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e uno stralcio dalla sua opera teorica più celebre, il Manifesto) |
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filosofo, economista e uomo politico Figlio di un avvocato, ricevette un'educazione di impronta liberale illuministica. Iniziò a studiare diritto all'Università di Bonn, continuò a quella di Berlino, finché non preferì dedicarsi alla filosofia, secondo un impulso, alimentato dalla lettura di Hegel, che lo spinse a «cercare l'idea nella realtà stessa». Si laureò a Jena nel 1841 e rinunciò alla carriera accademica. Divenne in seguito redattore capo del giornale liberale «Rheinische Zeitung» conducendo una strenua battaglia nei confronti delle istituzioni statali. Nel 1843 Marx si trasferì a Parigi dove fondò una rivista, scrisse i «Manoscritti economico-filosofici del 1844» nel quale continuò a esporre le proprie riflessioni sul lavoro «alienato» e la società capitalistica. Nel 1844 incontrò Engels e iniziò con lui una collaborazione politica e teorica: insieme, pubblicarono «La sacra famiglia». In seguito, Marx scrisse «Tesi su Feuerbach» e, ancora in collaborazione con Engels, l'«Ideologia tedesca», in cui iniziarono a delinearsi le tesi sul materialismo storico e sull'ideologia. Marx fu espulso dalla Francia, riparò a Bruxelles dove pubblicò un'importante scritto polemico contro Proudhon, «Miseria della filosofia», che segna l'adozione esplicita della teoria del lavoro-valore. Il tema della classe operaia domina poi nel «Manifesto del partito comunista» steso da Marx con Engels nel 1848. In quello stesso anno i due tornarono in Germania e fondarono a Colonia il quotidiano «Neue Rheinische Zeitung», fautore di un fronte democratico. Marx fu espulso dalla Germania e in seguito, nuovamente, dalla Francia: si trasferì allora con la famiglia a Londra dove visse in condizioni di estrema miseria, aiutato da Engels. A Londra pubblicò «Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850» e «Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte» (1852). Nel 1867 pubblicò il primo libro del «Capitale» (gli altri due libri usciranno, a cura di Engels, nel 1885 e 1894). Il «Capitale» verrà integrato dalle «Teorie sul plusvalore» (1862-63), che saranno edite nel 1905 da Kautsky. Quanto
all'attività politica, Marx ebbe una parte primaria nella fondazione
(1864) e nelle vicissitudini della Prima internazionale, fino alla rottura
con l'anarchico Bakunin. Nel 1871 sostenne la Comune parigina. Il punto
più avanzato del pensiero politico di Marx è rappresentato
dalla «Critica del programma di Gotha» (1875), in cui riafferma
che, in corrispondenza con il periodo di trasformazione rivoluzionaria
in una società comunista, si avrà un periodo di transizione
«in cui lo stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria
del proletariato». Negli ultimi anni della sua vita Marx s'interessò
ai fermenti politico-economico-intellettuali in Russia e non escluse che
da lì sarebbe potuto venire un inizio rivoluzionario.
