Prodi resta prigioniero nella tenaglia stretta da sinistra radicale e sindacati, e la Finanziaria sembra destinata a perdere progressivamente pezzi da qui a fine settembre, col risultato finale di sconfessare definitivamente Padoa Schioppa e il suo presunto rigore. Il fatto è che per vincere le elezioni, Prodi ha promesso nel suo programma che avrebbe eliminato lo "scalone 2008" previsto dalla riforma Maroni, e ora è in grave difficoltà perché non sa come tappare il buco da lui stesso creato, mettendo a rischio la stabilità dei conti pubblici. L'esito della sceneggiata appare scontato: alla fine la sinistra troverà un compromesso politico sulla pelle del ceto medio, aumentando la pressione fiscale sulla parte più produttiva del Paese, senza attuare i necessari interventi strutturali sulla spesa. Intanto le laconiche dichiarazioni rilasciate in questi giorni da un entourage del Tesoro che vive praticamente in stato d'assedio dimostrano essenzialmente due cose: la prima che l'allarmismo sull´eredità del governo Berlusconi era infondato; la seconda che il ministro dell'Economia, vista l'accoglienza nella maggioranza, ha già innestato la marcia indietro rispetto agli annunciati propositi di rigore.
E infatti la questione di come intervenire sulla spesa pensionistica è stata rimandata alla fine di settembre, sulla spinta congiunta di Cgil, Pdci e Rifondazione. Ma se il governo sarà davvero in grado di tagliare le pensioni, come chiedono insistentemente la Commissione Europea e il Fondo monetario internazionale, non potrà limitarsi a premiare chi resta al lavoro senza penalizzare chi esce prima. Prodi sa che l'obiettivo primario dei sindacati - l'abolizione del cosiddetto scalone - potrà essere messo sul piatto in cambio di alcuni altri correttivi, e sta pensando di accompagnare la riforma ad un anticipo della costruzione del cosiddetto secondo pilastro, con il Tfr ad alimentare la previdenza integrativa, e ad un intervento sui contributi degli autonomi.
Ma l'ipotesi più probabile è che la riforma delle pensioni resterà fuori dalla manovra economica, perché questa volta la legge Finanziaria - a differenza di quel che è accaduto negli ultimi quindici anni - dovrà essere blindata davvero, visti i numeri risicati di cui dispone la maggioranza al Senato.
E non è un caso se alla festa della Margherita Prodi ha parlato lo stesso linguaggio di Epifani, dicendo di voler cambiare le pensioni in direzione della volontarietà e di non voler più sentir parlare di innalzamento dell'età delle anzianità.
Insomma, i riformisti della maggioranza stanno perdendo in partenza anche questa partita.
Una manovra sbrindellata, lacera, contusa. Insomma, fotocopia della maggioranza di Romano Prodi. Ieri, a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio ha chiesto aiuto ai sindacati. Il suo ragionamento è stato il seguente: con questa maggioranza non riesco a governare; ho bisogno che almeno la piazza non mi sia contraria. I sindacati gli hanno detto: se metti le pensioni nella finanziaria siamo obbligati allo sciopero generale, un rischio che non ti puoi permettere. Ne consegue che devi togliere le pensioni dalla manovra.
Detto e fatto: primum vivere. Gli interventi previdenziali finiscono in una legge delega. Rifondazione è contenta. Ma non basta. Pur di tenere insieme la coalizione, Prodi s'impegna anche a ridurre l'entità della manovra: ha i margini d'azione riservati dalle maggiori entrate garantite dalla finanziaria di Berlusconi e Tremonti. Così, al momento, la manovra scende a 27 miliardi (dai 35 iniziali). Ed ha margini di sicurezza per scendere fino a 25 miliardi.
In compenso, rischiano di andare in soffitta il taglio di 5 punti del cuneo fiscale e contributivo ed i finanziamenti per infrastrutture.
E poco importa se questo profilo di finanza pubblica non coincide con quello tratteggiato da Padoa Schioppa. Prodi è convinto che il ministro dell'Economia (spalleggiato da Scalfari) giochi una partita tutta sua all'interno del governo da quando non lo ha informato della sua decisione di ridurre la manovra da 35 a 30 miliardi. Quindi, sta al ministro decidere se accodarsi alle scelte politiche di Prodi, o dimettersi. E per il momento non si muove da Via XX settembre. Tant'è che accetta che sia il presidente del Consiglio a "giocarsi in prima persona" un'ulteriore riduzione dell'entità della finanziaria.
Gli equilibrismi di Romano Prodi sulla finanza pubblica seguono una scaletta temporale ben precisa. Che si scontra su un unico scoglio: la Ragioneria generale dello Stato.
