Libertà d’espressione. È libertà quella che apre
la prima pagina di questa raccolta di poesie di Pier-Franco Donovan e
subito, al di là di uno spirito polemico – giustamente indignato
davanti alla inattendibilità dei giudizi elargiti da coloro che della
cultura dovrebbero essere la guida – mette il dito su una piaga della
realtà dove l’iniquo abbonda, dove il sollazzo prende il posto della
serietà, dove il carnascialesco rimpiazza la silenziosa dignità.
Appunto. Dignità. È il filo blu di questa raccolta in
una serie di poesie intense, profonde, eleganti, dove lo scopo principale
continua ad essere la dignità, o una intensa aspirazione ad essa, e dove
la fragranza dei versi in un miscuglio riuscito di pensosità sofferta
riesce a dare un piglio fresco alla stesura ritmica e dove il verde dei
sogni combina un insieme incantevole con la pacata constatazione del
dolore. Dolore come assenza di qualcosa di vitale, come una radice
strappata col suo fiore dalla sua zona assegnatale di diritto, che vive
come spazio vivo d’attesa vibrante e ricettività totale. Si veda la
poesia:
Una musica sconosciuta
investe l’udito della mente,
un’intima melodia avvolge
il flusso di sogni riemersi
dall’oceano della memoria
come impercettibili correnti
attraverso la tregua del sonno.
La luce del sole ha disperso
il canto di quelle acque:
resta solo lei, labile traccia,
ancora incosciente, sepolta
tra i cuscini di un ricordo.
Emozioni profonde, inquadrature naturali, che si
infilano come quadri in una galleria, sono sottolineati da un pensiero
continuo, costante che le incornicia dentro un unico legno – un legno
scuro, un legno prezioso, esotico. Linee di mogano o palissandro attorno a
profondità notturne
Il peso della notte soffoca
il respiro dei sogni,
un deserto di tenebre
affolla il succedersi
dei giorni. Sperduto
nel labirinto quotidiano,
come ritrovare il filo di luce?
O
accanto a fiumi gonfi ma non più minacciosi:
Il fiume scorre calmo fra gli argini
– come i pensieri –
in questa notte senza luna.
Le piogge sono finite,
il pericolo è passato,
le paure tornate al loro posto
in attesa dei prossimi rovesci.
E poi c’è la presenza discreta ma essenziale di un
amore, come ferita:
Nebbia, nebbia, sempre nebbia,
davanti agli occhi, alla ragione,
al cuore intirizzito della vita.
Attraverso i monti dell’Appennino
in vesti d’autunno, solo brevi squarci
lasciano intravedere, poco oltre,
altra nebbia.
È un lungo attraversare
lungo l’infinita striscia
d’asfalto nera, grigia
percorsa da strisce continue
e discontinue.
Passato e presente
corrono paralleli,
non si sa né si può capire
dove portano il pellegrino
e la sua scorta di pensieri,
affanni, amori e affari,
rapito dal vortice della vita.
E poi come riscoperta:
Nel buio dell’esistenza un lampo
trafigge spicciole quotidianità,
annulla meschine individualità.
L’universo si apre con la sua essenza
e rivela forme, colori, sapori, odori, suoni
che sono, eppure vengono negati.
La creazione svela il mistero
celato dietro una piccola parola
ad un tempo carne e spirito,
una parola segreta d’amanti
ritrovati nelle spire del tempo,
affiorati dal labirinto dello spazio
in un unico punto, principio e fine
del pellegrinaggio d’anime terrestri
in lotta con l’ammaliatrice morte.
Nel buio dell’esistenza l’amore.
Oppure:
Raggi di sole irrompono
attraverso le nebbie del passato,
fugano ombre, rischiarano angeli,
scoprono falsità, apparenze,
vani sogni di parole.
L’orizzonte si apre alla mente,
nuovi colori, nuove possibilità
invadono gioiosi lo stanco futuro,
richiamando voci, incoraggiandole,
perché per un attimo, uno solo,
sia luce.
L’amore nella poesia di Pier-Franco Donovan è luce e
dramma, è nuance e taglio di lama, è imperativo e insistente. L’autore
gioca magistralmente fra queste venature, le percorre, ci scivola dentro,
le vive con coraggio fino all’ultimo. E non urla. Non impreca, non
dispera.
Ma c’è un altro elemento che si evidenzia con una
certa forza nella poesia di Donovan. È la presenza, nella stessa persona,
nella stessa anima, se è concesso questo termine, sempre così usato e
così abusato, di due realtà culturali, una italiana, l’altra americana
o irlandese-americana nel suo caso. È un fenomeno che si riscontra di
frequente fra le persone che per discendenza o per necessità di vita o
altro, vivono in due paesi o dividono la loro vita fra due paesi che dopo
un numero d’anni non si sentono più né una cosa né l’altra o
l’una cosa e l’altra. Sono quelli che hanno ‘la frontiera nel
cuore’ – mi piace chiamarli così – e che pagano la conquista, l’arricchimento che è dato
loro dal vivere dentro due culture, con una sorta di lacerazione dolorosa.
