Su Forza Italia e su Berlusconi si sono appuntati in questi giorni l'interesse della stampa e dei commentatori politici.
La pressione è salita anche da parte degli elettori di Forza Italia e della Casa delle Libertà che si chiedono quale ruolo Berlusconi intende svolgere nella vita politica italiana dopo l'esito delle elezioni di aprile.
Berlusconi aveva già fornito una risposta chiara in occasione del meeting di Comunione e Liberazione, nel senso di una volontà di continuare a rappresentare più della metà degli italiani che gli hanno tributato il loro consenso e che hanno riconfermato Forza Italia come il primo partito italiano.
Quello che si avverte nell'aria, tuttavia, e che ha scatenato le domande e le considerazioni più irriverenti o moralistiche anche da parte di una parte della stampa amica, è un senso di incertezza e di distacco dalla politica che può essere stato fornito dalle vacanze di Berlusconi e soprattutto da ciò che è trapelato dalle cronache dei quotidiani.
A questa incertezza e da questa impressione di distacco e di lontananza dalla politica di Berlusconi, Gubbio deve fornire una risposta convincente. A partire dall'intervento di tutti i maggiori esponenti del partito che quest'anno interverranno alla quinta edizione della scuola di formazione, fino all'intervento conclusivo di Berlusconi. Prima del discorso conclusivo di Berlusconi, il seminario può fornire all'opinione pubblica l'immagine di un partito che ha una classe dirigente in grado di affiancare e di sostenere Berlusconi nel perseguire gli impegni che ci attendono: il rafforzamento di Forza Italia, l'opposizione al governo Prodi, la costruzione di una credibile alternativa all'attuale governo e la realizzazione in prospettiva del partito della libertà.
Quest'anno Berlusconi deve poter chiudere l'incontro potendo constatare che il partito non è un fenomeno evanescente, e che abbisogna ancora del suo impegno per compiere nei prossimi anni un'altra impresa politica nell'interesse dell'Italia.
Vabbè diciamolo senza giri di parole: con i giornali italiani siamo alle solite e non ci stupiamo. Berlusconi va al meeting di Rimini e l'indomani viene descritto come un grande uomo, capace di infiammare platee esigenti come quelle di CL, l'unico leader dell'area moderata per l'oggi e per il domani e comunque l'unico che potrebbe determinare una successione a se stesso. Di più: l'uomo che meno degli altri ha patito la sconfitta, quello che durante l'estate ha saputo comunicare all'esterno di essere ingrado di fare a meno di palazzo Chigi e di vivere meglio fuori dai palazzi romani e di farsi un pò invidiare ma certamente ammirare dal popolo italiano.
Decide, mal di gola o no poco importa, di non andare alla festa della Margherita. Apriti cielo: a soli dieci giorni da meeting di Rimini, quello in cui era sembrato una rockstar, e senza che nel frattempo sia successo niente di niente, Berlusconi viene descritto come un leader che abbandona il campo, come uno che fugge, che non ha più niente da dire, che non riesce a superare il trauma della sconfitta, che non si muove dalla Sardegna perchè è troppo arrabbiato con i suoi, no anzi perchè è impaurito di dir qualcosa che non va sul conflitto d'interesse oppure perchè non sa se tenere a Caorle un discorso duro o morbido, oppure perchè sa parlare solo a platee osannanti che sbandierano i tricolori di Forza Italia.
Insomma: il 26 Agosto è un grande uomo ed il 5 Settembre deve cominciare daccapo. Davvero non è una cosa seria. Ma la stampa italiana è così e lo è ancora di più, molto di più con Silvio Berlusconi.
E lui, ha solo un rimedio: riderci su.
Sapendo che i problemi che ha innanzi sono seri e grandi e riguardano Forza Italia e la coalizione nonchè il loro rapporto con il Paese da qui ai prossimi anni; sapendo altresì che giriamola come vogliamo ma stiamo fronteggiando una sconfitta; sapendo infine che da lui tutti si attendono di più ed il giudizo severo discende dalle attese enormi che lo hanno sempre riguardato e, fatto importante, continuano a riguardarlo.
Dunque: vada avanti Presidente, prendendo con il sorriso sulle labbra la stampa italiana ma assumendo decisioni importanti che spazzino via la facile ironia ed toni da psicodramma di questi giorni.
