New York
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“Quando penso a New York  vedo davanti a me un’enorme bugia,
una illusione, una truffa, un incubo - penso in particolare a Manhattan.
Quanto imponente e grandiosa, immensamente potente,
sembra dall’aereo oppure dalla coperta di uno dei transatlantici
che entrano nel porto. E tuttavia ogni volta che sono tornato da viaggi
nell’entroterra o da un soggiorno all’estero,
il solo vederla mi ha riempito di terrore, schifo e disperazione.
Non ho mai provato nostalgia. Non verserò nemmeno una lacrima
per la morte di New York, semmai la vivessi.
Per quanto sia potente la sua forza, non ha mai significato niente per me,
nella mia immaginazione è una città già morta,
che si sgretola da cima a fondo.”
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da Ricordi surriscaldati dello scrittore americano Henri Miller (1891-1980)
 

Diario di un viaggio
Durante un recente viaggio a New York ho tenuto un 
diario, dal quale estraggo ora alcuni  appunti
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clicca sulle foto di New York 
se vuoi vederne un ingrandimento
Panorama al 
tramonto
Dal mare si ha una visione d’insieme della baia di New York con isole e isolotti, del porto, dei punti di Brooklyn e di Manhattan e del Financial District (dove c’è anche Wall Street, il centro del centro del potere finanziario del mondo intero): il Financial District è un grappolo di grattacieli su cui spiccano le Twin Towers - le torri gemelle di 110 piani ciascuna, incombenti, brutte e squadrate, a scatolone. Vi lavorano circa 60mila impiegati e funzionari (rigorosamente vestiti “Armani” e calzati “Ferragamo” e rigorosamente di pelle bianca).
Sento un leggero brivido nella schiena, e non è per il vento che, con il sole (brillantissimi i suoi riflessi sull’ampia distesa di mare) l’ha fatta da padrone per tutta la giornata.
Nota confortante: allo sbarco a Manhattan un musicista nero con cornetta e tastiera elettronica suona tra l’altro una bella versione jazz di “Guantanamera”, la canzone cubana che descrive - visto con gli occhi di una ragazza di Guantanamo - il sopruso dei nordamericani che nell’isola caraibica occupano quella zona con una loro base militare.
 

Central Park
Arrivo all’altezza del Metropolitan Museum (oggi è chiuso) e lì entro in Central Park) e passeggio in lungo e in largo. Infinito. Malgrado vi sia molta gente mi stupisce piacevolmente il silenzio: non si sente neppure il traffico della 5th Avenue e delle strade che passano all’interno di  Central Park e che sono percorse dalle auto. Alcuni passeggiano, da soli, in compagnia, con i cani, chi discorre lo fa sottovoce; altri, stesi negli immensi prati, si godono il sole; altri ancora stanno sulle panchine intorno a un bel laghetto. In Central Park vedo le statue di Alice nel paese delle meraviglie, con il Cappellaio Matto, il Coniglio, lo Stregatto, e una statua di Hans Christian Andersen che assomiglia vagamente a Lenin. Mi fermo su una panchina un’oretta buona.
Qui nessuno ti infastidisce, c’è chi semplicemente transita o chi fa jogging, persone di tutte le età con gli abbigliamenti più vari e pittoreschi. Tutti, newyorkesi e turisti, portano scarpe sportive (da tennis o da relax, ma questo avviene non solo qui, anche in tutte le altre parti della città. È curioso, alle volte, vedere una giovane signora, elegante nel suo tailleur nero, probabilmente “firmato”, con queste belle scarpotte a strisce irregolari bianche, nere, gialle e blu).
Vedo molti bambini, finalmente; New York pare non averne, salvo ad Harlem: la città nel suo complesso è una città anti-bambino: rari gli spiazzi, non un cortile per giocare. Pochi, piccoli e protetti i giardini e i parchetti cittadini. Qui è il loro regno. Poche le coppiette e molto educate, non esibizioniste. Mi piace immensamente Central Park: pare di essere fuori del mondo e non in una città che nel suo cuore - Manhattan - sento esteticamente affascinante ma tutto sommato ostile, costruita così com’è per “stupire”: la grandezza, l’altezza dei grattacieli - una vera gara per quello più luccicante - tutti dai nomi illustri e più ricchi del pianeta.