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Ebbene… andavo tra fiorellini candidi e azzurrini di primavera, quelli che nascono subito dopo le primule, – e poco prima che le acacie si carichino di fiori, odorosi come carne umana, che si decompone al calore sublime della più bella stagione – e scrivevo sulle rive di piccoli stagni che laggiù, nel paese di mia madre, con uno di quei nomi intraducibili si dicono “fonde”, coi ragazzi figli dei contadini che facevano il loro bagno innocente (perché erano impassibili di fronte alla loro vita mentre io li credevo consapevoli di ciò che erano) scrivevo le poesie dell’“Usignolo della Chiesa Cattolica”; questo avveniva nel ‘43: nel ‘45 “fu tutt’un’altra cosa”. Quei figli di contadini, divenuti un poco più grandi, si erano messi un giorno un fazzoletto rosso al collo ed erano marciati verso il centro mandamentale, con le sue porte e i suoi palazzetti veneziani. Fu così che io seppi ch’erano braccianti, e che dunque c’erano i padroni. Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx. […] [da Poeta delle Ceneri
in Bestemmia, Poesie disperse II
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“Andavo tra fiorellini
candidi e azzurrini di primavera, quelli che nascono subito dopo le primule,
– e poco prima che le acacie si carichino di fiori”, posso dire con Pasolini;
avevo poco più di quindici anni e immaginavo la vita tutta rose
e fiori quando incontrai la prima manifestazione della mia vita. C’erano
molti uomini e poche donne che sfilavano con cartelli nei quali si chiedeva
“lavoro e giustizia sociale”. Mi domandai perché dovessero andare
per le strade a chiedere cose che a me pareva “naturale” avessero. A casa,
chiesi a mio padre. Lui spiegò: “Ci sono quelli che hanno molto,
anche il superfluo. E altri che non hanno niente, neppure il minimo per
vivere. Ci sono quelli che hanno capitali, e mettono su fabbriche. E altri
che in quelle fabbriche lavorano dieci, dodici ore al giorno. E ricevono
un salario con cui sfamare a malapena la famiglia. Uno che lavora dieci,
dodici ore al giorno ha solo il tempo di tornare a casa, mangiare un povero
boccone e andare a dormire per essere pronto, l’indomani, a riprendere
la lunga giornata di lavoro. Sono sfruttati, capisci?, la loro vita non
gli appartiene più. E ogni tanto protestano perché qualcosa
cambi, perché la loro vita migliori. Quando protestano, spesso,
vengono cacciati via dai padroni, licenziati. Quelli che hai visto reclamavano
un lavoro e il diritto di essere trattati come esseri umani, anziché
come schiavi”. Erano parole, concetti semplici: capii. Poi andai oltre.
Anch’io lavorai, lessi libri di storia, lessi Marx e vi ritrovai le verità dell’esistenza di tutti i giorni, mia e di quelli come me. E seppi che dovevo stare da una sola parte e ben fermamente. Certo, contro quell’altra parte, quella che accumulava sulla pelle nostra. E che quell’altra parte andava combattuta, con le unghie e coi denti, perché la piantasse di considerare sua proprietà anche gli esseri umani. Seppi di popoli che erano riusciti, che riuscivano a liberarsi dalla schiavitù: e cominciai a pensare che fosse possibile... Occorreva anzitutto credere, essere del tutto convinti che tutti gli uomini sono uguali, con pari bisogni e pari diritti. Era necessaria, poi, una grande unità con tutti gli altri come me: unità di obiettivi, di prospettive, di lotte soprattutto. E non bisognava cedere mai... né farsi incantare dagli strumenti che sottilmente “quegli altri” mettevano in campo. Né farsi sopraffare dalle prepotenze. E neppure lasciarsi intimorire dalle provocazioni o dalla repressione violenta. Occorreva parlare, parlare e ancora parlare con quelli come me perché si rinfrancassero, trovassero il coraggio di ribellarsi, di opporsi a un padrone, a un potere arrogante e apparentemente onnipotente. Occorreva essere solidali, fattivamente non a parole, con i senza lavoro, con i senza casa, con i sofferenti, con coloro ai quali era stata sottratta perfino la dignità... Bisognava partire all’attacco
dei privilegi e di coloro che ne godevano, impedire gli abusi e le
speculazioni, lottare per l’affermazione dei propri obiettivi, per strappare
case dignitose per le nostre famiglie, scuole qualificate per i nostri
figli, ospedali che curassero adeguatamente i nostri malanni... Occorreva
non concedere un attimo di tregua, affrontare di continuo “quelli
là”, i padroni del vapore, rivendicando diritti e abbattendo privilegi
Bisognava comprendere e far proprio quel semplice concetto – tutti gli
uomini sono uguali – che per me e tanti come me era il laico precetto da
osservare a qualunque costo, che valeva l’intera Costituzione di un Paese:
e farlo entrare nelle coscienze, in tutte le coscienze di quelli come me.
Perché quelli come me potevano, dovevano farsi guidare solamente
da questi imperativi: l’emancipazione, il progresso, la solidarietà,
la lotta.
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