Se a prima vista può apparire critico, in realtà l'editoriale di Sergio Romano sul Corriere della Sera è il più esplicito e autorevole riconoscimento della leadership di Silvio Berlusconi. Ed è paradossale che sia stato scritto in conseguenza di una prolungata assenza (interrotta solo dal dibattito al Meeting di Rimini) e a commento di un mancato dibattito, che ha scatenato l'attenzione dei giornali molto più di quanto avrebbe potuto accadere se il programmato confronto si fosse regolarmente tenuto.
Le parole di Romano - dalla simpatia espressa al "combattente" che non si rassegna a una sconfitta elettorale che tale non è, agli inviti a lasciare il buon ritiro sardo per tornare ad essere protagonista indispensabile a Roma - dovrebbero essere di ammonimento per chi, nella Casa delle Libertà, pensa che il dopo Berlusconi sia iniziato o stia per iniziare presto.
Perché quello che non scrive Romano, ma che si legge chiaramente tra le righe, è che i capi degli altri partiti, aspiranti leader del centrodestra, leader non sono e non possono nemmeno aspirare ad esserlo visto che, Berlusconi assente, non sono stati in grado di apparire presenti.
Indirettamente Romano risponde poi a tutti quelli che si affannano a discutere della "crisi" di Forza Italia. Perché da dodici anni a questa parte Forza Italia è Berlusconi e Berlusconi è Forza Italia, anzi Berlusconi è il centrodestra e il centrodestra è Berlusconi. E l'unico vero problema di Forza Italia è come diventare più "berlusconiana", non più democratica o più strutturata. E forse a Gubbio la risposta la darà l'unico leader vero che l'Italia ha in dote e che, per questa sola ragione, è condannato a calpestare le scene della vita pubblica e politica ancora a lungo.
Poltrone, tira aria di crisi. Ma soltanto nel settore industriale, quello di chi le produce e le vende. Il governo di sinistra, impegnato a occuparle, procede invece con il vento in poppa. Qui non c'è la concorrenza cinese, al massimo la competizione interna per un'equa ripartizione che metta a tacere cespugli e cespuglietti che rivendicano qualche strapuntino.
E' qui che Romano Prodi, da buon vecchio democristiano, meglio sa mettere a frutto una sua antica e sapiente passione maturata fin dai tempi dell'Iri. Così nei primi tre mesi di governo le nuove nomine in ministeri, enti pubblici, commissioni varie sono state, una più una meno, circa 130. Di queste, sono solo 41 (secondo un conteggio del Tempo) quelle in quota a Rutelli.
E meno male, come ha sottolineato D'Alema con il consueto stile, che nel governo qualcuno si è dovuto occupare anche di quisquilie come la guerra in Libano, che ha rubato tempo prezioso alla normalizzazione dell'informazione in Rai. Ma c'è tempo per rimediare, a partire da oggi.
Perché i "piatti forti", Rai a parte, devono ancora essere serviti. Tocca alle Ferrovie, sulla cui tolda di comando, come amministratore delegato, sta per salire il diessino doc Mauro Moretti. Uno, c'è da dirlo, che conosce il suo mestiere: la sua appartenenza politica non lo ha danneggiato durante il governo di centrodestra ed è solo uno dei tanti esempi di un diverso stile di fare politica. Laddove i manager dei grandi enti pubblici sono stati scelti con il criterio della managerialità e non delle tessere: Catania, Cimoli, Sarmi. Se Berlusconi dovesse esprimersi con le parole di D'Alema, potrebbe dire che è stato "troppo buono".
La presidenza di Innocenzo Cipolletta alle Ferrovie è un brutto "scivolone" per Confindustria. Il suo nome è il risultato di un braccio di ferro tutto politico fra Rutelli e Prodi sul nome di Fabiani. Che il presidente del Sole 24 Ore, gran consigliori di Montezemolo, accetti una nomina tutta politica, non è che la conferma della deriva preelettorale che viale dell'Astronomia si era ostinata a negare a gran voce.
Il giro di valzer toccherà poi le Poste (che pure vanno a gonfie vele), la Cassa Depositi e Prestiti, non l'Alitalia (duro trovare un candidato al sacrificio). E via via, scendendo per i rami, decine di enti e centinaia di poltrone.