 

Ellis Island
Vi venivano tenuti in quarantena, letteralmente ammassati - dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Trenta - gli immigrati che arrivavano da paesi di tutti il mondo  a New York via mare: vi sono ancora alcune parti delle camerate in cui dormivano, con brande sovrapposte che mi hanno, neppur troppo stranamente, ricordato le “camerate” dei lager di funesta memoria. Visito tutto ciò che oggi è presentato come “Museo dell’immigrazione”, ricchissimo di materiale fotografico e di reperti delle povere cose che gli emigrati portavano con sé (dalle ceste agli indumenti, alla biancheria, alle modeste masserizie). Le foto esposte alle pareti sono moltissime: negli occhi di quelle persone si può leggere ancora in uguale misura disperazione e speranza. Se vuoi saperne di più su questo luogo molto triste e anche molto istruttivo, vai a vedere la particolare sezione che gli ho dedicato in questa home page.


 
Harlem
In una chiesa battista di Harlem ascolterò gospels. Vado in pullman a West Harlem attraversando Manhattan (con un gruppo di italiani e con tanto di guida che man mano ci racconta ciò che si incontra nel tragitto).
Molti bei palazzi costeggiano Central Park West e persone famose vi hanno un’abitazione. Si passa davanti alle insegne dei più celebri teatri di Broadway, quelli in cui i musicals restano in cartellone anche per alcuni anni con rappresentazioni tutte le sere. Vediamo, sempre di passaggio - anche se di fatto si va a passo d’uomo in mezzo a una marea di traffico - Radio City Music Hall, il Lincoln Center, la Carnegie Hall, la casa dove abitò John Lennon e davanti alla quale fu ucciso.
Su una collinetta vi è l’imponente Columbia University che ha avuto tra i suoi allievi  Jack Kerouac e Allen Ginsberg, tutti e due espulsi per condotta immorale.
Percorriamo poi a piedi le strade di Harlem, quartiere abbastanza degradato anche se il percorso guidato prevede la visita di casette di legno dell’Ottocento già restaurate e interi quartieri bruciati negli anni Ottanta il cui restauro è in corso. Si nota anche qualche carcassa d’auto bruciata. Qui vi sono state tensioni tra gruppi neri e ispanici, che si sono fatti la guerra tra loro fino a una decina di anni fa.
Poi, in collina (qui il terreno è piuttosto “mosso”, a saliscendi), splende la cosiddetta  “Casa bianca”, una villa dove abitò perfino George Washington (dice orgogliosa la guida nel suo improbabile italiano alla Stan Laurel e Oliver Hardy), costruita in stile “falso palladiano”, restaurata e ben conservata. Fa a pugni con le casette di legno, poco distanti e multicolori, con le scalinate d’accesso che partono dai marciapiedi e con le case di tre-quattro piani, con intonaci scrostati e anneriti, con nere e in parte arrugginite scale antincendio sulle facciate, una costante a New York, anche quando queste costruzioni sono affossate, letteralmente soffocate e rese “quasi” invisibili dai grattacieli di Manhattan. Molte di queste palazzine sono abbandonate, hanno assi inchiodate alle porte e finestre, in alcuni casi le finestre sono murate, per evitare che divengano abitazioni di persone immigrate abusivamente o dei 70mila homeless stimati nella sola Manhattan.
Si entra nella chiesa (dove metà dello spazio è occupato da una scalinata di legno per i fedeli e i visitatori occasionali quali siamo noi). Il rito è officiato in modo decisamente informale tra suoni e canti gospel: bellissime le voci, soprattutto quelle femminili con tutta la gamma delle estensioni vocali; suggestivo l’ambiente. Anche i fedeli di Harlem, di un’eleganza molto vistosa nella giornata festiva, e il celebrante in cotta e stola, con paramenti molto simili a quelli di un sacerdote cattolico, cantano e muovono ritmicamente il corpo, le braccia, seguendo indicazioni non scritte che sono particolarmente adatte ad accompagnare questi canti appassionati e commoventi.
