Oggi e domani Forza Italia è impegnata in una serie di incontri con le forze politiche della Casa delle Libertà, con il governo e con il comitato promotore del referendum. Forza Italia ha dimostrato così ancora una volta di essere pienamente in grado di non lasciare l'iniziativa politica nelle mani di altri partiti e di saper assumere una propria autonoma iniziativa nei confronti del governo e delle altre forze politiche in quanto partito di maggioranza relativa.
I cittadini non si appassionano certamente ad una discussione fumosa e incomprensibile sui diversi tipi di leggi elettorali, ma occorre evitare che la maggioranza di governo cerchi di approvare in Parlamento una nuova legge cucita a misura dei propri interessi. La sinistra sa infatti che se si dovesse andare al voto ora o fra qualche anno con questo sistema di voto, essa perderebbe immancabilmente le elezioni. La tentazione di cambiare le regole del gioco per risolvere i problemi della maggioranza è dunque molto forte, e potrebbe spingere il governo ad un colpo di mano sulla legge elettorale, magari con l'accordo di una parte dell'opposizione.
Forza Italia si presenterà quindi agli incontri di oggi e di domani con una ampia disponibilità a partecipare ad una correzione e ad un miglioramento dell'attuale legge, anche sulla base di una serie di proposte formulate dal professor D'Alimonte. Proposte che hanno il merito di correggere alcuni difetti, mantenendo però l'impianto del sistema proporzionale, del premio di maggioranza e la logica del bipolarismo fra le due coalizioni.
Sono cinque le modifiche sulle quali si può forse raggiungere un consenso bipartisan:
Le prime due modifiche servono ad attenuare drasticamente il rischio di un parlamento diviso, cioè con maggioranze diverse nelle due Camere. La terza elimina un elemento di incostituzionalità. La quarta impedisce ai partiti di decidere dopo le elezioni chi va in Parlamento e chi no. La quinta leva un incentivo alla frammentazione.
Fatte queste modifiche potremmo avere già un sistema considerevolmente migliore dell'attuale e soprattutto un sistema elettorale degno di questo nome che assicurerebbe al Paese maggiore governabilità.
Per esorcizzare gli effetti delle divisioni sul Partito democratico, sulla riforma elettorale, sulla riforma previdenziale e altro, la sinistra ha scelto la linea della fuga in avanti, aiutata dallo spazio che i soliti "grandi quotidiani" e la tv danno al delitto di Erba, alla fatiscenza degli ospedali, dal cardinale-spia (che serve anche a contrastare la Chiesa sui Pacs) all'intervento Usa in Somalia.
In particolare, Vannino Chiti ha promesso una legge elettorale "entro l'anno" per allentare lo scontro in seno alla sinistra tra i piccoli partiti, da un parte, e Ds e Margherita dall'altra.
Tuttavia sembra una promessa difficile da mantenere poiché l'autunno 2007 sarà dedicato alla Finanziaria, per cui solo giugno e luglio potrebbero essere dedicati alla riforma, cioè dopo le elezioni amministrative parziali di maggio dalle quali ogni partito ricaverà motivi per difendere le proprie scelte.
Con questa operazione, inoltre, Chiti vorrebbe rendere un servizio a Prodi, bloccando sul nascere qualsiasi dialogo tra maggioranza e opposizione che metterebbe in difficoltà la tattica di arroccamento del presidente del Consiglio.
Parallelamente, Piero Fassino, mentre esalta appassionatamente il Partito Democratico, si limita ad affermare che i congressi di primavera dei Ds e della Margherita ribadiranno "l'impegno" per il PD, cui seguirà una fase costituente in modo da renderlo pronto per la prova delle elezioni europee del 2009.
Anche in questo caso, un tentativo di guadagnare tempo per smorzare le critiche al progetto.
Inoltre Fassino ha dovuto inserire D'Alema, Veltroni e Rutelli nella rosa dei candidati-premier per il 2011 con tanto di primarie.
Si tratta di un tentativo di tranquillizzare Prodi, ma anche di salvare se stesso come segretario dei Ds, quindi come capo della macchina del partito che potrebbe poi scegliere proprio lui come candidato-premier.
Difficile ammettere che D'Alema, Veltroni e Rutelli si mettano da parte, anzi, cercano alleanze solide. D'Alema cerca quella con l'estrema sinistra sul tema della politica estera, non perdendo occasione per criticare gli Stati Uniti, e parallelamente si rafforza, d'intesa con Bersani, sul fronte bancario e assicurativo. Rutelli cerca l'esatto contrario, ma è ormai sfidato all'interno da Franceschini (in missione negli Stati Uniti), e pochi consensi gli porta l'agenda riformistica nel mondo imprenditoriale. Veltroni cerca di mantenere un buon rapporto con il mondo cattolico, ma deve fronteggiare Fassino che si sposta sul fronte laico. Prodi, a sua volta, ribadisce l'alleanza con i sindacati e con l'ala sinistra dell'Unione rinunziando a una riforma vera delle pensioni.
A ciò si aggiungano le politiche personali di singoli ministri, miranti a dare visibilità: Antonio Di Pietro sulle infrastrutture (caso Autostrade-Abertis), Livia Turco sulla sanità (caso ospedali fatiscenti), Pierluigi Bersani sulle privatizzazioni (caso dell'abolizione dei costi di ricarica dei telefonini) e sui fondi al Mezzogiorno, Paolo Gentiloni sulla Rai, Barbara Pollastrini sui Pacs (mentre Rosy Bindi si oppone), Luigi Nicolais sulla Funzione pubblica e la mobilità dei dipendenti pubblici.
