su una "maggioranza sfortunata" perché le continue crisi internazionali non fanno altro che creare nuove tensioni e lacerazioni all'interno del centrosinistra. Se fosse per Prodi di politica estera non si dovrebbe mai parlare perché meno se ne discute e minori sono i problemi che la sua maggioranza deve affrontare.
E invece, purtroppo, gli sviluppi della politica estera costringono il governo a prendere posizione su materie delicate e controverse, con continui rischi di fratture interne alla coalizione: sull'Afghanistan ancora non si capisce se la maggioranza ce la farà a restare unita e avrà i numeri al Senato e già si aggiunge un nuovo capitolo insidiosissimo, quello del Medioriente, con la crisi tra Israele e Libano.
Una situazione tragica che Prodi riesce a far diventare esilarante, con la proposta di affidare una mediazione all'Iran, potenza che arma il terrorismo antisemita, nega l'Olocausto e parla esplicitamente della necessità di annientare lo stato di Israele. Un po' come se gli ebrei, per sfuggire a Hitler, chiedessero aiuto al capo delle SS, Himmler.
Come se non bastasse Prodi cade in una grave contraddizione: si era proposto - in chiave antiberlusconiana - come il paladino di una politica estera europea e contro l'uso di militari italiani nelle missioni all'estero; ora lo troviamo a chiedere un intervento dell'Onu (che scavalca a piè pari l'Unione Europea) e a dare la disponibilità a inviare truppe di interposizione in Libano!
Tutto, dunque, concorre a rafforzare il giudizio di una totale inaffidibalità del centrosinistra e dell'esecutivo nell'affrontare le crisi internazionali e dare del nostro Paese una immagine coerente e seria.
Non è meno difficile, per il centrosinistra, la gestione dell'economia.
La retromarcia sul decreto che riguarda le finte liberalizzazioni (a proposito dei tassisti) sta provocando tre effetti da non sottovalutare:
Anche in campo economico, insomma, emerge l'inaffidabilità e l'incompetenza del governo proprio quando le difficoltà dell'economia nazionale richiederebbero scelte coerenti e coraggiose in una linea di chiarezza e continuità.
"Seminare" nell'opinione pubblica dubbi sulla qualità del governo e certezze sull'inaffidabilità della maggioranza che lo sostiene, crediamo sia la strada giusta per metterli in crisi al più presto.
Non disturbate il manovratore quando la guida è a sinistra. Al di là della sonora batosta inflitta dai tassisti a Bersani e al suo decreto, la lezione che si può trarre è che non tutte le categorie sono uguali davanti al governo. Per il quale la barra della concertazione funziona a singhiozzo e gli scioperi si differenziano in "buoni" e "cattivi", a seconda di chi li fa.
La sinistra che crocifigge i tassisti, sostanzialmente per "interruzione di pubblico servizio", è la stessa che appoggiava incondizionatamente i tranvieri di Milano, i ferrovieri sul piede di guerra, i dipendenti dell'Alitalia quando mettevano in ginocchio non qualche città, ma l'intero Paese nella scorsa legislatura. E' perfino superfluo rammentare che mai nella storia di questa Repubblica un governo, quello di Berlusconi, ha dovuto subire un tale "ingorgo" di scioperi, politici e non contrattuali, con la sinistra plaudente.
Ora la sinistra si accorge che la "piazza" è una brutta bestia, che una volta lasciata a briglie sciolte non guarda più in faccia a nessuno, che non si può negare a qualcuno il diritto di rappresentanza e di protesta, quando in passato ad altri è stato graziosamente concesso di andare anche oltre il lecito e contro le regole.
Vediamo la concertazione. Dicono da sinistra: non accettiamo lezioni da una destra che la concertazione se l'è messa sotto i piedi. Non è vero, ma anche se fosse così il problema è un altro. E' quello di una sinistra che si ricorda della concertazione quando le pare dopo averla messa al centro delle proprie politiche sociali. Non aveva detto, ma ora l'abbiamo capito, che l'unica forma di dialogo che considera valida è quella con la triplice sindacale. Tutti gli altri sono carne da cannone.
Lamenta giustamente il presidente di Confcommercio: "Il confronto sul tasso di inflazione programmata è stato fatto solo con Cgil, Cisl e Uil". Cosa si aspettava? Per questo governo contano solo i sindacati ("La mia linea è la vostra", proclamò Prodi all'assemblea della Cgil) e neanche tutti: solo quelli col "bollino blu", che difendono il lavoro dipendente e le categorie protette.
La sinistra scopre oggi (fino a ieri andava bene così, c'era Berlusconi) che esiste "un evidente problema di rappresentanza se i tassisti hanno 19 sigle" (Cofferati). Non è la stessa cosa in Alitalia, tra i tranvieri e i ferrovieri? La sinistra, perfino quella più riformista (Pietro Ichino), arriva a sostenere che la concertazione si deve fare solo con chi è d'accordo con il Governo. Che lo sciopero degli avvocati "non produce perdite per chi lo pratica e neppure per il suo datore di lavoro". Sarà anche vero, chissà, ma cosa vuol dire? Che il diritto ad astenersi dal lavoro è negato alle categorie autonome?
Lacrime di coccodrillo di una sinistra che se l'è cercata.
Aguzzini allo stato puro, irrimediabilmente giustizialisti, nell'Unione lottano con le unghie e con i denti per arrivare a un atto di clemenza generalizzata per alleviare le inumane condizioni di vita dei detenuti, per voltare pagina, per cominciare con questo atto di pacificazione una nuova era della vita politica italiana.
Clemenza generalizzata sia, dunque, per tutti, tranne che per uno: Cesare Previti. Tutti meritano l'indulto e l'amnistia, stupratori, assassini, rapinatori, ladri, spacciatori di droga, truffatori. Previti no. Previti è l'emblema del rifiuto all'indulto da parte dell'Italia dei Valori, che addirittura in suo nome minaccia di uscire dal governo. Previti è il nome di un emendamento presentato dall'Udc per escludere dall'atto di clemenza proprio i condannati per corruzione in atti giudiziari. Previti è il motivo per cui l'Unione in blocco ha presentato e votato un emendamento che esclude dall'indulto le pene accessorie perpetue (cioè l'interdizione del deputato azzurro dai pubblici uffici e dalle cariche pubbliche, come quella di parlamentare). Insomma, il centrosinistra sa bene che senza Forza Italia non riuscirà mai ad avere i voti in Senato per ottenere l'indulto (ci vuole la maggioranza dei due terzi dell'aula), quindi nella maggioranza accettano di malavoglia che esso riguardi anche Previti, ma a patto che egli non possa più rientrare in Parlamento.
E' davvero nauseante che a sinistra si riempiano la bocca di clemenza, indulto, amnistia, perdono, pacificazione, per poi ridurre tutto a Previti, per poi pretendere che egli sia l'unico a doverla pagare cara. Eccola la sinistra, che attacca presunte leggi ad personam e poi emana uno dopo l'altro provvedimenti contra personam.