A Caserta è andata in scena la replica del solito film: il partito storico della sinistra ex comunista abbandona precipitosamente la sponda riformista per ripiegare sulle posizioni di partenza.
Mai cominciare qualcosa che non si è in grado di portare a termine. Per aver infranto questa regola di buonsenso con insistenti tentativi di imporre la virtù riformista al governo Prodi, Fassino esce da Caserta col marchio di velleitario. Ridicolizzato.
Prodi gongola. Ha spazzato sotto il tappeto, con la benedizione di Fassino, quelle stesse riforme modernizzatrici (a cominciare dalle pensioni) che lo stesso Fassino gli aveva gettato tra i piedi solo pochi giorni fa. Insieme con Prodi, gongola Giordano, proconsole di Bertinotti al timone del partito neocomunista. Dice bene il presidente del Consiglio: "del tutto pretestuosa è la contrapposizione tra riformisti e massimalisti". Alla prova dei fatti, l'eterno duello delle due anime della sinistra in competizione per il controllo degli atti di governo si risolve in un abbraccio tra compagni. Fassino, redarguito da Prodi e respinto da D'Alema, risale in disordine le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza.
Dopo Caserta, la formula di centrosinistra, intesa come dislocazione delle forze riformiste su posizioni modernizzatrici ed efficientiste, così da rappresentare l'opinione moderata, non esiste più. Di conseguenza, lo stesso progetto di un Partito democratico svanisce in un filo di fumo. Fassino resta come vuoto a perdere. Rutelli deve darsi una strategia di ricambio, e Prodi procede, allacciato alla sinistra radicale, la sua irresistibile marcia verso il primo burrone elettorale abbastanza profondo da inghiottirlo. A Caserta è andato in scena il primo atto della exit strategy di D'Alema. Bisognava che Prodi fosse solo al comando, libero di seguire la rotta tracciata per lui da Rifondazione, per preservare i diessini dal disastro elettorale annunciato a una sinistra né carne né pesce. Incapace di replicare il modello Tony Blair, per farsi prendere sul serio dall'opinione moderata, e impossibilitata a difendersi dalla concorrenza demagogica della sinistra radicale.
Resta il mistero della costosa trasferta nella reggia di Caserta. Se il problema era quello di dissolvere in un bagno di realismo le incrostazioni velleitare, lo stesso risultato poteva essere raggiunto riunendosi in un qualsiasi palazzo romano. Ma lo scenario offerto dai luccicanti ori dei Borbone è servito come polvere negli occhi per il pubblico. La replica della solita commedia dell'impotenza del potere partitocratico è stata trasformata in evento cinematografico: re Artù Prodi tra i suoi cavalieri della tavola rotonda. Maquillage per un governo inconsistente di una maggioranza senza futuro.
Involontariamente la provocazione di Pannella, che ieri ha dissacrato il conclave di Caserta mandandolo in onda su Radio Radicale, ha coperto il vuoto e l'inconsistenza politica di quell'appuntamento. Forse salvandolo.
Un vuoto di coesione, di progetto e perfino di linguaggio: Prodi ha insistito sullo sviluppo e sul piano per il Sud, ha ricordato il generico aiuto alle famiglie, ha ripetuto la necessità di rimettere al passo il Paese… Un misto di banalità e luoghi comuni - che possono andar bene a tutti e far bene a nessuno – e che hanno di certo annoiato i convenuti e ridotto Sircana al più vitreo dei pallori quando ha scoperto che la beffa pannelliana era riuscita e che gli annunci "epocali" del premier stavano viaggiano sulle onde di Radio Radicale.
Come è andata la partita tra riformisti e radicali, lo scontro tra la sinistra comunista ed antagonista che nulla vuole cambiare in termini di welfare, lavoro, pensioni, liberalizzazioni e la squadra dei capitani coraggiosi del riformismo delle chiacchiere?
Semplice: gli antagonisti hanno vinto la prima giornata per tre a zero e oggi non ci saranno rivincite. Giustamente ieri il rifondarolo Giordano, erede di Bertinotti, era così raggiante da beffare Rutelli con un esplicito: "Ora la partita è chiusa!".
Esagerazioni? Niente affatto. A Caserta Prodi ha continuato a traccheggiare sulle pensioni (che non si affronteranno) e sull'intero pacchetto delle liberalizzazioni, tanto che il ministro Bersani ne è uscito con le ossa rotte e la reputazione a rischio.
