Sommario

  • La passione civile de “l'altra Italia”

  • Bernardino Carboncini. Ricordi...

  • Rodolfo Valentino l'inatteso

  • Le feste a Follonica (parte I)
    Dai palii a fantino del 1832 alle cuccagne del 1900

  • Le feste a Follonica (parte II)
    Dalla celebrazione del 1904 alle fiere 1947

  • Le poesie di Giancarlo Cheli

  • Un valdese nella rivoluzione

  • La schiaccia di strutto

  • Amnesty International
    Caso Olivera
    Sierra Leone
    Filippine

  • La redazione

  • ARCHIVIO
  • LA RISVEGLIA

    quadrimestrale di varia umanità
    n.5 Settembre - Dicembre 2000

    Un valdese nella rivoluzione:

    un incontro con Giuseppe Bogoni

    1974. Roma. Via Calzini. Due rampe di scale e sono davanti a una porta. Qui abita Giuseppe Bogoni. Dopo tanti anni - mi dico - riuscirò a vederlo. Suono e, mentre aspetto che l'uscio si apra, mi torna in mente un viaggio, che feci nella capitale francese per incontrare Wilebaldo Solano, l'esponente del P.O.U.M., che, per primo, mi aveva segnalato la presenza di Bogoni in una Colonna internazionale, dislocata in Aragona nella seconda metà del '36.
    Era la fine del '67. Da un paio d'anni sottoscrivevo qualche migliaio di lire per la “Batalla”, il periodico del P.O.U.M., sopravvissuto ai fascisti e agli stalinisti, che Solano e i suoi compagni continuavano saltuariamente a pubblicare nella capitale francese. A Solano mi ero rivolto un paio di volte per chiedergli notizie degli antifascisti italiani, che avevano lottato contro i franchisti a Barcellona e in Aragona e lui mi aveva suggerito - in un biglietto che forse conservo ancora - di cercare in Italia un massimalista, nome di battaglia “Martini”: “Potrà darti tutte le informazioni che vuoi”.
    “La Batalla” aveva la sua sede - una piccola sede - in Rue de Charonne, a poca distanza dal Cimitero del Père Lachaise, undicesimo arrondissement. “La metropolitana - mi aveva informato Anne - Marie a Vincennes - ti porta proprio a Charonne”.
    Ma, in Rue de Charonne, uno spagnolo secco, dagli occhi infossati, - esule, di certo, in Francia - aveva replicato, cortese, ma fermo, che Solano, in quei giorni, non era a Parigi e che non era possibile incontrarlo.
    A tanti anni di distanza da quel viaggio oltr'Alpe, sono arrivato in via Calzini grazie a mio zio Pietro, che abita nella capitale da mezzo secolo: da quando cioè lasciò Massa Marittima, perché i fascisti gli avevano sparato, come ricordava la nonna Dina (1). Già segretario della Federazione giovanile socialista grossetana nel '21, lo zio ha avuto l'indirizzo di Bogoni - a quanto sono riuscito a capire, perché, in queste cose, è sempre un po' riservato e misterioso - dal “maggiore rosso”, Francesco Fausto Nitti.
    “Via Calzini è lontana dal centro, al di là della Tiburtina, ci vuole parecchio per arrivarci. Dovrai cambiare due volte il tram e poi salire sul “bussino”, che passa sul ponte della Tiburtina ad ogni morte di papa... Non hanno saputo dirmi se Bogoni ha il telefono. Comunque il suo nome non figura nell'elenco telefonico di Roma”.
    Sto ancora aspettando sul pianerottolo. Un giovane sale per la scala e mi chiede, un pizzico di curiosità nella voce: “Cerca il professore?” “Sì”. “E' in casa di sicuro, nel pomeriggio non esce mai”.
    La porta si apre e mi trovo di fronte un uomo di media statura, dai capelli canuti. “Il professor Bogoni?” “Sì”. Mi presento, lui mi fa entrare. Ha la faccia aperta, la fronte ampia, la corporatura robusta. Gli occhi sono cerulei, lo sguardo è buono. Dei lunghi capelli, che gli conferivano un'aria speciale, e non priva di fascino, nelle foto di Virginia, ne restano pochi. L'abitazione è modesta, quattro piccole stanze, anche l'arredo è molto economico. Su un mobile, davanti alla porta, scorgo una “menorah” - il candelabro ebraico a sette braccia - in ottone. Accanto alla “menorah” un busto di Scanderbeg, l'eroe nazionale albanese. In un'altra stanza - disposti su tre scaffali - un certo numero di libri e di giornali, di letteratura e di politica, in italiano e in francese. Qualche anno dopo sarà Franco a portarli a Follonica.
    In quella casa tornerò spesso, e, qualche volta, ci passerò la notte su un divano, dopo aver preparato la cena per me e per Bogoni. E lì raccoglierò - a più riprese - i suoi ricordi di un tempo difficile, in cui non mancarono - penso a Otello Belli, a Pilade Grassini, a Giulio Bacconi, a Adarco Giannini, a Edel Squadrani, a Bruno Quiriconi - coloro che dissero di no a Mussolini e si opposero, scrivendo e sparando, alla fascistizzazione dell'Europa.
