La lettera "agli italiani" firmata il 2 febbraio da sei ambasciatori accreditati presso lo Stato italiano (di Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia, Paesi Bassi e Romania), contenente l'invito a "restare in Afghanistan", è stata avallata ieri dal dipartimento di Stato, ottenendo una seconda legittimazione che, scavalcando le autorità di riferimento - Governo o più propriamente ministero degli Esteri - rappresenta un voto di sfiducia sulla politica estera del governo Prodi.
Un cambiamento di indirizzo nella politica estera italiana, con l'avvento al potere della sinistra, c'è stato, e Prodi ha ragione a sostenerlo, ma si è tratto di un cambiamento che ha incontrato la sfiducia dei principali alleati anglosassoni, integrati da due alleati europei (Romania e Paesi Bassi) che hanno tradizionali rapporti di amicizia anche con Israele.
Berlusconi aveva detto, riferendosi a questi alleati, che "non si fidano" del governo Prodi: i fatti gli hanno dato ragione, e adesso il problema è politico all'interno della maggioranza di centrosinistra, mentre sul piano internazionale si è trattato di uno "schiaffo" all'Italia: altro che recupero di prestigio e credibilità.
D'Alema ha parlato di comportamento "irrituale", Rutelli ha tentato di giocare la questione per mettere in difficoltà l'ala sinistra dell'Unione (ma senza riuscirci), Napolitano ha preso le distanze, affermando che il Quirinale non ha competenza in politica estera, benché questa sia spesso presente nei suoi discorsi, con speciale riguardo all'Europa.
Se l'iniziativa dei sei ambasciatori si può ammettere come irrituale, ben più irrituale e grave è il comportamento di alcuni ministri - appoggiati dai rispettivi partiti - che pur facendo parte della stessa alleanza di governo ne rifiutano la politica estera e arrivano a votare, come è successo, contro la linea ufficiale dello stesso governo che viene approvata con i voti dell'opposizione.
Prodi avrebbe definito "stravagante" la lettera, come a dire che i sei ambasciatori sono un po' labili psichicamente, come se agissero indipendentemente dalle direttive dei loro governi, e quindi come se questi fossero stravaganti.
Stravagante è piuttosto far passare come continuità in politica estera quella che è sostanziale e intenzionale e dichiarata discontinuità.
Gli Usa hanno ristabilito buone relazioni con la Germania e si apprestano a rinsaldarle con la Francia se vincerà Sarkozy: in tal modo il governo Prodi sarebbe riuscito nello straordinario compito di isolare l'Italia sul piano internazionale mentre Berlusconi l'aveva collocata in una posizione chiave, guadagnandosi il rispetto non solo degli alleati che ne condividevano la linea ma anche di quelli che non l'apprezzavano.
Un isolamento che cresce sul piano economico per la sordità che il Governo manifesta nei confronti dei richiami della Commissione di Bruxelles, del Fondo monetario internazionale e di altre istituzioni sui temi fondamentali delle riforme strutturali: riforma delle pensioni, taglio dei costi della Pubblica amministrazione, controllo della spesa sanitaria.
Isolamento che si manifesta, in modo meno visibile, nella fuga del risparmio mentre il Governo cerca di mettere le mani su tutta la liquidità possibile: dal Tfr alla persecuzione fiscale.
Basterà a distrarre l'opinione pubblica la scoperta del nuovo nemico pubblico numero uno, cioè gli ultras?