Conosco molta poesia, molti poeti immersi in questa
esperienza e tutti cercano una sorta di unità interiore scendendo in
profondità dentro gli archetipi loro e quelli collettivi. Quindi scende
in profondità, recupera il passato, quello impersonale e quello suo
proprio.
Come nella poesia "Éire":
La memoria che scorre nelle vene
si perde nel vissuto quotidiano
schiacciata nelle pieghe del tempo
che senza tregua scorre, avvolge, soffoca.
Un suono d’arpa, un trifoglio colto
e isolato dal campo, un sorso
d’una birra scura come una notte
senza luna e senza stelle, una patata
marcita nella terra: riemergono ricordi
sepolti nella carne, mai cancellati
incomprensibili.
Inutile cercare la verità
la verità non esiste
tutti sono morti
sepolti.
Ma la carne freme, vuole
che la ricerca avanzi
vuole diventare parola
– poesia, racconto, romanzo –
suprema finzione.
I morti che ho nel sangue
lo vogliono
lo pretendono
a ogni incrocio
tra la loro memoria
e la mia realtà
tra la mia vita
e il loro vuoto.
Tutto questo con dolore, con carisma perché nell’attimo
in cui ne raccoglie il senso e il significato – meglio, l’essenza –
è come se tracciasse sul cuore delle cose, sull’accadimento già
accaduto, già dolorosamente consumato, una cifra alchemica di chiusura
che copre il dolore non come una pietra tombale ma come un sigillo magico,
un pentacolo che col tempo si manifesta, vive, produce i suoi frutti. Si
veda:
Cresce giorno dopo giorno,
si dilata e si apre in tutta
la sua bellezza. Occhi
di ghiaccio incandescente,
l’iride un caleidoscopio
di infinite meraviglie,
di dolci melodie celesti
nate da un lieve respiro,
fissate nella eternità
di un battito di ciglia.
Oppure:
Gli alberi si inchinano al suo passaggio
–
l’agile quercia, il crudele frassino,
il rozzo abete, il cortese pino,
il sereno tiglio, il funesto cipresso.
Per lei sbocciano i fiori,
i frutti maturano solerti,
gli uccelli cantano dai nidi,
la terra muore e rinasce.
Io sono lei e lei è in me
quando davanti al foglio immacolato
ascolto la voce del silenzio.
E ancora:
Il tempo scivola veloce
trascinando con sé parole
pensieri e linfa. Tutto è
breve, le idee vuote.
Lei continua a sussurrare:
non dà né pace né tregua
alle sue vittime, costrette
a tradurre la sua assenza,
da frammenti di memoria
oltre i confini del tempo.
Così, nell’angustia del percorso umano, che a
nessuno risparmia le sue prove si scopre l’affiorare di germogli,
stavolta sempreverdi, quelle gemme rare che hanno imparato dal dolore a
non morire con gli autunni:
Solo, in treno
Solo,
un sole basso
grande cerchio di fuoco,
corre a fianco del mio treno.
Pura illusione
il suo movimento
alla mia sinistra, in questo viaggio
verso la notte, il freddo, il Nord.
Vera la luna che non vista
sorge alla mia destra,
piena, con i suoi mari
e i monti, i miei mari prosciugati
e i miei aridi monti.
C’è, la sento sussurrare
nel sottofondo cupo
del treno in corsa:
più l’illusione del sole svanisce
più lei, luna, si fa presenza viva.
E la notte è meno notte,
tenebra e luce si accolgono
in attesa della rinascita.
Ma è la poesia che riguarda il padre che mi sembra il
momento più importante di questa raccolta.
Versi brevi, paratattici. Ossimori.
Parole concise, significati opposti che si uniscono in
un termine unico (padrestraneo, nemicamico, presenzassenza) in cui si
riscontra non solo una grande eleganza linguistica ma dove la forza che
unisce i due opposti (l’affetto che li unisce e li accetta così come
sono) rivelano una concezione altamente matura del rapporto di un figlio
con un padre, a cui si perdonano l’assenza e le manchevolezze, dove sono
sparite le inevitabili rivolte giovanili davanti a un padre che forse non
è all’altezza, che non è il modello voluto, ma che è guardato come un
amico, come un uomo forse da amare, comunque da accettare per quello che
è nel bene e nel male:
Non un bravo uomo
ma un bravuomo –
amatodiato
derisammirato
villipesosannato.
Un mistero palese
la sua debole umanità ;
un mistero imperscrutabile
il suo forte spirito.
Era mio padre e non lo era (padrestraneo)
non amico ma amico (nemicamico)
fratello inconsapevole.
Vivo ma morto (vivo o morto)
o morto ma vivo (presenzassenza)
è, nella contraddizione.
Franca
Bacchiega
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