Tutto il canto si armonizza su una, al massimo due frasi (“We Are Calling You, My Lord; Bless Our People, My Lord”, per esempio), che vengono ripetute nelle modulazioni più varie e con veri e propri “ricami” che svariano da toni acutissimi ad altri bassissimi, quasi arrochiti, delle bellissime voci di solisti che, di volta in volta, di canto in canto, escono ad uno ad uno da un coro formato da voci maschili e femminili. Cantano a piena voce, qui non vi sono mezzi toni o inflessioni “sentimentali” o espressionistiche, come quelli che vengono utilizzati nella musica jazz e anche nelle arie o nelle romanze delle opere liriche di tradizione europea: sono invocazioni, in alcuni casi proteste vere e proprie, che hanno la loro origine nei canti appassionati e disperati degli schiavi delle piantagioni di cotone del profondo Sud che li utilizzavano proprio in modo prioritario per creare coesione ed unità tra loro, per esprimere dolore e contenuta ribellione nei confronti di una condizione subumana.
Tutti coloro che fanno parte del gruppo vocale portano lunghe vesti bianche e stole - come quella del celebrante - rosse. L’effetto soprattutto emotivo, ma anche musicale e coreografico, - per i movimenti ritmici che, a loro volta, vengono ripetuti con regolarità e unitarietà da tutti i "celebranti” e dai fedeli, è affascinante e coinvolgente. Alcune persone nel gruppo di turisti sono coinvolte a tal punto da eseguire essi stessi movenze che, legate a ritmi assolutamente perfetti e trascinanti, diventano via via sempre più naturali e spontanee.
Uno spaccato di storia, di costume, di sentimenti, di vitalità, di fierezza di tutto un popolo, quello nero: questi non erano afro-americani; erano semplicemente, e ancor più dignitosamente e orgogliosamente, i diretti discendenti di quegli esseri umani che non più tardi di un secolo fa giacevano ancora in catene, venivano venduti nei pubblici mercati e che solo da una trentina d’anni, dopo imponenti movimenti di massa e proteste che hanno conosciuto anche momenti molto drammatici e tragici, hanno strappato elementari diritti quali quelli di circolare sugli stessi mezzi di trasporto, di entrare negli stessi locali pubblici, di mandare i figli alle stesse scuole dei bianchi. Diritti che ora, in questi termini, vengono certamente rispettati, malgrado poi i ruoli siano rigidamente distinti, anche e soprattutto per quanto riguarda i lavori che vengono assegnati, riservati, alla popolazione nera.
Dopo una tale esperienza, non me la sento di tornare nel baccano infernale di Manhattan, ho bisogno di camminare, di riflettere e di rimeditare: io sola lascio il pullman, rimango a gironzolare per questo quartiere che mi ha preso il cuore: molti muri laterali delle case, molte saracinesche di negozi sono decorate con graffiti e pitture in alcuni casi di bellissima fattura, nei quali sono raffigurate varie scene di vita quotidiana e alcuni personaggi che rappresentano la “gloria” di questo straordinario popolo: Cassius Clay e con lui altri rappresentanti di quello sport nordamericano che ha raccolto proprio con i neri i suoi massimi allori, Martin Luther King, Malcolm X.
Vado a pranzo in quelle strade, al vecchio e glorioso Cotton Club (un locale famoso per avere ospitato i più celebri nomi del jazz, da Louis Armstrong a Miles Davis e Dizzy Gillespie, vicinissimo al Teatro Apollo, altro luogo di vero e proprio culto per gli amanti di questo genere musicale: mi hanno fatto entrare, due maschere dell’Apollo, a vedere l’atrio e la sala, art-déco, così, semplicemente, solo perché gliel’ho chiesto.
Al Cotton Club domina la cucina “soul”, che ha la finalità di sollevare gli animi esattamente come il gospel  e la funzione religiosa: domina il pollo, fritto, in umido, arrostito: i polli, in particolare, sono cucinati molto bene dappertutto e sono animali enormi: una coscia di pollo, se non la si assaggia (o annusa) per coglierne la “provenienza”, pare a prima vista una coscia di tacchino; e poi le verdure, una gran varietà di verdure crude e cotte.