Il vertice dell'Unione sulla politica estera, al di là delle dichiarazioni di facciata, non potrà che essere una fiera dell'ipocrisia. D'altra parte basta leggere i quotidiani di oggi, a partire da quelli che certo non si può dire siano ostili alla maggioranza, per rendersi conto di cosa Prodi intenda per accordo nella sinistra. Le posizioni restano le stesse, quindi ben lontane dall'accordo, con la sinistra estrema contro l'ampliamento della base di Vicenza e per l'immediato ritiro dall'Afghanistan e la sinistra moderata per una politica coerente con gli impegni presi dal passato governo. E allora cosa cambia? Semplice, che il presidente del Consiglio accetterà che la sua maggioranza si comporti allo stesso tempo da forza di governo e di opposizione. Così il 17 febbraio vedremo sfilare in piazza contro Prodi, Parisi e D'Alema i vari Giordano e Diliberto. E Pecoraro Scanio? No, lui no perché è ministro e non sta bene, e la sua presenza sarebbe davvero troppo anche per questa sinistra. Però manifesterà Paolo Cento, che tuttavia oltre ad essere deputato Verde è anche sottosegretario. Con ciò cade l'ultima parvenza di serietà, anche se parlare di serietà con questo governo è davvero paradossale. In buona sostanza, faranno finta di essere d'accordo, Prodi accetterà che parte della sua maggioranza manifesti contro di lui ed il suo governo, la sinistra estrema, da parte sua, si turerà il naso e voterà le decisioni del premier. E si continuerà così, galleggiando e prendendo in giro gli italiani. Ha ragione il presidente del Consiglio quando spiega di tenere la barra dritta. Il problema è capire cosa farà quando avrà a prua gli scogli e non potrà virare né a dritta né a sinistra. Uno scenario non troppo lontano: basti pensare al voto per il rifinanziamento della missione in Afghanistan.
L'ennesimo vertice dell'Unione, in programma stasera, arriva in piena era glaciale nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, all'indomani dello "schiaffo" che il Dipartimento di Stato, alias l'amica Condy, ha rifilato a Prodi, D'Alema e Parisi prendendo posizione a favore dell'irritualissimo documento firmato da sei ambasciatori e che non ha lesinato critiche alla conduzione della politica estera italiana.
E' inevitabile, dunque, che lo scontro con Washington finisca nell'agenda di un summit già molto complicato a causa della decisione sulla base di Vicenza e dei continui diktat di Rutelli alla sinistra radicale. Prodi, col solito ottimismo di maniera, ieri ha previsto una "fumata bianca", ma per ora nella maggioranza in pochi sembrano disposti a siglare una tregua duratura.
Resta infatti un clima reciproco di sospetti e di accuse incrociate che avvelena i rapporti nella coalizione mentre si avvicina il voto cruciale sul rifinanziamento della missione in Afghanistan.
Non a caso, oggi Liberazione chiede a gran voce conto di "cosa faranno i centristi" e annuncia che Rifondazione manterrà la sua protesta e non ha alcuna intenzione di sottostare ai diktat rutelliani. Soprattutto perché tra pochi giorni c'è la grande manifestazione contro la base Usa di Vicenza, un appuntamento al quale né Prc, né Verdi né Comunisti italiani possono presentarsi col fianco pacifista scoperto a causa della realpolitik governativa.
Il vertice di stasera sarà dedicato soltanto alla politica estera, prima di tutto perché attorno al nodo che passa da Kabul a Vicenza ci sono tutti i temi di crisi di questi giorni, e poi perché meno argomenti ci sono sul tavolo, meno benzina si butta sul fuoco dello scontro interno. La bussola per orientare il vertice dovrebbe essere, ancora una volta, quella del famoso programma che "fa fede" e che, almeno sulla base di Vicenza, dà ragione alla sinistra radicale.
Come finirà? Sicuramente con l'ennesimo rinvio, condito dal solito annuncio di un "accordo di massima" che metterà insieme la conferma della missione e la prospettiva di un ritiro, la conferenza di pace e il multilateralismo, la base di Vicenza e le servitù militari.
Uno zibaldone indigeribile che rinvierà ancora un chiarimento, del resto impossibile. Infatti, al termine del vertice non è previsto alcun documento, semmai una semplice "comunicazione", e Prodi ha pensato bene di convocare gli alleati a tarda ora per evitare che la conclusione dell'incontro coincidesse con i notiziari televisivi di punta.