Se alcune posizioni sono dirompenti per la sinistra, non bisogna sottovalutare il fatto che, attraverso la distribuzione di denaro, anche senza un'idea ispiratrice centrale, il consenso si aggrega, specie se si vanno a toccare aspetti cui l'opinione pubblica è sensibile.
Per questo motivo il centrodestra non può limitarsi a sottolineare le divisioni e le incongruenze della sinistra o a rivendicare la bontà e la correttezza della propria opera di governo: la politica si fonda sulla facoltà della massa di dimenticare.
Sono le proposte che contano: semplici ed efficaci.
"Quello di Caserta sarà un incontro neoborbonico in cui si finirà soltanto per fare ‘ammuina' ": così Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, ospite di Omnibus su La7 definisce il vertice di governo e maggioranza in programma da domani nella città campana. Bonaiuti fa un paragone con la Marina borbonica che, "sfilando nel porto ad una certa distanza dagli spettatori, dava l'impressione di una grande attività, ma in realtà non faceva nulla. Quella - dichiara - era la Marina di Franceschiello...". Insomma, per l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Caserta sarà "una sceneggiata da cui non ci aspettiamo nulla". I ministri Giulio Santagata e Paolo Ferrero hanno parlato di Caserta come di un ritiro in vista della partita del 2007 e Bonaiuti replica: "Auspico che si tratti del ritiro di Prodi e del suo governo dalla scena politica...".
"Nella sinistra estrema non c'è alcuna considerazione verso le aspettative dei giovani. Ieri parlavo con un gruppo di giovani di Forza Italia che vorrebbero andare a Caserta per protestare. Giovani che rischiano di arrivare all'età della pensione e di non trovare niente perchè questo governo non sta facendo nulla per loro".
"Ho letto con stupore misto a piacere il testo di Vannino Chiti che si dice sicuro di arrivare alla riforma della legge elettorale entro fine anno. State forse inconsapevolmente affrettando la fine di questa avventura?". "Non si è sempre saputo che quando si arriva alla legge elettorale è il momento in cui si mette in discussione la legittimità del Parlamento?". L'esponente di Forza Italia ripete che la sua parte politica "è aperta a tutte le trattative e a tutte le ipotesi, pur essendo contraria ad un sistema a doppio turno che favorisce le forze di centrosinistra e penalizza il centrodestra". Bonaiuti smentisce le ricostruzioni di Libero sui rapporti tra Berlusconi e Bossi per quanto riguarda il referendum: "Mai Berlusconi rivolgerebbe quelle frasi all'amico Umberto".
Quando si cominciò a parlare del "conclave" di Caserta come dell'occasione meravigliosa che avrebbe consentito al governo Prodi di mostrarsi finalmente in tutto il suo splendore, furono in molti fra gli esponenti dell'Unione a sperare nella concreta possibilità di una nuova fase che arginasse infine il disastroso calo di consensi registrato da tutti i sondaggi. Speravano innanzitutto i cosiddetti riformisti, schiacciati nel confronto con la sinistra radicale. Speravano i ministri cui la finanziaria ha tagliato fondi e provocato mugugni. Speravano i cattolici più volte mortificati e zittiti nel confronto con i comunisti, gli "antagonisti", i laicisti radicali. Speravano gli economisti che pretendono di coniugare sinistra e liberismo, socialità e mercato e che finora non se la sono sentita di parlare e agire con la brutale chiarezza di Nicola Rossi. Insomma, nell'immaginario politico del centrosinistra Caserta sarebbe dovuta diventare una sorte di Lourdes laica nella quale potessero realizzarsi i miracoli.
A poche ore dall'inizio del conclave - ma ormai anche questa pomposa denominazione che evoca il soprannaturale viene ridotta a un più prosaico "vertice" - le aspettative si afflosciano, le sperranze si spengono e un faticoso lavoro di rettifiche lessicali punta a cancellare il senso di vacuità che sortirà dall'evento. Lo stesso sforzo mediatico per gonfiare l'evento si ritorcerà contro gli ideatori del teatrino casertano.
È il meccanismo dei veti incrociati, quello che caratterizza l'immobilismo strutturale del governo e ne riflette le irrisolvibili contraddizioni interne, a rendere sterile l'incontro nella Reggia. Su alcuni temi cruciali della società italiane e della sua capacità produttiva non è possibile, nell'Unione, alcuna intesa, sicché non resta che il ricorso alla vecchia arma dorotea del rinvio e ai compromessi irrealizzabili giocati sugli equilibrismi verbali.
I vertici dell'Ue, autorevoli osservatori e organismi internazionali premono perché l'Italia blocchi in anticipo il prevedibile collasso dei bilanci previdenziali pubblici. Gli stessi vertici europei avevano plaudito alla riforma del centrodestra - lo "scalone" che può garantire risparmi sicuri e consistenti - ma oggi si rendono conto che è al potere una coalizione nel cui programma è prevista proprio l'eliminazione dello "scalone".
È per questo che chiedono misure che garantiscano gli stessi risparmi. Ebbene, nonostante i sedicenti riformisti insistano sulla necessità di innalzare l'età pensionabile, Prodi non può porre la questione nell'agenda di Caserta.