Il presidente del Consiglio, istigato da Vincenzo Visco, punta a ridurre fino a 25 miliardi la manovra per il 2007: l'andamento delle entrate consente questa riduzione. In questo modo mette a tacere Comunisti italiani, Verdi e Rifondazione. In più, affidando ad una legge delega la riforma delle pensioni, può rispettare anche la richiesta che viene dalle frange estreme della coalizione di "spalmare" la manovra. E soprattutto accontentare i sindacati che non vogliono sentire parlare di pensioni nella manovra. Una legge delega sulla previdenza, che non può essere collegata, ma solo agganciata alla finanziaria, verrà approvata in epoche successive alla legge finanziaria. Esattamente come chiede Mastella, che ritiene il bilancio 2007 chiudersi il 31 dicembre; e, quindi, tutti gli interventi di correzione possono essere adottati durante l'intero anno solare: un obbrobrio in termini di finanza pubblica.
Resta da chiarire se per accontentare Padoa Schioppa, Prodi acconsentirà al blocco previdenziale di sei mesi delle pensioni di anzianità.
Senza questo decreto di blocco, infatti, difficilmente la Ragioneria potrà "bollinare" la finanziaria di Prodi: non sarebbe coperta.
I problemi per Romano, però, rischiano di arrivare dagli industriali e da Bruxelles. Se la manovra scende a 25 miliardi, infatti, non ci sono più le risorse per finanziare il taglio del cuneo fiscale e contributivo, che da solo costa 10 miliardi. E non ci sarebbero nemmeno i 7 miliardi necessari alle infrastrutture; con il rischio di aprire un fronte di conflitto con Di Pietro.
Una manovra d 25 miliardi, poi, non supererebbe l'esame della Commissione europea, in quanto non rispetta il Patto di Stabilità che prevede interventi decisi in periodi di buona crescita; e chiude un occhio se viene superato il tetto del 3% quando il pil è zero virgola.
In campagna elettorale, Romano Prodi chiedeva il voto promettendo felicità. Ieri, ospite di Rutelli alla festa della Margherita, ha ripreso quella parolina per destinarla agli extracomunitari: "La cittadinanza per tutti gli immigrati, anche così si fa felice la gente", ha dichiarato con aria soddisfatta dal palco di Caorle.
Lanciata prima delle vacanze estive, la proposta di rendere cittadini italiani quegli stranieri che vantano appena cinque anni di residenza nel nostro Paese aveva sollevato non poche polemiche suffragate soprattutto dall'aumento degli sbarchi di clandestini, molti dei quali finiti tragicamente.
E non era necessario un master di responsabilità sociale per sapere che la promessa di una rapida regolamentazione avrebbe attirato gli extracomunitari riportando il caos in un settore di difficile gestione che solo grazie alla legge Bossi-Fini ha trovato il giusto equilibrio tra "sentimento e ragione", la giusta coniugazione tra "offerta e domanda", tra la disperazione di questi uomini e donne e le esigenze del nostro mondo del lavoro.
Qualche malpensante ha insinuato che la promessa di "cittadinanza breve" era dettata dall'esigenza dell'Unione di coltivare un nuovo bacino di voti: può darsi che non sia così ma rimane pur sempre una prova della inaffidabilità di questo governo che mostra di coltivare più gli interessi di partito che non quelli generali.
Prodi dovrebbe essere più attento ad usare la parola "felicità" e soprattutto a verificare che la felicità di qualcuno non vada a discapito di altri. Un vecchio saggio diceva che la "felicità è formata dalle sventure evitate": oggi - dopo il 9 aprile - gli italiani hanno un motivo in più per non sorridere.
Se si esclude il tentativo di rivitalizzare il partito, riaccendere il dibattito e l'iniziativa di Forza Italia all'interno del centrodestra, persino l'ambizione di scuotere il leader alla fine delle vacanze estive, le iniziative di tanti giornali moderati in queste ore sono oggetto di discussione. Nel metodo più che nel merito, cioè rispetto all'obiettivo che tutti auspichiamo: un grande rilancio del ruolo di opposizione che restituisca al partito la responsabilità e la consapevolezza di prima forza politica del Paese, alla cui guida resta l'uomo che ha reso possibile l'ultima (vera) rivoluzione italiana: il bipolarismo.
Non c'era bisogno delle "trombe" suonate dai giornali "amici" per comprendere che la base azzurra non aspetta altro che la chiamata ad un impegno massiccio e riconoscibile sul territorio, di quelli che lasciano il segno. Questa circostanza non va enfatizzata a freddo ma preparata quando si hanno chiari gli obiettivi che sono, a ben vedere, ancora gli stessi di inizio estate.
Berlusconi e la classe dirigente azzurra dovevano sostanzialmente capire se Prodi sarebbe potuto cadere tra le morse di una confusa politica estera e i ricatti della Finanziaria d'autunno o se l'appuntamento per la rivincita fosse a più lungo termine e ci si dovesse attrezzare per una opposizione faticosa ma più manovriera.
E' per questo che Berlusconi, a cui troppi quotidiani amici chiedono di battere un colpo come se la politica si facesse con la grancassa, ha programmato la sua uscita di Rimini in attesa di dire (o di far dire) la sua in quel di Gubbio nel prossimo fine settimana.
