Lo stemma della
famiglia di Pier-Franco Donovan (così in italiano ed americano – penso
– mentre in gaelico è scritto Ó Donnabháin, e si pronunzia O’Dunavàn),
rappresenta un pugnale attorto da un serpente (saggezza nella difesa? Non
so). Del resto, e vedremo come ciò avrà un peso nella poetica di questa
plaquette, il nome Pier-Franco, di cui la prima parte in gaelico suona
Pader (e si scrive Peadar) ed è seguita dall’anglo-americano Frank (in
gaelico Proncias, scritto Proinsias = Francesco), equivale al nome del
padre e del nonno paterno: e il tutto suonerebbe pressappoco
Pader-Proncias (vedi lirica – una delle tre titolate – "Il
cimitero dell’abbazia").
E tuttavia
Pier-Franco Donovan è nato a Firenze, dove tutt’ora lavora e risiede.
Nel 1987 ha conseguito il bacellierato (Bachelor of Arts) delle arti
(indirizzo: letteratura comparata) dalla University of Michigan (USA).
Nel 1990 ha
curato la traduzione in italiano e l’edizione della raccolta Teorie e
altre liriche (Carlo Mancosu Editore – Roma) del poeta inglese Peter
Russell.
Dal 1992 è
collaboratore del poeta Mario Luzi.
Nel novembre del
’93 ha pubblicato la prima raccolta di poesie, Condensations (Università
di Salisburgo, Austria, edizione inglese-italiano). Dal 1995 è socio del
PEN Club Italiano, e dal 1998 è iscritto al Sindacato Nazionale
Scrittori. È curatore delle opere di Helle Busacca, scomparsa a Firenze
il 15 gennaio 1996. Dal 1998 fa parte del Consiglio della Camerata dei
Poeti di Firenze (fondata da Giovanni Papini nel 1930). Ha recensito e
presentato diversi poeti, alla libreria Seeber, sulla rivista "Alla
Bottega", su "Varia" di Pietro Chegai e sull’"Apostrofo"
oltre che sul periodico del Sindacato Scrittori, sulle quali ultime
riviste ha scritto anche articoli.
Il ritmo dell’universo
scorre in questi versi che ad esso soggiacciono, da questo sono condotti,
e, quasi senza avvertirlo pur recandolo in sé, lo amano e lo temono. Al
pari dell’Uomo di una volta, che amava e temeva le forze naturali
Pier-Franco Donovan, pur nelle tenebre (e nella luce) del suo ciclo,
cieco, quasi predeterminato da forze misteriose, si limita a prendere
atto, con emozione profonda, dell’oggi e del memoriale, del fenomeno in
genere; solo in un secondo momento logorandosi nella ricerca del noumeno.
Ma le deduzioni dell’implicito, quasi assente filo di ricerca
pervasivo dell’intera raccolta, nascosto come una creatura delle caverne
sotto una superficie d’umanità tremante d’entusiasmo e dolore, di
tedio inconscio e d’atavico rimpianto, di drammatica assenza e d’appassionata
presenza (quest’ultima sempre temprata alla fiamma cangiante del
ripensamento, o meglio della riflessione nostalgica), non sono
propriamente trionfalistiche, bensì legate alla misura d’uomo che tenta
la strada della conoscenza e che ritorna dall’impossibile viaggio con un
bagaglio molto ridotto, mirando alla personale realtà – che s’identifica
con l’appercezione cosmica – ma anche alla domanda-risposta
universale, e soprattutto in nome di questa conclude per tutti: "Chi
sono io? Non lo so. / Lo sai tu? Lo sai tu / chi sono io? Puoi saperlo? /
Se sai qualcosa dovrai pur dirlo… / Anche se vero è che tu sei me / e
io sono te, una sola entità… // Dove porterà questa trama? / Dove
vorrai tu, io o Dio? / È indifferente, forse neanche importa". E qui
mi si potrebbe ribattere che l’amore trova in se stesso la massima
chiave di conoscenza, che non occorre specularvi sopra, che il senso della
vita s’intuisce e basta, che la felicità è un istantaneo sinolo d’appagamento
e rivelazione, ma son tutte chiacchiere, almeno a mio avviso. È sicuro
che l’amore (per quanto colmo di tormento nella sua parabola, talvolta
abissale ed inconoscibile) è – secondo Pier-Franco Donovan – "…
mistero / celato dietro una piccola parola / ad un tempo carne e spirito,
/ una parola segreta d’amanti / ritrovati nelle spire del tempo, /
affiorati dal labirinto dello spazio / in un unico punto, principio e fine
/ del pellegrinaggio d’anime terrestri / in lotta con la morte". E
conclude in un solo verso distanziato: "Nel buio dell’esistenza l’amore".