La sinistra radicale - domina e garante dell'esecutivo - non vuole alcun cambiamento in materia di pensioni. Prodi è stato costretto a dichiarare, mentendo, che questa riforma non è urgente. I "riformisti" ingoiano.
Mobilità efficienza, meritocrazia: per l'esercito dei pubblici dipendenti è questo che sognano gli economisti liberal-sinistri, insieme al rigore e alla possibilità, per la pubblica amministrazione, di punire e licenziare i fannulloni.
Ma di questa riforma a Caserta non si parlerà. Prima dovrà esserci un lungo, defatigante e inutile confronto col sindacato. Poi si vedrà.
Anche sul tema dei Pacs e delle unioni di fatto si registrano contrasti duri e polemiche sferzanti nell'Unione. I cattolici di sinistra si oppongono a registrazioni pubbliche che equiparino le cosiddette unioni civili alla famiglia tradizionale. Gli insulti rivolti al Papa dalla sinistra radicale non aiutano a rendere meno teso il clima. Un esponente della Margherita ha detto che di questa materia a Caserta non si dovrà nemmeno parlare.
I riformisti dell'Unione hanno compreso che per loro tira una brutta aria e D'Alema ha consigliato di incentrare il vertice sulle liberalizzazioni. Ma è sicuro il vice premier che su questo tema ci sarebbe l'intesa con la sinistra radicale? Comunisti, verdi e antagonisti accetteranno che si liberalizzino le reti energetiche e che si cominci a smantellare il "socialismo municipale" costruito in tante città e Regioni?
I riformisti saranno costretti a ingoiare molti rospi, oltre alla bufala di Caserta. Per questo cominciano a operare una revisione semantica che renda meno umiliante la loro sconfitta. " Fase due"? No, grazie, non se ne parli più. Perfino per Fassino quest'espressione è da considerare "una caricatura". Altri si preoccupano di attenuare il sapore amaro della subalternità affermando che in poco tempo non si può cambiare il Paese. Si richiamano al gradualismo dei pigri e cominciano a parlare di "riformismo realista". Che, nel caso specifico, significa riformismo impotente.
Lo spazio offerto dai quotidiani al vertice di Caserta, diventato ormai il "conclave" anche nei comunicati ufficiali, fa emergere le contraddizioni e la fatuità dell'appuntamento: è un incontro che ha ormai il sapore di una bufala.
Corriere della Sera, in prima pagina: "Prodi va a Caserta: riforme subito". E a pagg. 8-9: "Caserta, prime decisioni. Il governo: ridurre i costi della ricarica dei cellulari", "Legge elettorale, spinta di Chiti. <<Cambiamola entro l'anno>>".
Repubblica pagg. 14-15: "A Caserta niente pensioni ma un piano per la crescita". Occhiello: "Saranno sterilizzati anche temi ad alto rischio di lite come Pacs e eutanasia".
In un riquadro sono riportate le priorità dei singoli ministri:
Rutelli: Liberalizzazioni (energia, class action, ordini professionali, servizi pubblici locali)
Amato: Convenzione sulla legge elettorale
Padoa Schioppa: Riduzione della spesa pensionistica e sanitaria
Damiano: Riforma delle pensioni
Mastella: Accelerazione dei processi civili e penali
Mussi: Incremento delle risorse per la ricerca
Lanzillotta: Federalismo fiscale solidale
Pecoraro Scanio: Emergenza clima
Ferrero: Interventi sulla povertà
Melandri: Accesso agevolato dei giovani a casa, formazione e lavoro
Pollastrini: Unioni civili
Turco: Piano straordinario per le strutture sanitarie.
La Stampa pagg. 12-13: "Prodi: voglio un vertice di poche cose ma buone". "L'interminabile lista dei ministri. La mia sì che è una priorità: l'erba voglio cresce a Caserta".
Il riformista: "Convenzioni e Pacs restano fuori reggia".
Liberazione pag. 6: "Ds, i furori riformisti sono già un ricordo". Intervista a Oscar Marchisio: "A Caserta rischiano di sparire i problemi del Paese reale".
Il Manifesto pag. 3: "Tutti a Caserta. Prima riforma: basta con i riformisti".
Per l'università, il governo è sempre una priorità? Il quesito è stato lanciato pochi giorni fa da Il Riformista, ma la domanda sorge spontanea a poche ore dal conclave di Caserta, viste le ultime esternazioni del ministro di competenza, l'oppositore diessino Mussi.
Mussi infatti ha parlato a più riprese della necessità di stravolgere completamente la Legge Biagi, ha preso le distanze dalla posizione di Chiti sulla legge elettorale, ma di rilanciare il tema dell'università nell'agenda politica del 2007 non ne ha fatto minimamente menzione.
Siamo alle solite. Questo governo dimostra chiaramente di voler tutelare gli interessi precostituiti, a discapito delle nuove generazioni. E intende bloccare il processo di riforme strutturali lanciato dal governo Berlusconi, che dava ai giovani la speranza di un futuro migliore.
Eppure i nodi da sciogliere in tema di alta formazione sono tanti. A partire dal distacco tra il mondo della formazione e della ricerca e il mondo produttivo. La riforma Moratti ha iniziato a dare nuovi strumenti affinché la nostra alta formazione possa conciliare nel percorso universitario il "sapere" con il "saper fare". Tirocini obbligatori, stage e master sono le soluzioni che ogni studente ha a disposizione per avvicinarsi al mondo del lavoro in parallelo alla propria formazione.