Naturalmente il dinner è accompagnato da musica jazz, di ottimo livello. Qui il jazz “gioca in casa”, con strumentisti tutti assolutamente degni di nota e vocalists che non è certo irrispettoso paragonare a Ella Fitzgerald. A quattro strumentisti uomini fanno contrappunto quattro cantanti donne, una più brava dell’altra. Ridendo, anche alle trovate di una delle cantanti che fa partecipare tutti i commensali, bianchi e neri, ai “coretti”, suggerendo le risposte da proporre in coro alle strofe da lei cantate, trascorro in questo posto più di due ore: lei, la cantante, scopre una tavolata di sei turisti inglesi e li sfotte, rifacendogli il verso. Gli inglesi a loro volta imitano il birignao americano e tutti ridiamo fino alle lacrime, compreso il pianista che, alto alto e secco secco, sul suo seggiolino non rimane fermo per un minuto filato.
 

Chinatown
Qui le strade non seguono le regole della parte centrale di Manhattan: sono disposte in modo più disordinato e casuale. In taluni punti Chinatown e Little Italy si compenetrano: gli italiani hanno man mano ceduto il passo e lo spazio ai cinesi, che vivono qui come in una vera e propria città cinese, con tanto di templi buddisti e di quotidiani stampati in cinese. Anche le insegne dei negozi, che si susseguono l’uno all’altro senza soluzione di continuità, sono in cinese e in ideogrammi. Molti negozi, soprattutto i ristoranti, espongono liste delle mercanzie e menu scritti in cinese.
L’impressione generale è quella di un quartiere disordinato, chiuso, ma vivace: vivono qui circa centomila cinesi, e hanno conservato le loro abitudini e la loro cultura. Vi è un numero sterminato di negozi, dove accanto a un venditore di abbigliamento a buon mercato vi è un supermercato di gioielli (domina la giada) e subito dopo una pescheria con grandi ceste di aragoste e granchi enormi vivi, vivissimi. Poi, un sarto che espone preziose vesti cinesi, coloratissime, seguito da un altro negozio che espone centinaia di falsi Rolex. A seguire, un ristorante che ha in bella mostra anatre “laccate”, una enorme esposizione di frutta e verdura e un altro ristorante che tiene in vetrina acquari con aragoste vive e altri crostacei. Il tutto in una varietà di colori sgargianti e di scritte inimmaginabile: una sinfonia di colori e di odori che si inseguono e paiono non avere mai fine.
Oltre ai negozi vi sono fabbriche e fabbrichette di tessuti e di abbigliamento, nelle quali pare si lavori settanta ore la settimana, naturalmente malpagati, quando si è pagati.
In quartieri newyorkesi come Harlem e Chinatown si incontrano diseguaglianze macroscopiche: vi sono i proprietari di esercizi commerciali e di industrie vere e proprie, e coloro che in quegli esercizi e in quelle fabbriche lavorano, con bassi salari e per un tempo medio che è un eufemismo definire esorbitante. Qui si respira nell’aria lo sfruttamento e si vedono perfino ragazzini con addosso veri e propri stracci che giocano per le strade con qualche asse di legno trasformata in giocoso mezzo di trasporto.
Chinatown occupa anche la parte est di Broadway, che corre lungo tutta l’isola di Manhattan con un percorso irregolare rispetto alle ordinatissime Avenues.

Alcuni musei di New York
Guggenheim
Lo visito di buon mattino, in una giornata di sole.
Ospita una retrospettiva di Robert Rauschenberg, un artista texano. Astrattista, compone quadri con materiali disparati oltre che immagini diverse di animali, di parti del corpo umano, di diagrammi; riproduzioni di opere d’arte - La Gioconda, per esempio. Mi ricorda in qualche caso Andy Warhol. È un artista famoso, Rauschenberg, che ha esposto in tutto il mondo, ma ciò non toglie che personalmente la sua opera non mi convinca molto, nel complesso, se si esclude un montaggio con John Fitzgerald Kennedy e le mani dello stesso JKF ripetute in molti riquadri e in diversi colori e una serie di Gioconda (appunto in stile "Warhol") contornate da colori ed effetti diversi.
La collezione permanente (raccolta da Solomon Guggenheim) comprende Kandinsky, Chagall, Léger ai quali Guggenheim (miniere di argento e di rame) dagli anni Venti destinò i propri investimenti. Negli anni Settanta si è aggiunto un lascito, la collezione Tannhauser, comprendente alcuni Cézanne, Degas (Ballerine), Gauguin sempre affascinantissimo, Manet, Toulouse-Lautrec, Van Gogh (Montagne a Saint-Rémy) e alcune opere giovanili di Picasso, molto belle e delicate, soprattutto un ritratto femminile.