E, badate bene,
si tratta d’un buio assoluto, del nero possente dello spazio, del vuoto
o del quasi vuoto, dell’abisso inconoscibile e impenetrabile dal quale
tuttavia emergono i serti preziosi dei momenti felici.
Per chi non lo
sappia, dirò che la presente raccolta cioè: Nell’arco teso di un
respiro, è stata concepita, organizzata, finalizzata all’odierna
presentazione della Camerata dei Poeti, e in vista di tale evento
pubblicata. Voglio ricordare ciò che disse, a proposito della sua prima
raccolta, Condensations, Mario Luzi, che la presentò alla Sala dei
Consoli del Palagio di Parte Guelfa (il quale gli ha presentato anche
"La voce discreta del silenzio", nella rivista "Caffè
Michelangelo, anno I, n° 1, gennaio-aprile 1996). Della sua prima poesia
in genere dice il nostro grande maestro: "Maturità esistenziale
incipiente ed accortezza di scrittore, attento alla giustezza nominale
delle parole… fanno un singolare tipo di poesia…". E altrove:
"La partenza da un livello così semplice e casto genere sorpresa,
favorisce anche nel lettore un recupero d’innocenza". Nella
presente raccolta, come già detto pubblicata appositamente per la
Camerata dei Poeti, è chiaro che il livello espressivo si evolve
notevolmente raggiungendo così la propria, ma rimane indiscusso (e non
può sorprendere, viste le singolari vicende subite dal Nostro in questi
ultimi anni, drammatiche e laceranti, e dato che ben conosciamo la teoria
estetica di Stanislavskij secondo cui l’evoluzione artistica è
direttamente proporzionale alla sofferenza) il contributo esistenziale a
tale sviluppo, direi determinante. Il suo lato infantile d’una volta –
sosteneva Mario Luzi – poteva anche procurare choc, poiché,
paradossalmente, in Pier-Franco lo scrivere poesie si rivelava come l’operazione
più elementare del mondo (e – aggiungo io – a differenza che nella
gran parte dei suoi colleghi, più spontanea), ed era come se si
polverizzassero tutti i riferimenti impliciti ed evidenti edificati dalle
varie tradizioni letterario. Ciò premesso, passerò ad esaminare le
diverse componenti dell’ultima sua opera: Nell’arco teso di un
respiro (Firenze, 2001). La prima lirica, staccata dal rimanente del
testo e quasi autopresentazione scritta in corsivo, è dedicata ai
"falsi poeti" o "poeti d’occasione": rappresenta
pertanto una realistica cronaca di quanto oggi accade (tutto fuorché
autentica arte, tutto fuorché biografia d’autentico poeta). E sono
proprio contenta che il nostro autore si ponga il problema e lo liquidi
con aperto disprezzo, senza mezzi termini: come può sgorgare autentica
poesia da un substrato etico ed estetico di limo e mota? – anch’egli
come me se lo domanda. Si vede che poesia non è, conclude. E pertanto la
toglie di mezzo senza indugio, prendendone le debite distanze. Questa
lirica "in limine" è – come nella tradizione –
rappresentativa di ragione poetica. Cito solo alcuni poeti che si sono
valsi di essa, dall’antichità latina ad oggi: Orazio, Verlaine,
Ungaretti, Montale. Nelle prime quattro liriche del corpo testuale, ecco
ripetersi il "…sovvertimento / …sempre uguale sempre
diverso" di una felice, nuova primavera, la rinascita dal nulla,
potremmo dire: è l’amore che annienta la sofferenza e che, per un tempo
labile, vince su tutto, anche sulla morte nei suoi vari aspetti. Ma subito