Ma non basta. Non si è infatti risolta l'innata diffidenza delle strutture universitarie pubbliche ad aprirsi al mondo produttivo, come viceversa le nostre imprese e le nostre industrie non hanno ancora espresso la volontà di puntare i propri investimenti verso la formazione e la ricerca, soprattutto universitaria.
Per questo i giovani di Forza Italia rilanciano la loro proposta universitaria nel segno della concorrenza e della competenza.
Una concorrenza che si raggiunge con l'apertura al mondo dell'impresa e al mercato degli organi di autogoverno, con la stipula di convenzioni con soggetti economici per il finanziamento della ricerca e del diritto allo studio, con il potenziamento della funzione di intermediazione dell'Università tra domanda e offerta di lavoro, avvalendosi degli strumenti previsti nella legge Biagi, e soprattutto con la piena autonomia degli Atenei nel reperire risorse, nel fissare le tasse di iscrizione e la retribuzione dei docenti.
Una competenza che si rafforza con la revisione della disciplina per i concorsi a docenza in una logica di maggiore trasparenza; con il blocco delle autorizzazioni di nuove Università e selezione di nuovi corsi non spendibili nel mercato del lavoro; con l'estensione ai docenti di ruolo della normativa del contratto individuale, con scadenza poliennale e rinnovabile, ora prevista per gli alti dirigenti della Pubblica Amministrazione; con il ripristino dell'istituto della libera docenza conferita a personalità della società civile, delle professioni e dell'economia.
Come avevamo facilmente previsto, Gentiloni ha riconquistato i titoli sui giornali con il suo progetto di legge di riforma sul sistema radio televisivo. Due giorni fa avevamo notato che la sinistra al governo aveva tranquillizzato gli italiani durante le feste con il buonismo prodiano: adesso la lotta politica prevede di rimettere sulla scena una forte pressione su Mediaset e un ultimatum, più diretto e scoperto, nei confronti di un Cda Rai considerato ostile ed inaffidabile. Tutto ciò avviene seguendo una tabella temporale e usando una sorta di ricatto a cui i grandi giornali tengono bordone per obiettivi interessi sia politici che editoriali.
Questa è la ricetta del Gentiloni-2 che prevede di blindare viale Mazzini nelle mani del parlamento anziché aprire ad una vera forma di privatizzazione, che pure era stata ventilata. Pessimo è l'impianto che la nuova legge prevede sulla pubblicità e il criterio di "spezzettare" la Rai in tre società (facenti capo ad una Fondazione anziché al Ministero del tesoro) la gestione della rete, quegli degli impianti di trasmissione come di quelli di produzione. Uno spezzatino indigesto che prevede che sia una di queste tre società a gestire il canale finanziato dalla sola pubblicità…
Senza scendere nei dettagli di un progetto che gli stessi critici di maggioranza definiscono "barocco e a tratti contraddittorio", vanno evidenziati due punti politici. Che si aggiungono e integrano l'obiettivo assai poco recondito di mandare a casa l'attuale Consiglio di Amministrazione di viale Mazzini.
Gentiloni è il più fidato dei ministri di Rutelli. Il leader della Margherita, che perde petali e consensi da quando Prodi è a Palazzo Chigi, gioca la sua partita al conclave di Caserta ma è reduce da un Natale di silenzi e di qualche difficoltà. La sortita del piano Gentiloni serve per far capire ad interlocutori più fuori che dentro il Palazzo della politica con quale parte della maggioranza si devono fare i conti quando si è interessati al mondo delle telecomunicazioni e a quello radiotelevisivo in particolare. Sia per entrarvi, magari da protagonisti, sia per restarvi in posizione salda e inattaccabile.
La seconda considerazione è che la maggioranza nel suo insieme, soprattutto quando è in affanno di progetto e di coesione politica, tiene nel mirino gli interessi del pianeta Mediaset fingendo di occuparsi di libertà di stampa, libertà di pensiero, libertà di comunicazione. E per questo finge di parlare solo della tv pubblica!
Gentiloni, d'altronde, appena insediato, varò quella legge di sistema che più che, rinviare il digitale al 2012, serviva a vessare Mediaset stabilendo un tetto pubblicitario che danneggiava la sola televisione privata concorrente della Rai, mentre escludeva da quel tetto il canone di viale Mazzini e lasciava libera Sky come unica monopolista per la tv a pagamento in Italia.
Vogliamo meravigliarci di Gentiloni-2 "la vendetta"? No, anche perché saranno soprattutto gli interessati a dimostrare che il Ministro si muove a comando e che ciò che va bene a Rutelli non necessariamente va bene a Fassino o a D'Alema ma neppure a Bertinotti o allo stesso Prodi.
Con supremo sprezzo del ridicolo, sabato scorso Romano Prodi invitava i pensionati a dire grazie alla Finanziaria, annunciando che riceveranno più soldi grazie a un migliore trattamento fiscale.
Con supremo sprezzo del ridicolo, oggi L'Unità titola a tutta pagina (prima pagina) che "qualcosa cambia: meno tasse ai pensionati".
Consigliamo ai nove milioni e mezzo di anziani di aspettare di incassare il nuovo assegno di gennaio, prima di affrettarsi alla cassa dell'enoteca dietro l'angolo di casa per acquistare la bottiglia di spumante che servirà a festeggiare il lieto evento. Rischierebbero di dilapidare in un solo botto tutto il loro gruzzolo di un anno.