Si doveva puntare subito a liberalizzare la vendita della benzina, ma non è stato trovato un accordo. Neppure nella rossa Toscana dove gli uomini della Conad, dunque gli amici degli amici, non ne vogliono sentire. Si tratta dunque del secondo annuncio-fiasco per il brillante ministro bolognese che poco e male era riuscito ad intervenire sulle licenze dei tassisti.
Con simili premesse – e la Bonino e Amato che sembrano i più lucidi nell'aver compreso in quale compagnia di giro si sono ficcati – come si può pensare che questo Gabinetto metta mano davvero all'annoso problema delle pensioni?
In questo vuoto di progetti e di collaborazione, con Di Pietro che insulta Pannella e con Rutelli che si affida a Gentiloni per far la parte del liberista duro e puro, le uniche concessioni fatte da Prodi sono il nulla. O quasi. Non lo diciamo (solo) noi. Si guardi Il Sole 24 Ore o, se si preferisce, L'Unità costretta a titolare la giornata del conclave che doveva produrre la fumata bianca: "Avanti adagio".
Il premier, infine qualcosa di rivoluzionario annuncerà: "Cinque anni di sviluppo per l'Italia", vale a dire un orizzonte keynesiano così largo e indefinito da lasciare aperta ogni possibilità e ogni fallimento. Come quello di andare a sbattere con la certezza che le tasche degli italiani saranno sempre più vuote.
Tutto qui? No, c'è lo strombazzato annuncio del Piano per il Sud. Peccato che il governo a Caserta non abbia inventato nulla, ma si limiti a ratificare quello che era già stato deciso dal Cipe.
Insomma quella sinistra, quell'Unione e questo governo che qualche tempo fa a Firenze avevano mostrato i muscoli, a Caserta hanno gettato la maschera e quel poco di sintonia rimasta servirà solo come mastice per durare al potere. Anche se paiono assomigliarsi, Prodi non è Andreotti, soprattutto non è l'Andreotti degli anni '80. E questa Italia diversa ha bisogno di ben altro rispetto ai professionisti del "galleggiamento".
"L'Unione a Caserta, avanti adagio", titola L'Unità. Così, per provare l'ebbrezza della velocità, a Prodi non è rimasto che arrivare a Napoli con la Tav del centrodestra. Salvo, poche ore dopo, invitare alla calma Di Pietro e Pecoraro che si accapigliavano per l'ennesima volta sull'Alta Velocità in Valtellina. Un episodio, ma una perfetta metafora della politica del "non fare" e dei rinvii di questo governo.
La decisione di allungare i tempi sulla riforma delle pensioni e quella di invitare Bersani a rimettere in valigia la sua "lenzuolata" di presunte liberalizzazioni, sono soltanto gli aspetti più eclatanti di una prima giornata fallimentare di questo vertice "storico" (parola di premier).
Per il resto, soltanto annunci e buoni (o cattivi) propositi. Sui "faremo" o "abbiamo intenzione di fare" di Prodi si sono esercitati, per salvare il salvabile, gran parte dei giornali.
Non accorgendosi (o fingendo di non accorgersi) che il premier ha cercato di rifilare agli italiani prodotti già venduti, oltreché virtuali. Perché tutte, ma proprio tutte, le novità annunciate e di là dall'essere attuate sono state già declinate dal premier a più riprese.
Per dirla tutta: le "novità" di Prodi stanno già nel programma elettorale dell'Unione.
Oggi il premier tenterà di rivendersi l'ultimo prodotto scaduto rimasto in dispensa: quello che pomposamente chiama il "piano strategico per il Sud". Il Consiglio dei ministri lo approverà a Caserta, Prodi ne parlerà come di un segnale storico, augurandosi che i media se la bevano. Ma si tratta solo di una via libera all'utilizzo di fondi già approvati dal Cipe in dicembre.
Non c'era bisogno di spostare l'intero governo a Caserta per fare questo, né per ammannire agli italiani un "bignamino" del programma dell'Unione. Carta è, carta resta. Buona per aggiungersi alle tonnellate di rifiuti che assediano Napoli e la reggia dell'inutile e inconsueto vertice.
Tra i tanti riuniti intorno al tavolo di Caserta, solo due si sono mostrati soddisfatti: Marco Pannella per l'operazione di radio-pirata e Franco Giordano, che ha ridotto al silenzio l'area riformista: messo a tacere Fassino con il varo del distico "equità e innovazione", ad Amato, Gentiloni, Rutelli è rimasta solo l'occasione di esprimere alcune velleità.