dopo (lirica 5a-12a), tra un succedersi d’alte e
basse maree, sempre più misteriose, sempre più significanti e
travolgenti, si riporta all’"antica compagna solitudine"
(lirica 13a, il cui ultimo verso, "nell’arco teso di un
respiro" dà il titolo alla raccolta), stato – forse – più
conosciuto ed abituale per avervi convissuto a lungo, sia pure in maniera
intermittente. Sì che (lirica 14a) "dopo la
separazione", si può invocare questa ineffabile presenza, ed
eleggerla ad unica compagna: "Sei tornata, infine, dolce e vecchia
solitudine, tanto voluta e cercata". Come ci ha già fatto notare per
la precedente raccolta il nostro grande maestro Mario Luzi, non
aspettiamoci in questi versi tutti gli "ismi" che
caratterizzarono il XX secolo, dall’orfismo del culto lessicale all’ermetismo
(di cui l’autore schiva l’impianto fantasioso rifuggendo da troppo
elaborate metafore), dallo sperimentalismo al frammentismo (ché, al
contrario, in un impeto assolutamente personale e secondo me legato alle
insenature petrose, dolenti e frastagliate della sua terra d’origine,
quest’ultimo canto si libera chiaro, terso, apparentemente elementare,
per quanto articolato su di una sintassi ellittica, o meglio spiraliforme
per un sovrapporsi di ellissi, che si sciolgono alla fine del componimento
in perfetta coerenza d’eufonie e in sintesi concettuale ed
immaginifica), se mai navigando nel più accessibile e sensibile mare del
postmoderno. E da ora alla 44a poesia sarà tutto un
interrogarsi sul senso della propria e dell’altrui vita, senza trovare
– o voler dare risposte precise – a quelli che ormai vengono
considerati i massimi problemi, benché nella 23 lirica si ammetta
"un nuovo inizio / forse l’ennesimo / inevitabile e irrinunciabile…".
Perché inevitabile – ci si chiede? Ma la risposta è facile: perché
spesso la vita ci pone alle strette. Chi non l’ha provato? E
"irrinunciabile" poi, perché? Perché troppo importante, e tale
che in futuro ci potremmo pentire di aver ovviato. Ma ciò nonostante
prevalgono l’atroce memoria dell’assurdo, l’incertezza del cosa e
dove cercare, l’immedesimazione in un paesaggio incantevole che
tuttavia, se non altro per antitesi, ci suggerisce inquietanti domande,
gli inizi angosciosi come tutte le nascite, le terrificanti cadute, l’inesplicabile
interrogativo sulla condizione umana ("Quale il prezzo, oggi, / per
restare vivo?"), la costante nebulosità del "vortice della
vita", la caducità dell’uomo stesso, il ripetersi di atteggiamenti
umani protervi quanto insensati, cui seguono le tenebre del
"labirinto quotidiano", la paura (anche ingiustificata) di un’altra
odissea sentimentale, il tentativo fallito di dare un senso ai propri
trascorsi ed agli avvenimenti in genere, l’impossibilità di
giustificare il nostro essere qualora non si crede nell’al di là, l’enigmatico
meccanismo della sofferenza nel suo manifestarsi su molti piani; ché in
effetti il senso della vita non esiste, e nemmeno quello d’identità,
poiché solo il dolore è inconfutabile evidenza, in quanto il destino ci
"dissemina in ordinato disordine", ed altro non siamo che
"Un caso tra i casi. / Una vita tra le vite". Una poetica
decisamente leopardiana pur se adattata al presente, forse l’Autore non
sarà d’accordo, ma credo che così sia, anche se simili sentenze in
