Sulle nomine Rai verrebbe da dire: c'era una volta la schiena dritta. Erano i tempi in cui Silvio Berlusconi era premier e tutti i ministeri chiave erano di Forza Italia, erano i tempi in cui il ministero dell'Economia che nominava alcuni componenti del Cda Rai era anch'esso di Forza Italia, ed erano i tempi in cui "con sprezzo del pericolo, dedizione alla causa e noncuranti del proprio personale destino" i consiglieri Rai cacciarono Biagi e Santoro.
Oggi gli stessi consiglieri con il loro voto tolgono Mimun e mettono Santoro.
Sono altri tempi ma in Rai non ci sono altri uomini. Sono gli stessi. E questo mette un po' di tristezza.
Per carità, ci saranno mille ed una ragione di realpolitik ad aver condotto i rappresentanti del centrodestra verso questa scelta, a cominciare dall'atteggiamento dell'Udc Staderini fino all'inutilità concreta dell'opporsi, passando per qualche concessione in più che avremmo senz'altro ottenuto su qualche altra rete o testata senza trascurare che opporsi a Riotta vanamente ci avrebbe portato la sua eterna ostilità.
Tutto vero e forse giusto.
Ma è triste lo stesso.
Perché se questi durano e noi dopo tre mesi diamo questi segnali all'elettorato di Forza Italia avveduto, cioè quello in grado di cogliere il significato di scelte come quella di ieri, la classe dirigente moderata del nostro Paese si consegnerà alla sinistra proprio per gli stessi o simili motivi rispetto a quelli che hanno ispirato ieri i nostri consiglieri. E di noi resterà in campo solo qualche sparuto ed inguaribile idealista e qualche nemico del politically correct.
La vicenda delle nomine Rai è un campanello d'allarme sui rapporti fra i partiti dell'opposizione.
La sensazione è che, di fronte alla linea dura del governo, l'opposizione non trovi una linea comune su cui attestarsi per poi lanciare una controffensiva e un appello al Paese.
Le divisioni politiche all'interno della Casa delle Libertà e l'incertezza dei rappresentanti dell'opposizione nel Consiglio di amministrazione della Rai, rischiano di regalare un successo insperato al governo e una mezza disfatta dell'opposizione.
Tutto ciò mentre il governo programma una serie di pesanti attacchi al leader dell'opposizione sul conflitto di interessi, sulla pubblicità e sulla legge radiotelevisiva.
Lo stesso copione rischia di andare in scena sull'invio dei militari in Libano, anche se oggi tutta l'opposizione si sta attestando su una posizione di sostegno alla missione mantenendo però le riserve e marcando il dissenso più radicale sulle motivazioni politiche della missione. L'Udc di Casini avrà l'onere di sostenere una posizione completamente acritica rispetto ad una missione che si presenta in totale discontinuità con la politica estera del governo Berlusconi e in un quadro denso di incognite e di rischi.
Urge da parte della Casa delle Libertà, o di ciò che resta della Casa delle Libertà, ritrovare un coordinamento politico in Parlamento e nel Paese sul tipo di opposizione da condurre al governo Prodi, altrimenti una vittoria ottenuta di stretta misura da parte della sinistra rischia di diventare un successo pieno e totale.
Superato lo scoglio della Rai e della missione in Libano, il primo banco di prova è costituito dalla Finanziaria. E non si possono ripetere gli errori compiuti fin qui, con un'opposizione che si muove in ordine sparso ciascuna inseguendo un suo progetto politico.
Nei confronti della Finanziaria, che si presenta all'insegna delle più clamorose contraddizioni, occorre che l'opposizione ritrovi una voce chiara e univoca e soprattutto che sia capace di formulare una proposta alternativa convincente e credibile.
Se qualcuno ancora crede che la battaglia sia sul terreno della politica, che i fucili puntati siano contro Forza Italia, che le forze in campo stiano cercando di cannibalizzare o eliminare dalla scena il partito di maggioranza relativa del Paese, si sbaglia di grosso. Il quadro è un altro, ancor meno consolante. L'obiettivo è Berlusconi, lui e lui solo. Certo, poi a cascata verrebbe trascinato nel burrone tutto il resto, Forza Italia compresa, ma nel mirino c'è l'ex premier, il fondatore di Mediaset, l'uomo che da 12 anni a questa parte scombussola i piani di potere della sinistra. L'aria che tira è da redde rationem, da resa dei conti finale.