I dati forniti ieri dall'Inps informano infatti che quelle pensioni saranno mediamente più ricche di 84 euro l'anno, cioè a dire la bellezza di 6,46 euro al mese. Si possono sempre consolare con il fatto che altri cinque milioni di loro "colleghi" resteranno al palo e oltre 500mila verranno alleggeriti (categoria: "pensionati ricchi che piangono").
Chi è baciato dalla fortuna? Ecco qua: pensioni minime da 427 a 436 euro (+ 8 euro), assegni sociali da 381 a 389 (+7 euro), invalidi civili da 238 a 242 (+4 euro). Come si vede, ci vuole tutto il coraggio del premier e tutta la faccia tosta dell'Unità per annunciare in pompa magna simili "mance". Roba da asta di beneficenza. Se Romano Prodi dice e pensa che da queste buste paga di gennaio "si capirà che per molti italiani la finanziaria significa meno tasse", vuol proprio dire che è alla frutta.
Come dimostra l'annuncio di Bersani a Ballarò sull'abolizione (o la riduzione) dei costi di ricarica dei cellulari. Il ministro vende come merce del governo un prodotto che è già scaduto, perché sotto tiro di Bruxelles e dell'Authority di Calabrò. Ma tant'è, ai trombettieri di regime il fiato non manca. Così Il Corriere della Sera, anch'esso con supremo sprezzo del ridicolo, vende ai suoi lettori questo provvedimento come una delle "prime decisioni di Caserta". Patetico.
Il ministro Bersani ha lanciato ieri a Ballarò una campagna demagogica che può colpire nel segno.
"È inaccettabile - ha spiegato Bersani - che un ragazzo paghi 10 euro di ricarica telefonica e riceva solo 8 euro di traffico, perché 2 sono il costo della ricarica. Interverremo presto per abolire questa tassa che le compagnie telefoniche impongono".
Che si tratti di una campagna mediatica ben orchestrata è dimostrato dal fatto che il Tg1 di stamani, in tutte le edizioni, ha riferito le parole di Bersani con molta enfasi e in buona collocazione.
Effettivamente il costo della ricarica telefonica è avvertito dal consumatore come una gabella e, tenuto conto del fatto che milioni di persone si avvalgono di schede telefoniche ricaricabili, la proposta Bersani può apparire molto popolare.
È però una proposta chiaramente demagogica, e occorre fronteggiarla immediatamente per neutralizzarla.
La verità infatti è che, anche se il governo imporrà la fine del costo di ricarica, gli effetti sulle tasche del consumatore saranno nulli. Per due ragioni.
La prima è che due dei quattro gestori di telefonia mobile - Wind e Tim - già oggi offrono tariffe per ricaricabili senza costo di ricarica.
La seconda è che i gestori potranno neutralizzare l'effetto della decisione governativa con uno stratagemma elementare: aumentare del 20% il costo per unità di tempo delle loro offerte ricaricabili, così che 10 minuti di traffico varranno gli 8 minuti di oggi. Un'operazione di questo tipo non incontra resistenze di carattere normativo e inoltre può essere mascherata attraverso l'introduzione di piani tariffari che ottengono il risultato desiderato senza rendere evidente l'aumento. È sufficiente giocare sul mix di composizione della tariffa e spingere i vecchi utenti ad aderire ai nuovi piani tariffari attraverso promozioni e sconti limitati nel tempo.
Se però nessuno contrasterà rapidamente la proposta di Bersani, è molto probabile che l'effetto mediatico sia favorevole al governo e molti si illudano di aver ricevuto un vantaggio economico effettivo.
È dunque un errore liquidare questa proposta come una "liberalizzazione minore". Occorre, invece, svelare subito l'inganno e con insistenza, prima che sortisca i suoi effetti. Magari ricordando che la vantata liberalizzazione dei taxi non solo non ha portato alla riduzione delle tariffe nemmeno di un centesimo, ma ha legittimato le pretese di aumenti.
Ora è ufficiale: il governo Berlusconi ha lasciato i conti in regola. Anzi. Anche meglio del previsto. A dirlo, questa volta, è l'Istat. Nei primi nove mesi del 2006, il deficit - rileva l'Istituto centrale di statistica - è stato pari al 2,5% del pil. Vale a dire che quando Prodi e Padoa Schioppa hanno presentato la legge finanziaria per quest'anno (il 29 settembre), i conti pubblici erano già ampiamente sotto il tetto del 3%, previsto da Maastricht. Eppure, hanno sempre detto che questa finanziaria da oltre 40 miliardi serviva per mettere la finanza pubblica in linea con l'Europa. Ma la finanza pubblica era già in linea.
Per nascondere il risultato, Prodi e Padoa Schioppa hanno scelto di caricare sull'esercizio passato il costo della sentenza Ue sulla indeducibilità dell'Iva sulle auto di servizio. Hanno deciso cioè di scaricare sul deficit dell'anno passato 17 miliardi di euro. In questo modo il deficit ufficiale non è più 2,5%; ma 4,1%. Eppure, quel costo della sentenza Ue il governo lo avrebbe potuto benissimo spalmare su più anni (fino a dieci, prevedono i regolamenti europei). Se lo avessero fatto, però, il deficit del 2006 sarebbe salito al 2,6-2,7%. Quindi sempre sotto il parametro del 3%, pertanto non funzionale a giustificare una manovra per quest'anno da 40 e passa miliardi.