    Bogoni mi fa accomodare su una sedia, gli spiego che da qualche anno raccolgo documenti e testimonianze di ogni genere sugli antifascisti italiani, che fecero parte della Colonna Lenin del P.O.U.M., e che ho già incontrato e intervistato, fra i suoi vecchi compagni di lotta, Enrico Russo, Renato Pace, il dottor Fienga, Bruno Sereni e il veneziano “Giacchetta” (Emilio Lionello).
    Mi piacerebbe - gli dico - registrare la conversazione, lui è d'accordo, io tiro fuori dalla borsa l'apparecchio e i nastri e incominciamo il “lavoro”.
    “Le farò qualche domanda...” “Dica pure...”
    Mi racconta che lasciò l'Italia, dopo una permanenza in Francia di un paio di settimane, durante la quale prese contatti con i massimalisti. All'epoca si era già staccato dal cattolicesimo, perché aveva sposato una ragazza di religione valdese, di qualche anno più grande di lui, e ne aveva abbracciato il credo religioso. La moglie non abita più a Roma, lui, durante la conversazione, la ricorda più volte con affetto.
    “In Francia - prosegue - ho incontrato Mariani, Elmo Simoncini, il segretario dei massimalisti, che era molto più vecchio di me ed aveva una militanza personale di prim'ordine. Animato da una forte passione ideale, franco, aperto, aveva preso la guida del partito massimalista, dopo il trasferimento di Angelica Balabanoff in America, e ne era diventato, in Francia, il principale, e più ascoltato, esponente. Io ho discusso con lui per due giorni e il suo attivismo, la sua voglia di lottare contro i nerocamiciati e i suoi argomenti stringenti mi hanno convinto. Dopo il mio rientro in Italia, sono rimasto in contatto con Mariani e, di lì a poco, dopo il mio definitivo espatrio, mi sono unito a lui e ai massimalisti della regione parigina”.
    “Sì, è vero - conferma - nel breve periodo che sono restato in Italia, dopo essere tornato da Parigi, ho scritto a Mariani tre o quattro lettere, firmandole “Paolo”, per ragioni di sicurezza. All'estero, invece, siglavo generalmente i miei articoli con un nome di battaglia, cioè “Martini””.
    Fra i massimalisti, esuli in Francia da molti anni, Bogoni ha conosciuti diversi grossetani, quasi tutti militanti devoti e convinti: “Mi ricordo bene dei fratelli Bucci di Tatti e soprattutto del Gamberi. Ho parlato con lui due o tre volte, forse ai congressi del partito... Negli ambienti degli emigrati politici italiani circolavano i suoi tomi di poesie sociali e di battaglia antifascista e i suoi opuscoli, uno dei quali interamente dedicato alla rivoluzione spagnola. Molto avanti cogli anni, malandato di salute, Gamberi era ancora battagliero e tenace. Insieme a noi, in Francia, c'erano altri massimalisti maremmani, compagni, che avevano preso la via dell'esilio, dopo le raccapriccianti stragi di Grosseto e Roccastrada... Sui nostri giornali di quegli anni troverà i loro nomi nella colonna delle sottoscrizioni, perché la nostra stampa usciva grazie anche alle loro oblazioni, alle piccole somme, che, puntualmente, con grande sacrificio personale, mandavano dal Var, da Auboué, da Thizy, da Lyon, da Nizza, dove facevano i minatori, i muratori, i carbonai...”
    A Parigi Bogoni ha frequentato Giovanni Massignan, Vincenzo Tarroni, Felice Vischioni e i fratelli Delai (il figlio di uno di loro, Angelo, - precisa - è caduto, combattendo contro i nazisti, in Francia) e ha conosciuto Giacomo Bavassano e Michele Donati, oltre agli anarchici Renato Castagnoli, Enzo Fantozzi e Ernesto Bonomini. Siro Burgassi e Giorgio Salvi erano, invece, già un po' in disparte, quando è arrivato in Francia.
    Gli racconto che Salvi mi ha riferito a Parigi (e, più tardi, me l'ha scritto) di essere stato aiutato, nel '22, prima della partenza per la Francia, da un socialista di Follonica - Gino Spagnesi o Gio. Batta Santini - che lo aveva tenuto nascosto in casa sua per qualche giorno.
    Poi il mio ospite parla della Spagna, dov'è arrivato alla fine di luglio del '36, insieme all'allora giellista “Magrini” (lo storico e giornalista Aldo Garosci). “Avevamo - dice, senza alcuna venatura polemica - storie personali e idee molto diverse e, com'era naturale, a Barcellona ciascuno di noi ha preso la strada, che gli era più congeniale: lui ha avuto un ruolo importante, a Monte Pelato e ad Almudévar, nella Colonna italiana a maggioranza anarchica, io ho raggiunto il P.O.U.M., che faceva parte del Bureau di Londra”, come i massimalisti, e ho collaborato con le sue milizie e i suoi dirigenti, politici e “militari”, da Nin a Arquer, da Rovira a Gorkin. D'altronde io avevo già conosciuto personalmente, nella primavera del '36, il segretario del P.O.U.M., Joaquín Maurín, del quale avevo pubblicato una lunga intervista”.