Le collezioni del Guggenheim sono inserite in uno spazio architettonico a sé stante, che "fa a pugni" con i bei palazzi che lo attorniano sulla Fifth Avenue; è una costruzione circolare, che sale a spirale; anche l’interno naturalmente è una spirale, e sale per sei piani. Le opere d’arte sono esposte lungo le pareti di tale spirale: si sale in ascensore al sesto piano e si segue la naturale discesa: ad ogni piano si aprono sale laterali nelle quali sono esposte le collezioni permanenti.

Metropolitan Museum
Possiede 3 milioni e mezzo di opere d’arte, gran parte delle quali non esposte: non lamentiamoci delle gallerie italiane!). Il palazzo è in stile neoclassico e sull’ampia scalinata sosta, stravaccato, un intero popolo di stanchissimi visitatori.
Vedo le sale che raccolgono le opere dei pittori spagnoli, italiani, olandesi, inglesi, fiamminghi, gli impressionisti e i post-impressionisti: le opere più notevoli, almeno per me, sono tre dipinti del Caravaggio, tra cui il Giovane con liuto che mi ha sempre affascinato (lo conosco bene grazie alle riproduzioni) e che mi ha molto emozionato vedere dal vivo. La luminosità - le luci e le ombre, per meglio dire - che ha saputo creare Caravaggio sono uno dei più splendidi esempi  di espressività e profondità nelle opere pittoriche di tutti i tempi. Per restare agli italiani, vi è un San Giovanni Battista del Ghirlandaio, una Madonna con due Angeli di Filippo Lippi e un’Adorazione dei Pastori di Mantegna, che a mio parere sono tra i dipinti più notevoli del Met.
Grande commozione, poi per i due Bambini (uno con vestito rosso, l’altro in abito blu, celeberrimi) di Goya, e per il Ritratto di Juan de Parej di Velázquez. Poi, ritratti e ancora ritratti: da quelli delicati di Vermeer (Fanciulla addormentata, quello che mi è piaciuto di più) a quelli di Rembrandt (Hendrike Stoffiels, la sua compagna; Ritratto di signora; Signora con rosa).
Anche nella sezione inglese, molto belli i dipinti dei tre maggiori ritrattisti inglesi: Thomas Lawrence, William Gainsborough e Sir Joshua Reynolds: i ritratti sono quasi tutti dedicati a gentildonne inglesi.
A seguire, due fantastiche e notissime opere di Bruegel (I mietitori e Cacciatori nella neve): amo particolarmente questo pittore, a Vienna rientrai al Kunstistorische Museum tre giorni filati per rivedere solamente i dipinti di questo artista. Tra gli impressionisti (Manet, Monet, Cézanne, Renoir) mi colpisce in particolare I giocatori di carte di Cézanne e il Renoir di Madame Charpentier con bambini. E poi, tra i post-impressionisti, l’amatissimo Gauguin e le sue donne tahitiane, bellissime nella loro semplicità e nei loro colori.
Vi sono due mostre particolari al Met, che riesco a vedere anche se sono affollatissime. Non mi piacciono le sale dei musei troppo affollate: c’è sempre qualcuno che è lì per caso e rompe decisamente le scatole, anche con commenti di cui si poteva decisamente fare a meno. Una delle dipinti e disegni di Utrillo, Van Gogh, Cézanne.
Poi, i «Degas di Degas», cioè i propri dipinti che il pittore tenne per sé, con le Due ballerine in rosso che spicca su tutti.