Sostiene Visco: l'aumento delle entrate tributarie è frutto in gran parte alla sensazione, trasmessa agli italiani, che questo governo "azzanna" l'evasione fiscale.
Sostiene Il Sole 24 Ore: le "liberalizzazioni" di Bersani "hanno inciso in profondità, con segnali e annunci, sul rapporto degli italiani con l'inflazione" e questo spiegherebbe il dato di gennaio del carovita (1,7%).
Nel primo, come nel secondo caso, la matematica diventa un'opinione, l'economia sconfina nel paranormale e le cifre vengono piegate a un'interpretazione di parte, quella di una sinistra capace di modificare il corso dei fatti con il potere taumaturgico degli annunci.
Le cose sono in realtà molto più semplici. Il calo dell'inflazione, stando ai numeri, è frutto in gran parte delle robuste contrazioni del petrolio, di un inverno particolarmente mite, che ha ridotto i consumi di prodotti energetici e contenuto i prezzi in altri settori (l'industria della neve).
Eppure per Il Sole 24 Ore "la vera differenza la fanno le liberalizzazioni". E' vero? Un buon aiuto al calo dell'inflazione l'hanno dato il deprezzamento dei beni tecnologici, dove tutto è come prima, affidato alla sana competizione di mercato. E ancora sono rimasti invariati i prezzi delle attività ricreative, dove non risulta che Bersani abbia messo il naso.
Nessuno vuole negare l'influenza della "percezione" dei consumatori sull'andamento dei fatti economici (basti ricordare gli sciagurati effetti della campagna sul "declino del Paese"), ma ci consenta l'illustre economista del Sole (Luca Palazzi) di attenerci ai fatti. Che sono questi:
Domanda: è più probabile che i prezzi siano rimasti fermi per la "percezione" delle liberalizzazioni oppure per il fatto, concreto e misurabile, che le buste-paga si assottigliano e il reddito disponibile delle famiglie cala? Non dovrebbe essere difficile rispondere.
Anche il popolo di sinistra ha avvertito - non poteva andare diversamente - con rabbia e delusione gli effetti della prima finanziaria del governo Prodi e in particolare la stretta imposta con le nuove aliquote Irpef da Visco.
Le reazioni sono state immediate e tanti lavoratori hanno affidato il loro scontento ad un messaggio per siti e forum su Internet. I militanti della Quercia hanno trasmesso i loro mugugni all'Unità che però, per qualche giorno, ha tenuto sull'argomento un imbarazzato silenzio. Ma la pioggia di lettere e messaggi continuava e allora il quotidiano ha dovuto pubblicare alcune reazioni decisamente critiche sulla manovra. Il contenuto degli sfoghi è quello registrato anche su altri giornali: la busta paga si è alleggerita anche per contribuenti che guadagno intono a 1.200 euro al mese.
Lettura interessante, quella della pagina dei mugugni. C'è la delusione di chi ha trovato 50 euro in meno in busta paga e scrive: "Sono mesi che ci sentiamo raccontare che questa finanziaria sarebbe stata più equa, che alla fine avrebbero pagato "i ricchi". Sono "ricco" io? Forse ho sbagliato a votare". Un altro rivela di avere perduto 100 euro al mese e conclude: "Sono molto deluso e, come dipendente, molto arrabbiato".
C'è poi il pensionato che si accorge di perdere qualche euro con la manovra e sbotta: "Non mi sembra corretto". C'è pure un quadro del partito che confessa di nutrire il sospetto che il suo voto sia stato inutile.
Ci sono alcuni masochisti impenitenti che, pur lamentando di avere perduto frazioni di stipendio, rinnovano la fiducia nei dirigenti dell'Unione. Ma l'intonazione prevalente è quella della delusione e del risentimento.
Il governo e l'Unione stanno cavalcando il morto di Catania. Non passa giorno che qualche ministro di questo governo non faccia sentire la propria voce. Ed ogni volta con toni sempre più alti. Di Pietro, addirittura, vorrebbe sospendere il campionato di serie A.