    Bogoni accenna, a questo punto, ai suoi compagni di partito, che si trovavano già a Barcellona o che vi sono giunti ai primi di agosto: a Pietro Fancelli, detto “Castello”, al grossetano Etrusco Benci, a Giuseppe Fusero, a Renzo Picedi, a Umberto Cirella, allo “zio” e a Rosa Winkler, cita i trotskisti, che ha conosciuto (e con cui ha avuto qualche discussione) a Barcellona e al fronte (Virginia, Pino, Fosco...), i bordighisti (Pace, Emilio Lionello, Russo...), gli anarchici e gli antifascisti senza partito.
    Era - mi dice - a Monte Aragón, nella Colonna Lenin, insieme a Enrico Russo, che comandava la formazione con il grado di capitano, a Bruno Sereni, a Giuseppe Borgo (“Sono contento che sia sempre vivo”, commenta), a un ex comunista padovano (Belfiore?) e a Placido Mangraviti. “Abbiamo avuto diversi morti: Pedrola, Fauconnet, Picedi, poi i fascisti si sono arresi e noi ci siamo impadroniti di molte armi, leggere e pesanti...”
    Non ricorda invece né Enrico Crespi, né Mario Bramati: “Forse avevano un nome di battaglia, come tanti altri antifascisti...”
    In Francia è rientrato nel giugno del '37, dopo i moti di Barcellona, l'assassinio di Nin e gli arresti di Arquer, di Gorkin e di Gironella. Gli stalinisti gli davano la caccia, lui ha valicato i Pirenei clandestinamente, con l'aiuto di alcuni poumisti. “Lo “zio” - racconta divertito - è fuggito travestito da ufficiale, lui, che era stato disertore durante la prima guerra mondiale e spartachista in Germania”.
    A Parigi, a Lione, a Marsiglia Bogoni ha tenuto diverse conferenze sulla rivoluzione spagnola e ha fatto parte di un Comitato misto (che comprendeva anche gli anarchici) per difendere i compagni, che erano stati arrestati in Spagna, poi, dopo la caduta di Barcellona nelle mani dei franchisti, ha collaborato a raccogliere gli aiuti per i profughi, che erano finiti, a centinaia di migliaia, negli infernali campi di Argelès, di Saint - Cyprien e di Barcarés. Sino alla guerra mondiale - prosegue - ha fatto parte della Direzione massimalista ed è intervenuto a quasi tutte le sue riunioni, che si svolgevano a Parigi o a Sartrouville, poi, dopo la resa della Francia nel giugno del '40, è passato nella clandestinità, a Lyon, insieme a Duilio Balduini e a Rosa Winkler. Tutti e tre hanno collaborato con gli antichi militanti del P.S.O.P. di Marceau Pivert (“ma lui era in Messico) e con alcuni esuli spagnoli, evasi dal campo di Gurs. “Il gruppo - mi dice - si chiamava “Fédérer et libérer", ne facevano parte Gilles Martinet, Carlo Marchisio, la Winkler, Balduini, che fabbricava le valigie a doppio fondo, e un buon numero di francesi e di spagnoli”.
    Più tardi è caduto nelle grinfie dei nazisti, ma non se ne lamenta, anche se l'esperienza è stata pesante: “L'eventualità era prevista, in quel periodo un “infortunio” del genere poteva capitare in qualunque momento... Io sono stato catturato dai tedeschi, che erano riusciti a risalire a me, quantunque io mi fossi sempre mosso con grande cautela. Dopo l'arresto, non sono mancato le brutalità, ma ho avuto una buona stella dalla mia parte e non sono stato deportato in Germania. A Carlo Marchisio, invece, è andata molto peggio, lo hanno tradotto - su un carro bestiame, dov'erano pigiate una cinquantina di persone: un viaggio tremendo, allucinante, durato giorni e giorni - in un campo di sterminio: quando è tornato, era pelle e ossa, del tutto irriconoscibile”. Lui, invece, è restato per qualche mese in una prigione francese, i secondini non erano troppo malvagi, poi è evaso, ha raggiunto le forze della Resistenza e ha preso parte ai combattimenti, che hanno preceduto la liberazione di Parigi.
    “Ho una sua foto di quei giorni, lei è in mezzo a un gruppo di partigiani francesi e italiani, me l'ha data Libera, la vedova di “Mustaccino”. “Ah, suo padre Giuseppe era con noi massimalisti, ma è morto in esilio, un po' prima della guerra di Spagna. Aveva lasciato l'Italia dopo l'assassinio di Matteotti ed era molto attivo... Il marito di Libera, un ex comunista fiorentino, che aveva lavorato alle poste, era stato bordighiano, poi ha aderito alla socialdemocrazia”.
    Bogoni ha rivisto l'Italia a guerra finita, varcando la frontiera in treno, quando i collegamenti non erano stati ancora ripristinati per bene...
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    Note