Non c'è argomento politico di questi giorni che non abbia come risultato finale quello di colpire Berlusconi: il conflitto d'interesse (usato come una clava oggi e come la pistola per il colpo di grazia domani, quando sarà modificato a colpi di maggioranza, sempre che non si schieri per la revisione anche l'Udc), la presa della Rai, la riforma della legge elettorale (che con la scusa di voler rendere più stabile la governabilità punta ad essere ritagliata per impedire a Berlusconi un ritorno a palazzo Chigi e al centrodestra la riconquista del potere), la questione giustizia (non solo la riapertura del processo spagnolo, ma anche Lodo Mondadori e Sme-Ariosto), la rivoluzione della legge Gasparri (con conseguente tentativo di distruzione di Mediaset, che comincerà spedendo sul satellite Rete4). Siamo in attesa delle altre perle che la maggioranza scoverà per coprirsi le spalle ed essere ancor più certa di riuscire a cancellare il nome di Berlusconi dal vocabolario della politica e dalla vita imprenditoriale del Paese.
Poi, continuiamo pure a parlare di riforma del partito, di circoli della libertà, di maggiore democrazia interna. Chissà a cosa servirà tutto questo una volta che la sinistra dovesse riuscire ad abbattere, annientare, rendere inoffensivo il fenomeno Berlusconi…
Sulla missione in Libano la maggioranza di governo vuole un voto unanime e le ragioni sono da riscontrare in quelle stesse espresse da Berlusconi a proposito della missione in Iraq. In soldoni, un voto condiviso da tutto il parlamento è un buon paracadute per il governo in caso di avvenimenti drammatici. E l'aria che si respira oggi in M.O. è senza dubbio più "calda" e quindi più a rischio di quanto potesse essere in Iraq.
Sulla missione di pace voluta da Berlusconi, accanto agli Usa e alla Gran Bretagna, l'opposizione di allora votò contro, con un atteggiamento che, come disse Fassino, voleva "accentuare i toni del nostro dissenso sulla missione irachena, per dare appunto valore politico a quel gesto". Un atteggiamento che, nella sua lettura più aggiornata, contraddice chi chiede il voto favorevole del centrodestra in nome di una coerente politica estera.
Oggi la sinistra di governo sembra aver dimenticato quella sua posizione, chiede con prepotenza il voto della Cdl per la missione in Libano e per ottenerlo gioca tutte le sue carte.
Dal Presidente della Camera ("Sulle cose giuste più ampio è il consenso e meglio è"), al Presidente Napolitano ("Si farebbe molta fatica a comprendere un voto che non fosse praticamente unanime"), ai tanti leader della sinistra che rimproverano l'opposizione - in caso di voto contrario – di far mancare il sostegno ai nostri soldati.
Una trappola "sentimentale" nella quale Casini è caduto a "babbo morto": "Se non si vota a favore si è perso il lume della ragione", dice l'ex presidente della Camera in un idilliaco incontro televisivo con D'Alema, pregustando quel voto favorevole che lo consacrerebbe "leader" dell'operazione parlamentare. E a chi chiede che la sinistra riconosca come missione di pace quella irachena, Fassino definisce "incomprensibile" la richiesta, mentre il capogruppo dell'Ulivo alla Camera, Dario Franceschini, precisa che "nessuno può chiederci di modificare un'opinione sulla quale abbiamo affrontato la campagna elettorale".
Fate quello che dico e non quello che faccio, è il principio dei prepotenti. E i signori della sinistra, lo sono.
Vogliono che si dica "sì" a tutti i costi, mentre, proprio per senso di responsabilità, ci sono alcuni elementi che vanno valutati. Così come Berlusconi ha precisato a Gubbio "tuteleremo i nostri soldati, ma attenzione perché le regole di ingaggio non rispettano più le nostre visioni. Le condizioni nelle quali si svolgerà la missione in Libano suscitano dei dubbi che dovranno essere adeguatamente valutati prima di decidere sul voto."
Il generale Angioni, che ha guidato il contingente italiano in Libano tra il settembre '82 e il febbraio dell''84, in un'intervista a l'Unità sostiene che "una volta stabiliti mandato e regole d'ingaggio dettagliate, deve poter esistere un forte spazio di autonomia nell'esercizio del comando sul campo. E' una questione vitale, per la sicurezza degli uomini e per il successo dell'operazione". Autonomia che ad oggi solo la Francia pare si sia assicurata.