Questo atteggiamento ha un effetto indotto: dirotta l'attenzione dell'opinione pubblica sul "calcio malato" e la distoglie dai problemi politici della maggioranza su quasi tutto; ad iniziare dalla politica estera, per finire ai Pacs.
Difficile dire che sia una strategia di comunicazione studiata a tavolino. Ma il risultato è senz'altro questo. Sono passati gli anni della "strategia della tensione". E sono passati anche gli anni di Tangentopoli, quando saltavano le chiese di Roma (Velabro e Laterano) per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli scandali della politica e del governo.
Il risultato, in termini di comunicazione, però è lo stesso. Tutti parlano di calcio e di stadi chiusi e le lacerazioni di politica estera vengono ridimensionate. Senz'altro una coincidenza.
Il calcio, gioie e dolori per la ministro Melandri che, dopo aver "vinto" la coppa del mondo, oggi deve fare i conti con i fatti di Catania. Salire sul carro dei vincitori è facile ed entusiasmante, scendere nella piazza dei rivoltosi e dare risposte concrete a chi rimane vittima della violenza, no. E non bastano i toni categorici, arroganti e punitivi per essere credibile: nella puntata di Porta a Porta dedicata agli incidenti di Catania, la Melandri rincorre un'immagine e un tono di autorevolezza che però nessuno le riconosce. Presenta i provvedimenti assunti dal suo governo (partite a porte chiuse per gli stadi che non sono a norma, divieto delle trasferte organizzate, responsabilizzazione delle società calcistiche nella gestione dei campi da gioco, istituzione di un Osservatorio sulla comunicazione sportiva), ripetendoli più volte, quasi a voler convincere se stessa ed evita di esprimere apprezzamento per i provvedimenti dell'ex ministro Pisanu, di cui, guarda caso, è stata chiesta un'applicazione anticipata.
Sembra Giovanna, la nonna del corsaro nero, quando brandisce la spada del provvedimento legislativo contro le società. E sembra gioire al pensiero che tra le società c'è anche quella rossonera. Naturalmente, subito dopo, demonizza la cultura del nemico, elemento diseducativo e causa degli scontri negli stadi.
La sua incompetenza emerge dalle sue stesse parole. Fa sue le cose dette da altri come se fossero originali: un filmato parla della tifoseria più folkloristica e sana e lei ribadisce il concetto; Vespa pone su una bilancia gli interessi delle società da una parte e la sicurezza dall'altra e lei ripete a parole sue il concetto ma rinuncia ad approfondire il rapporto che si intreccia tra società e ultrà; Pizzul contrappone i fatti di Catania (serie A, grandi interessi) con la morte di Licursi, il dirigente calabrese che operava nella terza categoria dilettanti e lei lo ripete con parole di Pizzul. Insomma, quando parla di sport sembra l'eco di favole altrui e diventa onorevole… Echetto. Confermando che, se la squadra azzurra è campione del mondo, la squadra di Prodi è campione di qualunquismo.
La sinistra radicale non sa e non vuole nascondere vocazioni e tradizioni di violenza, mentre il Paese è profondamente turbato dall'uccisione del poliziotto, a Catania si ode la voce di un parlamentare di Rifondazione comunista che indica, di fatto, nelle forze dell'ordine i "nemici" di sempre. Questo parlamentare è Francesco Caruso, capetto dei no-global, esperto in guerriglia urbana, che Fausto Bertinotti ha paracadutato alla Camera per intercettare i voti dei "movimenti". Caruso ha spiegato - con l'improntitudine propria di chi è cresciuto provocando disordini delle piazze - che la vita di un poliziotto vale quanto quella di un ultrà, mettendo sullo stesso piano chi difende la sicurezza dei cittadini e chi attacca i poliziotti con precisi intenti omicidi.