E non è finita. Il dato fornito dall'Istat non tiene conto dell'andamento dell'autotassazione, che - secondo le previsioni del ministero dell'Economia sarebbe andata particolarmente bene. Così - ancora una volta - il governo pur di tenere alto il deficit si è inventato di scaricare, sempre sul 2006, tutti i bond emessi da Infrastrutture Spa per gli investimenti delle Fs. Si tratta di un altro 0,9% del Pil destinato ad appesantire surrettiziamente un deficit fin troppo buono, qual è stato quello lasciato da Berlusconi e Tremonti. Oggi, però, l'Istat ha svelato l'inganno.
L'andamento favorevole dell'economia, che emerge dai dati su fabbisogno 2006, è una di quelle notizie delle quali il paese tutto dovrebbe rallegrarsi.
Se in Italia prevalesse la cura del bene comune rispetto alla polemica di parte, il Governo si limiterebbe a registrare con soddisfazione questo dato, positivo per la nazione e quindi per ciascuno di noi, senza tentare goffamente di attribuirsene il merito. Anzi, dovrebbe piuttosto riconoscere di aver sbagliato clamorosamente stime e previsioni, di aver diffuso allarmi ingiustificati, di avere impostato una manovra di bilancio e chiesto sacrifici ai cittadini sulla base di valutazioni rivelatesi del tutto inattendibili, frutto di incompetenza o forse di una deliberata volontà calunniosa nei confronti del Governo precedente
Gli appelli del Presidente Napolitano alla ripresa del dialogo fra gli schieramenti, ai quali Forza Italia si è detta da subito disponibile, presuppongono da parte di tutti un atteggiamento rispettoso della verità storica e degli interlocutori politici.
L'eredità lasciata dal governo di centrodestra è quella di un paese sano e in ripresa, un paese che sotto la guida di Berlusconi ha attraversato senza traumi uno dei cicli economici più difficili della storia moderna, e si è trovato nelle condizioni di intercettare la ripresa, quando l'economia internazionale si è rimessa in moto.
Questo è il bilancio di cinque anni di governo della Casa delle Libertà, che nessuno in buona fede può contestare.
In sé e per sé, la ripresa dell'economia non è solo merito dei governi, ma anche degli italiani, del lavoro, della tenacia, dello spirito di sacrificio di milioni di cittadini, di lavoratori e imprenditori, di artigiani, commercianti, lavoratori autonomi. Complessivamente, di quel "sistema-paese" che ogni governo ha il dovere di aiutare a funzionare, fornendo gli strumenti, le infrastrutture, le regole.
Noi, da liberali, non abbiamo mai preteso di "governare" l'economia. Non ci appartiene l'illusione dirigista, cara alla sinistra, secondo la quale l'intervento del governo determina crescita ed equità. E quindi non ci attribuiamo meriti, se non quello di aver fatto il nostro dovere: limitare le spese, contenere la pressione fiscale, varare le riforme di struttura, come quelle su lavoro e previdenza.
Questa politica, molto difficile da realizzare in anni negativi per l'economia e per la stabilità politica del mondo, ha permesso quei risultati positivi che oggi possiamo verificare. E di fronte a un dato positivo per il paese per noi lo soddisfazione è grande, anche se a governare è un governo di sinistra.
Certo, è ridicolo sostenere, come si tenta di fare, che il governo Prodi abbia qualche merito in tutto questo. Non occorre essere professori di economia per sapere che gli effetti di una politica economica non si avvertono nel corso di giorni o settimane, e che gli effetti di una legge finanziaria riguardano l'anno successivo a quello della sua approvazione. L'anno 2006, in altre parole, è stato quello in cui ha trovato applicazione la finanziaria predisposta dal Ministro Tremonti e approvata dalla maggioranza di centro-destra nel dicembre 2005. La finanziaria approvata in questi giorni, invece, è entrata in vigore il 1°gennaio di quest'anno, e farà sentire i suoi effetti (drammatici) nel corso del 2007.
Di fronte a questo fanno sorridere, o preoccupano, le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, secondo il quale "stanno aumentando le entrate, grazie soprattutto alle misure varate con la finanziaria (Repubblica, 4 gennaio, pag. 3)", e quindi entrate in vigore pochi giorni fa. Nella stessa intervista Prodi parla di downgrading del nostro paese da parte delle agenzie di rating, attribuendone la responsabilità al nostro precedente, dimenticandosi che il declassamento dell'Italia da parte delle principali agenzie è avvenuto nei mesi scorsi, di fronte alla loro manovra economica e alla loro legge finanziaria (e forse anche grazie ai dati sbagliati e peggiorativi sullo stato dei nostri conti pubblici diffusi dallo stesso governo).
Queste affermazioni sono gravi, perché non è certo insultando chi ha governato, e governato bene, questo paese che si creeranno le condizioni per un dialogo più sereno fra maggioranza e opposizione. Un governo debole, debolissimo, fortemente minoritario nel paese, sempre più lacerato nel suo interno, reagisce con l'arroganza dei perdenti invece di mostrare un profilo istituzionale dignitoso, sobrio, fattivo.