    1)Firmatario, nel '20, di un documento, dove si auspicava che si giungesse al più presto a una “fraterna unione” fra i repubblicani, gli anarchici e i socialisti (la dichiarazione fu siglata, oltre che da lui, dagli anarchici Alfredo Bacconi, Vitaliano Dubini, Mario e Giuseppe Gasperi, Pasquale Corsi e Armando Lucchetti, dai repubblicani Federico Chelotti, Isidoro Grassini, Albano Calastri, Paride Perini e Oris Bigazzi, dai socialisti Angiolino Tusacchi, Libero Bartalini, Pilo Fiorini e Rosito Nistri e dai mazziniani Vincenzo Suzzi e Atene Pasquinelli), lo zio rimase fedele al P.S.I., dopo la scissione di Livorno, e nel '23 chiese il rilascio del passaporto per emigrare in Belgio, come avevano fatto Giulio Giovannetti e Silvio Quintavalle. In seguito, però, si trasferì, con il fratello Dino, a Roma, dove fece il muratore e l'assistente edile, poi, nel '43-44 si unì ai partigiani della capitale e prese parte alla lotta di liberazione. Fra i suoi amici ricordava spesso Emilio Zannerini e Duilio Maiorelli.

    Appendice

    Un'intervista col compagno Maurín deputato alle Cortes

    (Avanti, giugno 1936)