 

Museum of Modern Art - MoMA
Un museo che definire strepitoso è certamente riduttivo. Grandioso l’edificio, bella l’esposizione di sculture del giardino (tra cui Rodin e Moore (La famiglia), incredibile il numero e la qualità delle opere pittoriche esposte: mi incanto davanti alla Notte stellata di Van Gogh (dell’amato Vincent c’è anche il Ritratto di Joseph Roulin), ma anche alle Demoiselles d’Avignon di Picasso (c’è anche, di Picasso, il bellissino Ragazzo con cavallo, I tre musicisti e Ragazza allo specchio), e alle opere di De Chirico, di Matisse (Le danzatrici, Lezione di piano e Studio rosso - con tutti quei quadri “nel” quadro), Toulouse-Lautrec (La Goulue al Moulin Rouge), Paul Klee (Maschera d’attore, che avevo visto una decina d’anni fa a Firenze, che ospitava una mostra di Klee, e il complicatissimo Giardino del Castello che, visto da vicino, pare un mosaico costruito con migliaia di pietruzze colorate), Cézanne (il bellissimo Bagnante e il Château Noir con le sue nuvole minacciose),  Gauguin (la Natura morta con tre cagnolini), Seurat, Mirò (Hirondelle-Amour, una sinfonia di colori decisi e contrastanti), Boccioni (colori vivissimi, sfumati e grandissimo dinamismo nel suo Giocatore di pallone; vi sono anche alcune sculture di questo autore, che non sapevo si fosse dedicato anche a tale forma di arte figurativa), Modigliani (Nudo disteso, molto suggestivo e “sereno” soprattutto il volto della donna raffigurata, e di cui ammiro anche una classica scultura di viso femminile, su pietra), Rousseau (La zingara addormentata, una delle opere più belle che abbia mai visto, per essenzialità di forme e per i colori, decisi e molto armonici), Braque (in un paio di casi messo di fianco, quasi a confronto, con Picasso: Uomo con chitarra di Braque e Ma jolie di Picasso, in particolare, hanno stupefacenti affinità). E poi ancora, Klimt, Kokoschka, e il fantasiosissimo e “volante” Chagall, Duchamp, Picabia, Kandinsky, Man Ray, le geometrie di Mondrian, le “follie” surrealiste di Dalí, Magritte; un affresco di Diego Rivera (Contadini con Zapata) e gli Zapatisti di Orozco; La giungla, del cubano Wifredo Lam; Marilyn Monroe su sfondo dorato di Andy Warhol.
Un unico appunto al MoMA: ciascuna opera ha un suo titolo “originale” che qui non viene rispettato, poiché le titolazioni che appaiono nelle etichette poste a fianco delle opere sono in inglese. All’Ermitage di Leningrado, per esempio, è sempre esposto il titolo originale (in francese, in italiano ecc.), seguito da una traduzione in caratteri cirillici. E anche nei musei italiani viene rispettato il titolo originale dell’opera. Il problema “filologico”, secondo me, non è di importanza secondaria, anche se ovviamente l’elemento più significativo, davanti a tante bellezze, è l’emozione che trasmettono a chi le ammira e ne riconosce le pure forme, le essenziali o elaborate figure, i giochi di colore, i particolari sorprendenti, i simbolismi nascosti.
Comunque, qui come al Metropolitan, non sono a New York, sono in un altro mondo, un mondo a sé stante, dove la creatività dell’uomo - dovrei dire... prevalentemente dell’uomo europeo... - ha dato i suoi risultati migliori. Beh, mi piace essere europea...
Sono un po’ stordita da tante bellezze.
Visito anche la mostra dedicata a Egon Schiele, un pittore austriaco espressionista del quale conoscevo in piccola parte l’opera. Qui c’è tutta la collezione di Herr Leopold di Vienna, una vera chicca. I suoi dipinti (oli, carboncini, acquarelli, chine) sono ricchissimi di simbolismi e rivelano un erotismo raffinatissimo e coinvolgente.
Esco nel giardino a prendere una boccata d’aria, in mezzo alle sculture di Henri Moore e di Rodin. Poi faccio una rapida puntata alla mostra di design. Sono le 5 del pomeriggio.
Sono anche piuttosto vicina all’Empire State Building; allora mi ci dirigo e salgo al novantaseiesimo piano, all’“Osservatorio” (con tre “rampe” diverse di ascensori, velocissimi (danno perfino un po’ di nausea, simile a quella che si prova nei decolli aerei), da dove si vede tutta la città - e anche oltre - come da un elicottero.

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S O M M A R I O
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.http://www.oocities.org/Athens/Parthenon/1635
La pagina personale di Angela, aggiornata il 15 novembre 1998
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