questa sede non vengono azzardate. Non c’è vero e proprio lamento sulla
condizione umana, e i problemi ne risultano evidenziati, ma allo stesso
tempo irresoluti, talché, per quanto ne sappiamo, l’autore potrebbe non
essere nichilista, bensì credente, e lasciarsi soltanto portare da stati
d’animo contingenti, se pure intensi e magistralmente espressi, cioè in
sobrietà, e ricorsi, rapidi quanto suggestivi, a simbolismi naturali d’intenso
rilievo estetico, sintattico e lessicale. Del resto, per quanto possano
sembrare relativi alla cosmica leggi di causa-effetto, gli eventi delle
singole esistenze appartengono esclusivamente alla vita universale,
secondo il nostro autore, fenomeno – l’abbiamo visto – tanto
misterioso quanto inspiegabile e casuale, "che lega / tutti questi
punti, che segna / la trama del vivere". La stessa figura del padre
è posta tra gli estremi, e di lui, che pur s’intravede molto caro al
figlio, non si dice granché, se non tutto e l’opposto di tutto,
elevandolo a simbolo del proprio pensiero. Concludo col notare che, nel
contesto di liriche senza titolazione, solo tre possiedono un titolo, e
ciò non avviene a caso perché tutte e tre si riferiscono ad un
"viaggio / verso la notte, il freddo, il Nord", ovvero alla
volta della terra degli avi, che i suoi stessi geni (ovvero "i morti
che ho nel sangue") pretendono rivisitare, morti che oggettivamente
non esistono, ma le cui tracce si possono ritrovare nello stesso poeta,
morti che non hanno vita propria, nemmeno puramente animica. Almeno, così
sembra, poiché – come ho detto prima – un pronunciamento vero e
proprio non è possibile, il tutto essendo relativo, almeno a mio avviso,
soltanto ad uno stato d’animo contingente, anche se assolutamente ben
motivato. Perché tuttavia si crede nell’assoluto della "parola /
– poesia, racconto, romanzo – / suprema finzione". E qui si
potrebbe anche porre il quesito se vi sia un’attinenza con l’estetica
platonica dell’arte come finzione, in quanto imitazione della natura…
Ma credo si andrebbe troppo innanzi, sempre per il carattere – in
apparenza – strettamente lirico e contingente di tale poesia, in verità
filosofico contro le stesse intenzioni dell’Autore forse, che la pensa e
la vuole unicamente in funzione lirica, cioè di canto. Il "cimitero
/ aggrappato al fianco della collina / dove un tempo / ieri / avevamo
costruito un’abbazia / pietra su pietra / adesso cancellata / non dalla
memoria". Caducità, dunque, caducità come costante universale, nel
senso della trasmutazione meccanica o voluta – non si sa con precisione
perché – d’ogni cosa, del "panta rei".
Che dire infine?
Ecco una vena lirica purissima, scabra e dolce come la terra d’Irlanda,
dai promontori suggestivi e tormentati, dalla quale gli ascendenti del
poeta scapparono – da giovani – essendo in quei luoghi "la morte
impegnata / a mietere vittime". Più tardi, dal confronto, sorge
quella nostalgia che sfocerà, se non nel nichilismo, nella certezza dell’universale
inesplicabilità. Ma la terra adorata cui ritorna, evocando in totale
nostalgia e atteggiamento deciso, il proprio nome, e quello della
famiglia, in gaelico, in lingua originale, rappresenta l’unico ed ultimo
sostegno, e significato allo stesso vivere.
Duccia
Camiciotti
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