    Giuseppe Bogoni

    Dopo la grandiosa vittoria del Fronte Popolare spagnolo, alcuni giornali inglesi e francesi di destra (il Temps, per esempio), hanno parlato di un nostro compagno spagnolo come di un elemento pericoloso per le sue doti personali e per il fatto di essere il leader di un giovane partito marxista che è l'ala marciante dello spontaneo movimento delle masse spagnole. Un partito, il cui programma è prettamente classista, e cioè rivoluzionario, a differenza di quello degli altri partiti operai, la cui tinta rossa si è sbiadita. Questo “pericoloso” leader è giovane, ma già vecchio d'esperienza: è il compagno Gioacchino Maurín, deputato alle Cortes (Parlamento spagnolo).
    La scorsa settimana abbiamo avuto il piacere di rimanere in sua compagnia per alcuni giorni, e ci è stato così possibile constatare veramente il suo valore e le sue capacità...
    Gli ho fatto la seguente domanda: “C'è in Spagna una situazione rivoluzionaria socialista?”
    - Naturalmente! - egli esclama. - La situazione spagnola è di rivoluzione democratica e socialista nel medesimo tempo. Democratica nel senso che c'è ancora una parte della rivoluzione borghese da compiere, soprattutto nel campo agrario. Socialista perché la rivoluzione non può arrestarsi allo stadio borghese democratico.
    - Gli chiedo se i partiti operai comprendono questa situazione rivoluzionaria. La risposta è la seguente:
    - Il Partito Comunista crede che si tratti di una rivoluzione semplicemente borghese, ne deduce naturalmente che bisogna aiutare i partiti borghesi.
    - Il Partito Socialista è diviso su questo argomento. Il centro del Partito crede pure che ci troviamo dinanzi ad una rivoluzione democratico - borghese. La sinistra non ha posizioni molto precise. Sembra che il suo concetto sia il seguente: la rivoluzione ha due stadi, il primo borghese con l'aiuto dei socialisti, ed il secondo socialista con l'aiuto della sinistra repubblicana.
    - L'interpretazione politica del nostro Partito Operaio d'Unificazione Marxista è molto differente da quello dei comunisti e dei socialisti. Noi, marxisti - leninisti, crediamo che la nostra rivoluzione è democratico - socialista e che la classe operaia deve prendere il potere per realizzare il lato democratico della rivoluzione e cominciare la rivoluzione socialista.
    In conseguenza della sua risposta chiedo: “C'è la possibilità di un governo di Fronte Popolare guidato dai partiti operai ed avrà esso la volontà e la possibilità di condurre le masse verso una vera rivoluzione sociale?”
    A tale domanda mi risponde: La questione del governo di Fronte Popolare è già stata posta da noi, ma trova momentaneamente l'opposizione della sinistra socialista. Noi siamo partigiani della costituzione di un tale governo, senza la nostra partecipazione naturalmente, perché in questo modo si metterà in evidenza che la politica del Fronte Popolare non può risolvere i problemi posti dalla rivoluzione.
    Bisogna fare l'esperienza del Fronte Popolare perché le masse si rendano conto che i problemi della rivoluzione sociale potranno essere risolti solamente se la classe operaia prende il potere...
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    Come lottano e come muoiono

    Da una lettera di Martini
    dalla zona di guerra, 31 agosto
    (Avanti, settembre 1936)

    Giuseppe Bogoni

    Siamo partiti l'altro giorno da Barcellona dopo una trionfale traversata della città. Ovunque passavamo eravamo accolti freneticamente e la popolazione ci colmava di doni. Il fatto d'essere stranieri ci ha dato la possibilità di accoglienze più affettuose perché i compagni spagnoli ci sono riconoscenti per quel poco che noi offriamo loro. Il viaggio è stato lungo e faticoso, ma le fatiche fisiche scompaiono di fronte alla vera fraternità dei nostri compagni spagnoli. Siamo arrivati alle prima località destinateci, proprio nel momento che partiva la salma di Angeloni, il quale è morto dopo due giorni di sofferenze. S'era battuto eroicamente e la sua compagnia di circa 150 militi è riuscita a mettere in fuga 700 fascisti.
    Ieri siampo partiti per una nuova località, stamane nuova partenza, stanotte viaggio ancora. Domani forse raggiungeremo la colonna... ove ci troveremo bene. La gioia è grande. L'entusiasmo in tutti noi rimane e meglio aumenta. Ci tempreremo per le lotte che dovremo fare in Italia. Tutti i nostri giovani sono nella medesima squadra. C'è una buona fraternità. Prima di partire con il denaro che ci avete dato, ho comprato degli zaini per i nostri e dell'anice per tutta la compagnia: ciò ha fatto particolarmente piacere ai nostri, ed agli altri compagni. B... continuerà a scrivervi. Io cercherò di farlo più che mi sarà possibile. Certo sarà difficile rimanere in regolare collegamento...
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    L'azione della Colonna “Lenin”

    (Avanti, 11 ottobre 1936)