D'Alema, incalzato da Vespa a Porta a Porta, sventolò il programma dell'Unione con la tesi numero 9: "Ridurre ministeri e ministri". Sappiamo com'è andata a finire. E' stato scritto (e mai contestato) che, in occasione della recente fusione tra Banca Intesa e San Paolo, una telefonata di Fassino ha conservato il posto a Modiano, direttore generale della banca torinese e marito di Barbara Pollastrini. Il manuale Cencelli anche in una fusione privata di due banche private. E c'è da stupirsi di quanto accade e accadrà nel pubblico?
Si fa sempre più difficile la posizione di Padoa Schioppa in vista dell'Ecofin informale, in programma venerdì e sabato ad Helsinki. L'Italia, infatti, sarà l'unico grande paese europeo che all'appuntamento si presenterà con un deficit superiore al 3%. La Germania - la notizia è di ieri - abbatterà quest'anno il proprio deficit nominale al 2,8% del pil.
Berlino ha raggiunto il risultato grazie al buon andamento delle entrate fiscali sulle imprese. Una situazione analoga a quel che sta avvenendo in Italia.
Con un particolare, appena insediata, la Merkel ha avviato una forte manovra correttiva che al momento sta producendo fenomeni positivi sull'economia: pil in crescita e buon andamento delle entrate. Lo stesso rischia di non manifestarsi nel 2007, quando l'aumento dell'Iva potrebbe produrre un rallentameto di mezzo punto nella crescita. Ma soprattutto, la Cancelliera ha realizzato un'"operazione verità". Cioè, ha interamente trasferito sul deficit le maggiori entrate.
Il governo Prodi ha introdotto, appena insediato, una micro manovra correttiva dello 0,1% sul pil. In più non sta trasferendo per intero sul deficit 2006 i benefici prodotti dalle maggiori entrate. Meno della metà.
Insomma, si sta comportando in modo diametralmente opposto a quello tedesco. Con il risultato che la Germania scende sotto il 3%, e l'Italia no. Ma per scelta, non per "disgrazia"!
Ecco perché. Ossessionato da Berlusconi, Prodi non vuole riconoscere che i conti pubblici lasciati dal precedente governo sono in regola. Così, nasconde una parte del maggior gettito per farlo uscire allo scoperto nel 2007 quando se ne può attribuire il merito.
Due numeri per spiegare la situazione.
Il Dpef fissa il deficit 2006 al 4%, con una crescita dell'1,5% del pil. Il precedente governo indicava un deficit atteso per quest'anno al 3,8% con una crescita dell'1,4%. Le entrate, come dimostrano i dati del fabbisogno ed il gettito di competenza, sono cresciute di quasi 20 miliardi dall'inizio dell'anno. Si tratta di gettito determinato dalla lotta all'evasione (ottenuta con la revisione degli studi di settore) e di emersione della base imponibile quale logica conseguenza dei condoni. Insomma, è gettito sostanzialmente strutturale, destinato a ripetersi negli anni prossimi; ad eccezione di 3 miliardi determinati da una tantum.
Insomma, nel bilancio dello Stato sono state acquisite maggiori entrate destinate alla riduzione del deficit per circa lo 0,6-0,7% del pil. Con la conseguenza che se il governo lo volesse, potrebbe abbattere il deficit di quest'anno dal 4% previsto al 3,3-3,4%.
La crescita potrebbe fare il resto.
Il governo prevede di portare l'aumento del pil nel 2006 all'1,6%; appena uno 0,1% sopra la previsione. L'Ocse, invece, stima per l'Italia una crescita del pil all'1,8%. Tanto basterebbe per abbattere il deficit italiano al 3,1-3,2%.
Se il governo avesse voluto, quindi, avrebbe potuto raggiungere un deficit già nel 2006 sotto il 3%, come la Germania. Invece, ossessionato dall'antiberlusconismo preferisce far restare l'Italia l'unico grande paese europeo sopra il tetto del Patto di Stabilità. Come il marito che, per far dispetto alla moglie..