Sui rischi della missione fa fede il rapporto redatto da fonti di intelligence europee con la collaborazione dei servizi segreti italiani. Il rischio principale è "la possibile recrudescenza del conflitto" e la capacità offensiva di Hezbollah che "dispone di mezzi di artiglieria e strategici con i quali è in grado di colpire Tel Aviv e Gerusalemme" e che gode di "una rete di supporto in tutte le aree sciite nel Libano meridionale", oltre ai finanziamenti della Siria e dell'Iran.
Nel rapporto si cita Hezbollah come un'organizzazione "con capacità e presenza a livello mondiale paragonabile ad Al Qaeda" e si precisa che nel passato tra le missioni già affidate alle forze armate libanesi figura nei documenti ufficiali anche il compito di dare appoggio e sostegno all'attività di "resistenza" anti-israeliana.
In questo scenario arrivano i militari dell'Unifil 2 che, scrivono i servizi, vengono esposti a una "pluralità di rischi e minacce legata ad una serie di fattori esterni ed interni".
Il comunicato di Palazzo Chigi di ieri che ricostruisce i contenuti degli incontri tra il presidente del Consiglio Romano Prodi e il presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, è "una difesa con gaffe". Così, titola l'articolo di apertura di Milano Finanza scritto dal diretto Paolo Panerai. Un comunicato, scrive Panerai, "letto con interesse ma anche con preoccupazione" diramato per replicare alla ricostruzione della vicenda fatta ieri dallo stesso quotidiano nel quale si ribadisce che Prodi non era stato informato da Tronchetti Provera degli scorpori. Pur riconoscendo a Prodi la fiducia e il rispetto che meritano il suo ruolo e la sua persona, Panerai avanza alcune domande. "Come mai se non sapeva nulla di Tim, Palazzo Chigi ha sentito il bisogno di comunicare (lo scorso 8 settembre in una nota di replica a un corsivo del Messaggero) che il presidente Prodi non poneva nessun altolà alla vendita di Tim?" E ancora, "con quale legittimità palazzo Chigi ha svelato nel comunicato una serie di informazioni riservate ma price sensitive sulle varie operazioni e trattative che sta conducendo Telecom? Non è questa materia di intervento della Consob?".
Si vuole ipotizzare che Rovati abbia agito all'oscuro di Prodi? Nell'articolo, il direttore di MF osserva inoltre che il comunicato del 9 settembre "fu letto, prima di essere diramato, agli uomini di Telecom dal consigliere di Prodi, Angelo Rovati, per dimostrare che il presidente del consiglio non era contro la vendita di Tim. Questa dichiarazione - puntualizza il direttore di MF - era necessaria perché poco prima Rovati aveva passato a Telecom un piano di ristrutturazione che prevedeva lo scorporo della rete. Alle obiezioni di Tronchetti, Rovati aveva definito una sorta di scambio acconsentendo alla contemporanea possibilità di cedere Tim. Quindi quando era uscito il Messaggero era stata chiesta ragione dell'improvvisa presa di posizione di Prodi. E la risposta pronta era stata appunto il comunicato di smentita dell'8 settembre". Si vuole ora forse ipotizzare, prosegue l'articolo, "che Rovati abbia agito all'oscuro di Prodi, come ha sostenuto di fatto con i dirigenti Telecom il capo dell'ufficio di Presidenza del consiglio, Daniele De Giovanni? E comunque, in base a quale principio di libero mercato - si domanda il direttore di MF - era stato deciso a palazzo Chigi che Rovati fornisse addirittura un piano di ristrutturazione al capo legittimo del management Telecom? Palazzo Chigi ha per caso delle competenze e delle funzioni di una banca d'affari come avvenne ai tempi della presidenza D'Alema?
Palazzo Chigi ha commissionato a una banca d'affari un piano di ristrutturazione di Telecom e l'ha spedita a Tronchetti Provera. Ora c'è la prova provata di questa gravissima ingerenza del Governo nelle sorti di un'impresa privata. Il Sole 24 Ore pubblica anche il biglietto autografo di Angelo Rovati, consigliere economico di Prodi ("Grazie per la disponibilità e a presto"), che accompagnava quel progetto.