    Giuseppe Bogoni

    Dopo alcuni giorni di peregrinazioni la nostra Colonna internazionale “Lenin” è arrivata sulla linea di fuoco, sul fronte di Huesca. In tutti i compagni c'era l'ansia dell'azione, ma si dovette attendere ancora due giorni, prima che tutti potessero maneggiare il fucile contro il nemico...
    Improvvisamente, una notte ci svegliarono per partire con altri compagni spagnoli per una azione contro un molino isolato, nel quale si erano annidati dei fascisti e dei soldati. Dopo quasi due ore di cammino nell'oscurità e con tutte le precauzioni possibili, arrivammo alla meta. La casa fu prontamente accerchiata, e, dopo aver assicurato la posizione, vi penetrammo. I fascisti, però, erano fuggiti poco prima del nostro arrivo.
    Il capitano Russo pensò di andare più avanti, nonostante gli ordini, che aveva ricevuto. E non fu male, ché non lungi passava la camionabile Barbastro - Huesca, che collega la città vicina con il forte d'Aragón, di grandissima importanza strategica. Scopo del compagno Russo era di tagliare il collegamento dei nemici. E fu così che con un piccolo gruppo della Colonna internazionale e con alcuni militi spagnoli, si prese d'improvviso la località Caseta de Quicena, non lungi dalle porte di Huesca (circa un km. e mezzo). Anche questa seconda operazione, nella sua prima fase, ci riuscì molto bene. Arrivammo senza sparare un colpo per non richiamare l'attenzione di un vicino distaccamento fascista.
    Occupata la strada e le case della località, la nostra prima preoccupazione fu quella di tagliare le comunicazioni telefoniche e telegrafiche e di assicurare la posizione con delle barricate...
    In seguito facemmo dodici prigionieri, tra i quali un ufficiale ed un sergente, ed un ricco bottino di armi e munizioni. Nel pomeriggio pensammo di consolidare la posizione ai nostri lati, occupando fra l'altro il Manicomio di Huesca, che non potemmo mantenere perché il numero degli uomini era insufficiente. E fu in questa operazione che perdemmo uno dei nostri migliori elementi, il caro compagno Robert de Fauconnet, che dal 19 luglio era sempre sulla breccia contro i fascisti...
    Di grande importanza fu, infine, l'azione del Molino, in cui circa 50 fra soldati e fascisti vennero accerchiati da un nostro gruppo di quaranta militi...
    Dopo aver circondato il Molino e avere intimato la resa agli occupanti, alcuni compagni vollero abbattere la porta della casa, ove i nemici si erano rifugiati. Ma, invece di attenersi agli ordini del capitano, l'aprirono semplicemente, cadendo, così, in un agguato. Infatti, appena entrati, scoppiò una bomba, che ferì gravemente cinque dei nostri e ne uccise altrettanti, fra cui Miguel Pedrola, membro dell'Esecutivo giovanile del P.O.U.M. Continuammo nella nostra azione con un'intensa fucileria e fummo bombardati dai cannoni del forte d'Aragón. Dovemmo sospendere l'operazione e lasciare dei compagni di guardia, perché i nemici non fuggissero. Le scaramuccie continuarono e nella stessa sera 19 soldati e un sergente si arresero Gli altri furono presi il giorno seguente... Dopo due giorni abbiamo attaccato un'altra località fascista, e precisamente il villaggio di Quicena, ai piedi del monte Aragón. Sempre con la tattica della sorpresa, potemmo prendere con uno sforzo minimo un importante centro di vettovagliamento delle forze nemiche accerchiate. Vennero fatti 15 prigionieri e arrestati un ufficiale e alcuni fascisti. Il grosso della truppa era fuggito prima del nostro arrivo.
    Lo stesso giorno, sul posto dove erano stati trucidati i nostri compagni, vennero fucilati cinque fascisti...
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    Ricordando la presa di Monte Aragón

    (La stampa libera, 30 settembre 1937)

    Bruno Sereni

    Bandiera rossa. Barcellona, settembre.

    Sul castello del Monte Aragón sventola la bandiera rossa.
    - No es verdad.
    - E' rossa, è rossa. Vittoria, vittoria!
    Il camion ha ripreso la corsa per una strada improvvisata, in aperta campagna. Per andare a Tierz da ora in avanti non dobbiamo più fare il giro per Bellestar. Basterà scendere la collina e saremo nel villaggio.
    Estrecho Quinto è caduta avanti che i covoni di grano cominciassero a marcire. Immagino la contentezza di quei contadini che non potevano raccoglierlo, penosi sospiri, le lunghe ed interminabili maledizioni...
    Ora che Monte Aragón è nostro, a Tierz non mancherà più l'acqua, com'è successo in questi ultimi giorni, che essendosi rotto il canale non si poteva andare ad accomodarlo.
    Il camion si è fermato: per arrivare ai nostri avamposti, dobbiamo fare un chilometro a piedi. Sono con Borgo, il quale porta un sacco con gli indumenti dei compagni e un pacco di giornali. Non riesco a tenergli dietro.
    - Va, corri, io verrò piano piano.
    I nostri sono in una capanna di pastori costruita a quadrato con la tettoria forellata bassa e un cortile nel mezzo. L'aviazione nostra è venuta a salutarci. Alcuni apparecchi hanno fatto sopra noi delle vere acrobazie, entusiasmandoci. Non sono andati sopra Huesca: si vede che hanno rispettato il dolore degli sconfitti... almeno in questo giorno di vittoria.
    Nella capanna troviamo alcuni compagni, gli altri sono andati a sedersi sopra i cannoni antiaerei di Estrecho Quinto e a fare schiamazzo. Andare fin lassù, un altro chilometro non me la sento.