Sin dall'11 aprile è apparso chiaro a lorsignori dell'Unione che la risicata maggioranza avrebbe avuto vita difficile, sia per l'esiguità del numeri al Senato, sia soprattutto per la conflittualità interna alla coalizione, per la diversità irrisolvibile delle sue anime. Il dibattito sui conti, sul rigore necessario, sui tagli che sarebbero ineludibili ha fatto emergere contraddizioni e lacerazioni di fronte alle quali Romano Prodi può pianificare soltanto ritirate.
In questo contesto di confusione e di debolezza strutturale, la maggioranza, per prudenza, avrebbe dovuto concentrare i suoi sforzi su pochi obiettivi nella stagione di bilancio, anche perché pressioni e rabbuffi non ignorabili giungono su questa materia dall'Europa e dal mondo.
Invece, ostentando una sicurezza che non ha, l'Unione ha complicato il quadro e ha voluto varare un progetto liberticida per una nuova legge sul conflitto d'interessi. Un progetto mirato e punitivo nei confronti di Silvio Berlusconi, un piano di vendetta con gli interessi, al quale si è assegnata una priorità falsa e strumentale che, tenuto conto dei problemi che incalzano per il Paese, non poteva e non doveva avere.
Chi ha voluto e organizzato la manovra aveva ed ha più di un obiettivo: eliminare il capo dell'opposizione mettendolo fuori del gioco politico al più presto, perché è prevedibile che le difficoltà del governo andranno aumentando col tempo; colpire una grande realtà imprenditoriale e culturale come Mediaset, che è garanzia di libertà perché fisiologicamente refrattaria ai condizionamenti statalistici e dirigistici. Le ipotesi prospettate con l'iniziativa parlamentare dei capigruppo dell'Unione malamente dissimulano la volontà di realizzare questa "guerra preventiva" contro Berlusconi, il dibattito su "incompatibilità" e "ineleggibilità" è soltanto fumo. Neutralizzato il Cavaliere - è questo il disegno - il centrodestra andrebbe incontro fatalmente a una fase di scomposizione, con conseguente frantumazione della rappresentanza dei moderati italiani, che sono almeno metà del Paese.
La vendetta con gli interessi, inoltre, dovrebbe avere una funzione di rinnovato collante psicologico per la tenuta della coalizione: il grido "dàlli a Berlusconi" dovrebbe ridare un minimo di livorosa concordia ai compagni scompagnati della maggioranza.
Occhio al boomerang - Un disegno chiaro e semplice, dunque, un disegno che, come tutti i piani strategici, è perfetto finché resta sulla carta, ma può fallire quando si scontra con la realtà fastidiosa della tattica, della concreta azione politica. L'effetto unificante all'interno dell'Unione non c'è stato: proprio nella maggioranza emergono, non senza clamori e polemiche, dissensi e inviti alla moderazione. Il Guardasigilli, Clemente Mastella, contesta l'inopportunità politica di avere posto adesso il problema e sottolinea a la necessità di non perseguire vendette che in una democrazia non dovrebbero trovare spazio. Critiche anche da Antonio Bassolino e da altri esponenti della composita coalizione.
Anche taluni esponenti della maggioranza comprendono che una legge come quella prospettata condannerebbe i suoi promotori perché è la "legge ad personam" per eccellenza. Nemmeno tutto il centrosinistra è pronto ad espedienti parasovietici per mettere fuori gioco l'avversario. Antonio Di Pietro rimane istericamente fedele al suo primo programma ("Io quello lo sfascio"), ma c'è anche chi chiede che la legge sul conflitto d'interessi sia fatta per salvaguardare il bene comune e non per sancire la proscrizione del capo dell'opposizione.
Resta da vedere se prevarrà, nell'Unione, il richiamo a una civiltà giuridica e democratica occidentale o se vincerà la dispotica pulsione della sinistra estrema, che ha sedotto anche tanti ex moderati che hanno saltato il fosso, soprattutto perché non perdonano a Silvio Berlusconi di avere svelato la loro nudità politica, la loro inadeguatezza. La partita non è ancora decisa.
Ad ogni modo, i politologi dovranno annotare che, se è vero che Silvio Berlusconi ha di fatto cementato le forze a lui opposte, è anche indiscutibile che può incrinarne la compattezza. Perché il Cavaliere rappresenta almeno metà del Paese e la fiducia che lo accompagna fa riflettere i suoi avversari che non siano accecati dalla superficialità e dal livore.