Le notizie sul calo del fabbisogno stanno già cominciando a creare un nuovo fronte di polemiche e divisioni all'interno della maggioranza, a conferma ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, del carattere disomogeneo e contraddittorio del loro schieramento. La sinistra radicale parla già di risorse aggiuntive da ridistribuire, e quindi in sostanza di un allargamento della spesa: una spinta che si aggiunge ai contrasti drammatici già in atto su una materia come quella delle pensioni, e in generale su ogni tentativo di compiere scelte politiche sia pure blandamente riformiste.
La delusione di Nicola Rossi, che è uscito dai DS dopo essersi reso conto dell'impossibilità di una politica liberale e riformatrice da parte di questa sinistra in Italia è nello stesso tempo legittima e tardiva, comprensibile nel merito, ma sorprendente da parte di un uomo di grande spessore intellettuale, che ha vissuto da protagonista la storia del maggiore partito della sinistra, e che solo oggi si accorge di quello che diciamo da anni.
Il nostro paese avrebbe bisogno di una sinistra moderna, riformatrice, europea, come quella di Tony Blair, di Segolene Royal, della SPD tedesca: per noi questi sarebbero gli avversari con i quali confrontarsi serenamente e senza drammi. Confronto indispensabile per il funzionamento del sistema democratico e per il compimento di un bipolarismo maturo, di tipo europeo.
Nel centro sinistra italiano vi sono persone consapevoli di quest'esigenza. Ma sono ridotte al silenzio dalla necessità di non turbare gli equilibri di una coalizione fin troppo precaria. Una coalizione di governo, forse l'unica nel mondo democratico, che va a rimorchio di comunisti dichiarati, da ambientalisti irresponsabili, da giustizialisti illiberali.
Eppure Forza Italia non vuole lasciar cadere gli appelli al dialogo del Capo dello Stato. E per questo chiede a quegli interlocutori seri, responsabili, di uscire allo scoperto senza farsi intimidire dalla logica della sopravvivenza di uno schieramento disastrato. Bisogna, perché si possa dialogare seriamente, che vi siano interlocutori della sinistra disposti a dire la verità, sul passato e sul presente. Occorre che facciano sentire la loro voce con chiarezza. Solo partendo dalla verità il dialogo è possibile: il dialogo deve servire al paese, non ai tatticismi della politica. E deve essere incentrato sulle cose concrete. Questo richiede, da parte della sinistra, un profondo cambio di atteggiamento. Verificheremo se ve ne sono le condizioni.
Il nostro senso di responsabilità è grande, ma è orientato all'interesse del paese, il quale ha bisogno di andare avanti su un percorso riformatore, non certo di tornare indietro. È la condizione che poniamo anche di fronte alle ipotesi di riforma della legge elettorale.
Il Presidente del Consiglio ha tenuto la consueta conferenza stampa di fine anno, tracciando un primo bilancio del suo governo. Era tentato di farlo anche Berlusconi, ricordando cosa aveva realizzato il centrodestra, e cos'hanno fatto loro, materia per materia. Il confronto sarebbe stato impietoso. Ma soprattutto sarebbe emerso un fatto: fin qui il principale impegno del governo è quello di smantellare l'impianto riformista posto in essere in cinque anni. È del tutto evidente che fino a quando l'atteggiamento sarà questo il governo non potrà aspettarsi sconti.
Vanno soltanto ricordate, a titolo di esempio, tre materie, quelle riguardanti le tappe fondamentali della vita di ogni persona: la scuola, il lavoro e le pensione.
Tre materie sulle quali il governo Berlusconi era intervenuto con una logica innovativa, varando riforme di ampio respiro che stanno dispiegando risultati molto positivi. E che l'attuale governo sta tentando in ogni modo di bloccare. Forse non ci riuscirà, o ci riuscirà solo in parte, per l'effetto paralizzante delle sue contraddizioni interne.
Ma il danno al paese sarà comunque grave.
È stata varata una riforma che dava ai ragazzi una formazione di tipo europeo, flessibile, coordinata con il mondo del lavoro: la alfabetizzazione informatica fin dal primo anno delle elementari, lo studio di due lingue straniere, la personalizzazione e la flessibilità dei piani di studio, il diritto-dovere all'istruzione fino ai 18 anni, l'alternanza scuola-lavoro, l'anticipo scolastico. Non sono progetti, sono dati di fatto dei quali milioni di bambini e di ragazzi già oggi beneficiano. La volontà di sopprimere o di svuotare la riforma Moratti, attraverso deleghe conferite al Ministro, e quindi senza neppure un passaggio in parlamento, pone una grave ipoteca sul futuro dei nostri figli. Si ritorna alla rigidità dei modelli organizzativi, al vecchio obbligo scolastico, si superano gli anticipi nella scuola per l'infanzia, si riduce pericolosamente il numero delle classi. E soprattutto il Ministro in virtù della delega potrà attuare in solitudine, senza un vero confronto parlamentare, la vera controriforma, la riforma degli ordinamenti.