La vicenda Telecom assume così i contorni di un vero e proprio scandalo politico. Non contano i più i minuetti dei comunicati, delle dichiarazioni, delle precisazioni. Non conta neppure se Prodi sapesse o meno dello scorporo di Tim.
Il problema vero è che esiste ormai la prova provata che Palazzo Chigi agisce come una merchant bank. Come ai tempi di D'Alema, ma anche peggio. Siamo passati dall'unica "merchant bank a non parlare inglese" a una "merchant bank" che l'inglese lo parla tanto bene da affidare a una banca d'affari straniera un vero e proprio progetto di ristrutturazione di un'azienda che, fino a prova contraria, è in mano ad azionisti privati, ha una sua dirigenza, è quotata in Borsa.
Ai tempi di D'Alema, almeno, il Tesoro era detentore di una quota di azioni: non presentandosi in assemblea, rese vano ogni tentativo di difesa di Bernabè, consentendo la scalata dei cosiddetti "capitani coraggiosi". Oggi lo Stato non possiede neppure un'azione di Telecom e non si comprende a quale titolo e con quale diritto Palazzo Chigi abbia commissionato quello studio.
Ai tempi di D'Alema si trattava, bene o male, di una privatizzazione. L'operazione di Prodi mirava a una "nazionalizzazione". Non c'è modo di interpretare diversamente il "consiglio" a Tronchetti Provera di scorporo della rete "con quotazione e partecipazione rilevante (di controllo) della Cassa Depositi e Prestiti".
Appare risibile che Angelo Rovati abbia agito "all'insaputa di Prodi", come sostenuto con i dirigenti Telecom dal capo dell'ufficio di presidenza del consiglio, Daniele De Giovanni. In tal caso, prenda le distanze e lo licenzi.
Appare altrettanto risibile il contenuto di una nota con la quale Palazzo Chigi, il 9 settembre, faceva conoscere la volontà del governo di non interferire sulle decisioni di una società privata. Il comunicato era frutto di una telefonata tra Tronchetti e Rovati, nel corso della quale il patron di Telecom obiettava sui contenuti di quel piano e otteneva (fonti Telecom) il sostanziale via libera allo scorporo di Tim. In che altro modo interpretare la nota di Palazzo Chigi? Nessuna interferenza dopo aver spedito a Tronchetti un vero e proprio piano di ristrutturazione?
Lo ripetiamo per chiarezza: in una sana democrazia liberale, l'intervento a piedi uniti di Palazzo Chigi nelle libere decisioni dei manager di un'impresa ad azionariato totalmente privato è inconcepibile e scandalosa. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa Bruxelles.
Qualche domanda ancora, per finire: è vero che il progetto di Rovati (in Prodi) è stato redatto dalla Goldman Sachs di Costamagna, consulente di Murdoch e del Governo? Non è per caso la stessa Goldman Sachs della quale era consulente Prodi? E, di grazia, a quanto ammontano i costi di questo studio e chi li pagherà? La presidenza del consiglio (cioè tutti i contribuenti) oppure il banchiere d'affari Prodi, di tasca sua?
A Visco viene chiesto, dalle pagine di Famiglia Cristiana, se "si sente più Dracula o Robin Hood". "Non sono un Robin Hood che è un ladro", è la risposta del viceministro il quale da un lato contraddice un'immagine cara a Prodi che vuole il personaggio della foresta di Sherwood come un eroe che ruba ai ricchi per dare ai poveri e dall'altra non respinge con altrettanta sicumera il parametro con il vampiro.
Un lapsus, forse, causato dalla consapevolezza di essere un'altra cosa: Visco si sente Lupo Ezechiele, bocca larga, sguardo vorace, che cerca sempre di sbranare tre porcellini "spolpabili".
Tre fratellini che nell'immaginario del viceministro per l'economia rappresentano tutti quegli italiani che non si sono acconciati a dipendere dallo stato e che hanno avuto successo nel lavoro.
Insomma Visco dà la caccia ai "porcelloni ricchi" che pregiudizialmente sono brutti, cattivi ed evasori fiscali, anche perché magari votano Berlusconi.
Per scoprire le loro malefatte, il viceministro minaccia una mobilitazione generale della finanza, la quale avrà anche "il compito di verificare se le mogli casalinghe vanno in palestra". Parola di Visco.