    Sole giallo

    Preferisco sdraiarmi ad assaporare una buona pigna d'uva moscata che mi offre un compagno. Non si ode uno sparo, quasi sembrerebbe il preludio della pace se i giornali non ci parlassero dei combattimenti di Oviedo e di Talavera de la Reina.
    La guerra continua e le sorprese non mancheranno, tanto da una parte come dall'altra, ma finché Don Chisciotte e Sancio si mantengono in campagna, il fascismo deve temere i loro colpi mancini.
    Le previsioni di Roma e Berlino sulla Spagna già hanno avuto una rettifica e prima che il duello sia del tutto terminato le rettifiche aumenteranno.
    La pazzia è contagiosissima, e per quanto facciano i savi di Londra per circoscriverla, finirà all'ultimo per avere ragione sul freddo razionalismo inglese e il lucido intellettualismo francese.
    Era ora che si uscisse dall'immobilismo delle formule pseudoscientifiche.
    E com'è tiepida l'aria quest'oggi e com'è bello il sole...
    - Alzati che c'è il sole giallo! - mi direbbe un mio nipotino se fosse qui a vederlo. Borgo è tornato con Russo, Castello ed altri. Il capitano Diaz, il giornalista Joust ed altri ufficiali commentano animosamente il grande avvenimento della giornata.

    In un villaggio

    Ojalá del Obispo è a pochi chilometri, Borgo domanda il permesso per andare fino ad Ojalá; lo accompagno.
    Nel piccolo villaggio c'è una colonna arrivata fresca, fresca da Barcellona. I miliziani ci guardano ammirati e ci salutano con rispetto; le nostre barbe lunghe, le scarpe infangate dicono da dove veniamo.
    - Son camaradas extranjeros (1), sentiamo che dicono.
    - Qué tal? qué tal? qué tal?
    E' la padrona di casa, quella che ci cucinò le anitre il giorno che arrivammo per la prima volta nel paese. Sono passati quasi tre mesi. Quasi ci vorrebbe baciare, ma si trattiene, non si considera ancora tanto vecchia per farlo, e noi con quelle barbacce non siamo affatto dei collegiali...
    Bien, bien, bien, e posiamo in un angolo i fucili come facemmo quel giorno. Suo marito, un autentico repubblicano, sta trebbiando gli ultimi covoni. La figlia, una bambina di dieci anni, ci chiama l'attenzione con pugni nei fianchi. Borgo s'è chinato e l'ha baciata sulla fronte, questa è scappata a nascondersi all'ultimo piano. La madre la chiama perché venga a preparare a tavola, ma non vuole scendere.
    L'effusione irrompente dei vari sentimenti va estendendosi per tutti gli angoli della casa. Alla fine troviamo un argomento per convogliare la conversazione. La piccola Maddalena è scesa e ora prepara la tavola con le migliori posate e la tovaglia e i tovaglioli per le grandi occasioni.
    - Cuantas cosas han pasado desde entonces (2).
    Noi annuiamo con un movimento della mano e un battito prolungato di palpebre. Sulla soglia insieme a suo marito ci ha stretto con effusione sincera la mano e ci ha detto: - Que tengan suerte, mucha suerte... (3)

    Riposo

    E' quasi notte, la confusione della vittoria è stata tanta che durante il giorno si sono dimenticati di mandare fin quassù i viveri., Nessuno protesta e tutti si arrangiano improvvisando per proprio conto la cena in piccoli gruppi.
    - Pas de politique ce soir (4), ha detto un francese.
    - Bien fait, bien fait (5), hanno risposto parecchie voci.
    Di dove siano uscite tre bottiglie di vino spumante non mi è facile immainarmelo: non per questo mi astengo dal berne a garganella la mia porzione.
    Nessuno vuole dormire, e Russo a fior di labbro ha cantarellato: Acuaste Carulì ca l'aria è doce.
    Tutto sta a cominciare. Il nostro circolo va ingrossandosi. Russo canta a fior di labbro. Lamentiamo la mancanza d'una ghitarra, ma c'è chi accompagna il canto con la bocca chiusa e il concerto fila che è un piacere. Ah, se ci fosse Panighetti (6).
    Quanno spunta a' luna a Marechiaro
    pure li pesce fanno l'ammore.
    - Pas de bruit que Russo chante (7).
    Un compagno spagnolo ci canta una “Jota Aragonesa”. La voce squilla nell'aria umida della notte.
    Asomate a la ventana (8).
    Aj! Aj! Aj!
    A poco a poco il silenzio si estende e le candele si spengono. E' presto l'alba: tra qualche ora daremo l'attacco ai filati di uva con un poco di pane: sarà una colazione squisita.