I risultati della legge Biagi sono ben noti a tutti. Il numero totale degli occupati ha superato il record storico dei 23 milioni. La crescita degli occupati riguarda proprio le fasce deboli del mercato del lavoro e il Mezzogiorno. Le donne occupate stanno crescendo di una percentuale più che doppia rispetto agli uomini, gli "anziani" rappresentano quasi la metà degli incrementi occupazionali, la disoccupazione giovanile è crollata, la disoccupazione meridionale è al minimo storico del 10,7%. Gli atti e le intenzioni del Governo Prodi si pongono ora in radicale contrasto con queste riforme nonostante i risultati registrati. Il nuovo Governo ha infatti appesantito il costo del lavoro attraverso l'aumento dei contributi dei lavoratori dipendenti, dei lavoratori autonomi, degli apprendisti e dei collaboratori a progetto. Il Parlamento ha avviato l'esame di un DDL della maggioranza per la riforma del processo del lavoro che incoraggia le liti e penalizza fortemente le imprese. Il ministro del Lavoro ha annunciato di voler restringere notevolmente le possibilità di impiego dei contratti a termine, ha promesso l'irrigidimento dei contratti a tempo parziale e delle forme di out-sourcing che consentono flessibilità organizzativa alle imprese. Si tratta di una vera e propria linea di controriforma che nega il processo di liberalizzazione proprio là dove tutte le istituzioni internazionali lo ritengono più necessario, ovvero nel mercato del lavoro.
Voluta (sono occorsi più di 2 anni di lavoro parlamentare) dal Governo della Casa delle Libertà per quanto riguarda le previdenza obbligatoria corregge la legge Dini nel suo principale limite: quella di un'età pensionabile per l'anzianità (conseguibile a regime a 57 anni con 35 di versamenti, oppure a qualunque età con 40 anni di contributi) troppa bassa, che ha consentito, nell'arco dell'ultimo decennio, il pensionamento anticipato di 2,5 milioni di cinquantenni (lavoratori dipendenti ed autonomi).
Lo "scalone" (il passaggio da 57 a 60 anni in un solo colpo) realizzerebbe una importante riduzione di spesa, dai 400 mln. di euro nel 2008 ai 9.000 mnl di euro nel 2012 e nel 2013,
Dello "scalone" si dice ora che esso sarebbe un'inaccettabile forzatura. Certo non fa piacere che si sia reso necessario un salto così importante. È bene però aver presente che la scelta è stata in larga misura necessitata. La riforma Dini del 1995 andava pienamente a regime alla fine del 2007. Pertanto, se il Governo Berlusconi avesse deciso di anticipare la correzione dell'età pensionabile sarebbe incorso nelle critiche giustificate di quanti avevano fatto dei programmi di vita fidandosi delle regole indicate da almeno un decennio. Se invece fosse stato assunto l'orientamento di innalzare l'età in modo più graduale dal 2007 in poi non si sarebbero mai conseguiti i risparmi promessi in sede Ue.
Il Governo Prodi non potrà mai salvare la capra del "superamento dello scalone" insieme ai cavoli della salvaguardia dei medesimi risparmi garantiti dalla legge n. 243/2004.
Per compensare il venir meno dei risparmi derivanti dall'abolizione dello "scalone" non sarebbe sufficiente neppure un sistema di incentivi e disincentivi operante a ridosso di un limite ridotto (pari o appena superiore ai classici 57 anni) dell'età pensionabile di anzianità. Peraltro i sindacati sono contrari a qualunque ipotesi di disincentivo.
In verità Prodi (che ha già ceduto di fronte alle richieste dei sindacati e della sinistra radicale, tanto che non parla neppure di disincentivi) la sua controriforma l'ha già fatta, con la medesima logica con cui ha fatto la finanziaria. Ha coperto i possibili minori risparmi derivanti dall'abolizione dello "scalone" con maggiori entrate contributive (5,5 miliardi nel solo 2007) a carico di tutte le categorie del mondo del lavoro: dipendenti, autonomi, atipici e apprendisti.
Non va dimenticata infine la "nazionalizzazione" del TFR, destinata a costituire un elemento di turbativa delle decisioni del lavoratori sul conferimento della loro liquidazione (fondi pensione).
Si potrebbe continuare, per ogni settore. Si potrebbe parlare del blocco di grandi infrastrutture fondamentali per il paese; di una controriforma della giustizia dettata dalla lobby dei magistrati di sinistra; dell'assenza di una politica coerente e responsabile in materia di energia, come quella che noi avevamo varato, garantendo e diversificando le fonti di approvvigionamento; e ancora dei segnali pericolosissimi di lassismo lanciati in materia di immigrazione, o del tentativo di mettere in discussione il concetto stesso di famiglia naturale.
E naturalmente dell'aumento generalizzato punitivo, ampiamente annunciato, della pressione fiscale.
Questo non soltanto è un gesto inutile, come dimostrano i dati apparsi in questi giorni (è noto che una manovra da 15 mld sarebbe stata sufficiente), è soprattutto una scelta grave dal punto di vista dell'economia, che rischia di soffocare la ripresa in corso. È anche un atto emblematico dell'approccio di questa sinistra: mettere le mani nelle tasche dei cittadini, per avere risorse da distribuire a proprio arbitrio. Così da acquistare il consenso di qualcuno, e creare - senza violare le leggi - clientele politiche.
Nella migliore delle ipotesi, si tratta di una mentalità, di una cultura secondo la quale lo Stato, e non i singoli, possono utilizzare al meglio le risorse disponibili. Questo approccio è il contrario del nostro. È quello di uno statalismo vecchio, superatissimo anche dalle sinistre moderne, riformiste, europee. Un approccio che dimostra quando forte sia il condizionamento, non solo numerico, ma anche politico e culturale, della sinistra radicale, di quella sinistra che non si vergogna a definirsi ancora comunista.
Con questa cultura politica, con questa mentalità, opposta alla nostra, il dialogo non è solo difficile, è inutile. Se c'è un'altra sinistra, moderna ed europea, è ora che si faccia sentire.