Caruso è anche andato al di là, affermando che la tragedia di Catania non è dovuta tanto all'intollerabile attacco degli ultrà quanto all'insufficiente addestramento della polizia.
Queste parole hanno suscitato una polemica che ha investito, né poteva essere diversamente, il presidente della Camera.
Fausto Bertinotti non ha condannato Caruso, praticamente ne ha avallato i giudizi odiosi rifiutandosi di commentare le dichiarazioni incriminate. "Non sono - ha detto - il suo angelo custode".
La vicenda dimostra quali gravi responsabilità si sia assunta l'Unione portando nelle istituzioni forze che per consolidata tradizione culturale non hanno alcuna cultura di governo, respingono il concetto democratico della libertà nel rispetto delle leggi e inseguono, piazza dopo piazza, tumulto dopo tumulto, il mito della rivoluzione che incendia, colpisce, distrugge.
Gli sforzi per celare questa continuità culturale sotto gli orpelli della lealtà istituzionale e della pretesa non violenza sono del tutto vani: per usare la metafora di Bertinotti, gratta la grisaglia e spunterà l'eskimo, dei violenti di sempre.
Sulla legge elettorale qualcosa si sta muovendo. Dopo un seminario che si è svolto a Firenze, con la partecipazione di esperti di ogni schieramento politico, il ministro Chiti ha annunciato la presentazione in Parlamento di "linee guida per una riforma condivisa".
La novità dell'incontro di studio tenutosi a Firenze è l'abbandono del modello delle elezioni regionali. Il cosiddetto "modello Tatarella" non è più una soluzione possibile.
Questa decisione può essere considerata in parte un successo di Forza Italia, che ha sempre fatto sapere di essere contraria all'ipotesi di modelli elettorali fondati sul doppio turno o su collegi uninominali.
Chiti ha fatto sapere che le linee guida si muoveranno intorno al modello elettorale in vigore, con alcune modifiche e miglioramenti. Sostanzialmente la posizione indicata da Forza Italia.
In particolare, il ministro per le riforme propone l'abrogazione del ripescaggio del miglior perdente e la fissazione di una soglia di sbarramento al 2%; l'aumento delle circoscrizioni elettorali per ristabilire un rapporto fra candidati e territorio; mantenimento del premio di maggioranza alla Camera e previsione di un premio nazionale per il Senato con redistribuziuone poi a livello regionale secondo il dettato costituzionale.
Fin qui tutto bene. Ma il ministro Chiti avanza anche la possibilità di eventuali intese su singoli aggiustamenti della Costituzione. E qui si aprono obiettivamente delle difficoltà. In primo luogo perché eventuali modifiche costituzionali comportano un tempo prevedibilmente lungo, che avvantaggia il governo e non coincide con i tempi del referendum. In secondo luogo perché le modifiche costituzionali previste riguardano i punti compresi nella riforma costituzionale approvata dal governo Berlusconi (rafforzamento dei poteri del premier, sfiducia costruttiva, riduzione del numero dei parlamentari, creazione del Senato federale) e bocciati dal referendum voluto dalla stessa sinistra.
Uno storico flop! Diversamente non può essere definito il risultato delle primarie del centro-sinistra celebratesi domenica 4 febbraio a Palermo.
Dalle mura della città, più o meno destinate all'affissione di manifesti, i tre candidati Orlando (Idv), Catania (Prc) e Siragusa (Ds) promettevano un futuro migliore per Palermo caldeggiando la partecipazione del popolo del centro-sinistra alle primarie.
I numeri prima di tutto: Palermo, totale dei votanti alle Primarie 19.335, Orlando "incoronato" con il 72%, ovvero con 13.922 voti, che lascia le briciole alla Siragusa, peraltro già Assessore di una trapassata Giunta Orlando e le briciole delle briciole al terzo incomodo candidato della sinistra radicale.