    1)Sono compagni stranieri.
    2)Quante cose sono successe da allora.
    3)Abbiate fortuna, molta fortuna.
    4)Niente politica stasera.
    5)Ben detto, ben detto.
    6)Augusto Panighetti, massimalista.
    7)Silenzio! Russo sta cantando.
    8)Affacciati alla finestra.
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    Colloquio con il professor Giuseppe Bogoni

    (Roma, 28 marzo 1978)

    D: Come mi ha detto..., lei ha conosciuto Mario Traverso...
    R: L'anarchico?
    D: Sì.
    R: ...Mi sembrava molto anziano, forse perché aveva i capelli bianchi, ed era un po' corpulento. Lo incontrai al Falcón quando arrivai a Barcellona, ma mi sembra... di aver sentito parlare di lui anche prima. In Spagna si trovavano da qualche mese due nostri compagni, Balduini e la Rosa, e forse me ne avevano scritto loro. Quando l'ho visto per la prima volta, Traverso aveva una mano fasciata, credo che fosse stato ferito durante la lotta di strada, il 19 o il 20 luglio del '36. Era un uomo smpatico, avevamo in comune l'amore per la scrittura, io pensavo allora a un mio romanzo, anzi più tardi lo scrissi, ma Cino Del Duca - glielo portai a Parigi - non me lo pubblicò. Traverso era autore di teatro o poeta, o forse tutt'e due le cose, e al Falcón circolavano degli opuscoli suoi, un libretto che aveva stampato in Francia, una “pièce” contro Mussolini. Anche un suo amico, un certo Martini, politicamente vicino a noi, a noi massimalisti, e toscano come Bruno Sereni, faceva il poeta e recitava i suoi “pezzi” ogni volta che ne aveva occasione... Poi Traverso andò al fronte, nella “Lenin”, con Castello, che ideò una galleria per prendere Huesca, con Picedi e Benci... Dopo lo persi un po' di vista, ma io dovetti lasciare la Spagna precipitosamente. Non sapevo, fin quando lei non me l'ha detto, che fosse caduto in Spagna, ma ciò torna a onore di questo vecchio anarchico, devoto agli ideali.
    D: Si ricorda di Tosca?
    R: Sì, era anche lui toscano. In Francia aveva avuto una vita difficile, di stenti, di espulsioni. Lo conobbi a Barcellona... Era magro, aveva un'aria sofferente. Anche lui ha combattuto, da miliziano, insieme a noi, davanti a Huesca, con Russo, con Sereni, nella colonna “Lenin”.
    D: Può dirmi qualcosa di Guarneri?
    R: Pino? Il milanese? Certo... Le posso raccontare il mio primo incontro con lui, quando sono arrivato a Barcellona o poco dopo. Al Falcón, l'albergo del POUM, o in via Layetana. Pino faceva una certa impressione. Aveva in testa un fazzolettone, teschio stampato, pistoloni e pugnale, insomma era armato fino ai denti, credo partecipasse alla “bonifica” della città dagli ultimi sediziosi. C'era con lui un trotskista che avevo conosciuto in Francia e che forse si chiamava Piero Milano. Ci si fecero delle foto insieme, anche se io ero cauto: l'esilio mi aveva insegnato a comportarmi in un certo modo. Non dico che l'ambiente fosse ambiguo, ma era meglio essere prudenti. Potevano esserci dei personaggi discutibili, non sono mancati, come saprà.
    D: Lucchetti, ad esempio...
    R: Eh già, era stato socialista, in Francia, nella Francia meridionale quell'individuo era vicino ad alcuni dei nostri migliori compagni, poi quando è apparso l'elenco dei collaboratori dell'OVRA ho letto il suo nome e a dire il vero non mi sono stupito troppo... Purtroppo quei fatti succedevano. Io lo rammento ambiguo, sfuggente, non aveva peso politico, però... Quanto all'avvocatino, ho sempre avuto molte riserve su di lui, sul suo conto. Istintivamente. Ma erano ben fondate.
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