Rispettiamo la buona volontà e l'entusiasmo garibaldino di chi usa i giornali per invitare alla rivoluzione di piazza, ma guai a scambiare l'importanza di ciò che si propone con chi la propone. Legare delle "mosche cocchiere" servono a distrarre gli ultimi turisti sotto gli ombrelloni, mentre questa fase politica e soprattutto la capacità di incidere in essa di Silvio Berlusconi, meritano più riflessione e rispetto.
Un esempio? Prodi e D'Alema hanno dovuto supplicare Chirac per avere qualche soldato in più nella passerella libanese! Berlusconi non avrebbe che da invitare Sarkozy per una grande manifestazione dell' "Europa che vogliamo" dove si ritroverebbe il meglio della Francia e il meglio dell'Italia moderata. Il copione che hanno scritto è lo stesso.
Una delle ragioni delle difficoltà incontrate in questi anni sul versante del nostro elettorato risiede nella assoluta impoliticità dei quotidiani amici e degli intellettuali di area che partecipano al dibattito politico.
Primo esempio: le vacanze. A parte il diritto di Berlusconi, come di chiunque altro, di trascorrere le vacanze come desidera, dopo un lungo e stressante periodo di lavoro. E tralasciando il fatto che la stampa di regime ha amplificato due cene alle quali Berlusconi è stato invitato e che, per la sua sola presenza, ha attratto centinaia di persone entusiaste, il problema è che un quotidiano di centrodestra si accanisce da alcune settimane, a fornire un'immagine negativa e oltretutto non conforme alla realtà del leader dell'opposizione. E' paradossale che, mentre un quotidiano di sinistra come Il Riformista fornisce un'interpretazione intelligente e acuta della vitalità di Berlusconi, altri, al contrario si esercitano in un moralismo bacchettone, politicamente ostile.
Secondo esempio: la politica estera. Paolo Guzzanti sostiene su Il Giornale che non bisogna votare la missione in Libano e che occorre inaugurare un'opposizione irresponsabile e distruttiva. Questa posizione è totalmente sbagliata e non aiuta i nostri elettori a comprendere la posta in gioco. Un conto è indicare e rimarcare tutti i rischi e gli errori politici che sottostanno alla missione dell'Onu, soprattutto da parte italiana, un'altra cosa è comprendere che non possiamo in alcun modo sottrarci alla responsabilità di sostenere una missione avallata dagli Stati Uniti e da Israele, cioè dai nostri amici.
Terzo esempio: Forza Italia. Nel momento in cui il coordinatore nazionale del partito apre un confronto e una discussione nel partito per coinvolgere tutti in una grande partecipazione corale alla vigilia di Gubbio, sulla base di proposte concrete lungamente attese, dagli intellettuali di area ci si aspetterebbe un contributo positivo e non demagogico e personalistico.
Oggi dice che "andare in pensione a 57 anni è aberrante", ma quando, nel 1994, il governo Berlusconi propose la prima, seria, riforma della pensioni, Massimo D'Alema - allora da poco diventato segretario del partito - andò in tutte le televisioni ad accusare il governo di "macelleria sociale".
Eppure quel progetto di riforma delle pensioni fu allora definito "equo e lungimirante" da alcuni economisti, tra cui Romano Prodi a cui nessuno aveva ancora proposto di diventare leader della sinistra.
Se quella riforma fosse andata in porto, se i sindacati e la sinistra non avessero provocato - con ben tre scioperi generali in poche settimane - il più duro scontro politico e sociale degli anni 90, oggi non staremmo a discutere di pensioni.
La cosa più rilevante, però, è la doppiezza togliattiana di D'Alema, che si rivela ancora una volta il leader politico più intriso di comunismo e del peggiore, quello della doppia verità, dell'inganno continuo, della manipolazione dei fatti a seconda di chi i fatti li compie.
Qualche esempio:
Questo è Massimo D'Alema, il comunista che qualcuno continua a considerare l'unico interlocutore possibile di Berlusconi nel centro-destra, mentre è l'uomo che - da quando è diventato segretario del suo partito, cioè da dopo al prima vittoria di Silvio Berlusconi - lavora per un unico risultato: espellere dalla politica l'unico che ha impedito ai comunisti la duratura conquista del potere. Una volta D'Alema disse: "voglio vedere Berlusconi fare l'elemosina all'angolo della strada". Non è proprio il caso di aiutarlo in questo progetto, che oggi è, a sinistra, ancora attuale.
''Un elenco di nomi e di poltrone Rai, come ai tempi delle antiche e peggiori lottizzazioni. E' un episodio gravissimo, per di piu' denunciato da un esponente di spicco della stessa maggioranza. Che attendibilita' ha quell'elenco? E soprattutto chi l'ha compilato e lo sta facendo circolare?''. Cosi' Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, interviene sul ''foglietto'' con i nomi di giornalisti per incarichi ai vertici di tg e reti Rai che, secondo il deputato della Rosa nel Pugno Daniele Capezzone, ''circola nei palazzi romani''.