Ebbene, se si trattasse di una competizione per un seggio nel consiglio comunale di Canicattì avrebbe senso utilizzare i toni trionfalistici che i giornali amici della sinistra hanno utilizzato per l'occasione, perché in tal caso si tratterebbe davvero di una montagna di voti. Ma in realtà si è votato nella quinta città d'Italia che va oltre i 500 mila elettori e se davanti a tale numero di cittadini aventi diritto partecipano soltanto in 19 mila allora vuol dire che in favore di Orlando, conti alla mano, si è espresso un elettorato che muove cifre da capogiro: lo 0,02%!
A questo punto un "No Comment" sarebbe la risposta migliore se non fosse che i quotidiani nazionali vicini alla sinistra, sia ieri che oggi parlano di "ciclone Orlando", di "boom di consensi nelle periferie", di "effetto Luca nei quartieri".
Ma quale boom? Ma quale effetto Luca? Ci troviamo davanti all'ennesima disfatta di un centro-sinistra che, in mancanza di classe dirigente, si affida ad un politico re dell'effimero che ha amministrato il capoluogo siciliano per decenni e che appartiene ormai alla preistoria della politica siciliana, una politica cui la Sicilia da tempo ha smesso di dare fiducia.
Dunque, mentre il Paese è andato avanti anche grazie alla spinta propulsiva di un nuovo modo di fare politica inaugurato da Berlusconi e da Forza Italia, la sinistra siciliana è ferma alla metà degli anni ottanta quando una DC in crisi d'identità indicava un giovane Orlando (sempre lui!) alla guida della città di Palermo; sono passati 20 anni e la sinistra è ancora lì a proporre ancora Orlando.
Il centro-sinistra, per la verità, sembra già partire sonoramente sconfitto prima ancora di cominciare la campagna elettorale, i palermitani hanno capito che al di là degli slogan non c'è nessun vero programma di questa eterogenea coalizione per il futuro di Palermo. Per questo a nulla valgono gli appelli che Orlando stamattina lancia agli elettori della Casa delle Libertà. Ci spiace caro Orlando, ma i siciliani e in particolare i palermitani ti conoscono e proprio per questo ti eviteranno ancora una volta.
Forza Italia e la Casa delle Libertà possono essere certamente fieri delle radicali riforme che hanno messo in campo nei cinque anni di governo. E la riforma del mercato del lavoro, orgogliosamente denominata legge Biagi, può essere considerata la punta di diamante del governo Berlusconi, un cavallo di battaglia che con determinazione è stato portato avanti fino alla sua completa approvazione.
In meno di un anno, nel 2003, tale riforma ha visto portare a compimento tutto il suo iter, dalla discussione parlamentare iniziale fino all'approvazione di tutti i suoi decreti attuativi: merito della determinazione politica del centrodestra, di una volontà di un'intera classe politica a rilanciare il messaggio lasciatoci da Marco Biagi.
Eppure questa straordinaria determinazione non è bastata, e i giovani di Forza Italia vogliono rilanciare un campanello d'allarme portato alla loro attenzione dal prof. Tiraboschi, direttore del Centro studi internazionali e comparati "Marco Biagi".
La riforma del mercato del lavoro, nella sua accezione più innovativa, rischia infatti di rimanere una dichiarazioni di intenti e nulla più. La stragrande maggioranza delle regioni, che in materia di lavoro hanno una competenza fondamentale, e tra queste anche le amministrazione presiedute dal centrodestra, non hanno fatto propria la riforma, senza rendere operativi gli strumenti più innovativi che Biagi aveva ipotizzato. Anche le università, che grazie a questa riforma acquistavano un ruolo di sintesi tra domanda e offerta lavorativa, hanno praticamente snobbato le possibilità che potevano ottenere.
I giovani di Forza Italia hanno dunque deciso di battersi nelle amministrazioni universitarie per riuscire ad ottenere quello che la legge prevede e chiedono ai rappresentanti di Forza Italia nelle regioni di non dimenticare Biagi e di continuare l'opera che il governo Berlusconi ha iniziato con tale determinazione.