Prodi, poi, ha messo la sinistra radicale in una botte di ferro, negando l'esistenza stessa di un contrasto tra riformismo-radicalismo. Questa è la sostanza del pomposo vertice nella reggia di Vanvitelli.
È tutto? No, non è tutto. Prodi, e Padoa Schioppa possono oggi contare su una importante condizione positiva.
Il buon andamento dei conti pubblici e la ripresa mettono a disposizione del governo un collante utile: la spesa pubblica. Così si cuce la frattura tra riformismo e massimalismo: con una politica della spesa in vista delle amministrative di primavera. Ci sono un po' di soldi da distribuire, e questo serve a tacitare tutti.
Un vertice per finanziare la crescita, ma del tutto povero di idee su come riattivare lo sviluppo in Italia. Questo è il risultato del conclave di Caserta voluto da Romano Prodi esclusivamente per riaffermare la sua immagine. L'unico contributo alla crescita venuto dal summit è l'impennata dei consumi alimentati dal seminario: 34 tra ministri e leader di partito, 400 giornalisti accreditati, per due giorni hanno "mosso" il Pil casertano.
Dal vertice non è uscita una sola idea e Prodi è stato un abile prestigiatore che ha nascosto (o almeno ha tentato) le divisioni interne alla maggioranza. L'unico punto certo è che le riforme strutturali, vero volano della ripresa economica, resteranno nel cassetto.
Non si parla più di riforma delle pensioni, non si parla più di liberalizzazioni, non si parla più di snellimento burocratico, al contrario tutte queste riforme resteranno nel cassetto per volere esplicito dell'ala sinistra della maggioranza. È inutile dire che ancora una volta Prodi è il Presidente del Consiglio, ma il vero azionista di maggioranza della coalizione non è il partito che ha preso più voti il 9 aprile ma quello che ne ha presi di meno: Franco Giordano ed Oliviero Diliberto ancora una volta dettano l'agenda ed i ritmi dell'attività di governo. Prodi consenziente, Padoa Schioppa complice.
Sarà difficile, per il ministro dell'economia, spiegare alla Commissione Europea ciò che l'Italia sta facendo a livello di riforme strutturali e giustificare così le scelte. Diametralmente opposte a quelle chieste da Bruxelles e quelle auspicate da Fondo monetario e Ocse. Il risultato inevitabile: questo governo farà perdere credibilità all'Italia a livello internazionale.
In compenso Prodi può dire di aver vinto la sua battaglia con l'area riformista della maggioranza. Ma è difficile tradurre in inglese tali vittorie.
Il conclave di Caserta sembrava doversi svolgersi nella più totale segretezza, ma ricorrendo alla tecnologia e all'astuzia, almeno in parte Pannella ha violato questa intenzione.
D'altra parte c'è poco da tenere segreto: le posizioni dei partecipanti – ministri e segretari dei partiti della coalizione – sono note e contrapposte.
Tuttavia qualche riflessione su questa intenzione di mantenere la segretezza o la riservatezza s'impone non solo perché democrazia è trasparenza ma perché i protagonisti sono coloro che dovrebbero, in base al voto degli elettori, attuale la politica nazionale scelta dagli elettori stessi, secondo quanto prescrive la Costituzione.
In questo caso specifico, la segretezza fa nascere sospetti che non si tratti di politica trasparente, da portare in Parlamento e in sede di Governo, ma di manovre di altro genere, di potere, di divisione della torta in fette da ripartirsi, forse anche di resoconti di contatti con parti dello schieramento avversario, di decisioni politiche molto di parte da attuare secondo un calendario preciso. Soprattutto di voragini aperte fra una parte e l'altra della coalizione di sinistra, di liti, di divergenze. Il conclave doveva rimanere segreto per non far filtrare all'esterno il nulla di cui si sarebbe dibattuto.
Questa procedura emargina ancora di più il ruolo delle istituzioni trasparenti, anzitutto il Parlamento, ratificando la piena restaurazione del regime dei partiti, e delle loro segreterie, della Prima Repubblica.
Questo piega le resistenze alla modifica della legge elettorale, o più semplicemente la resistenza al bipolarismo fondato sulla chiarezza e l'accettazione di un bipolarismio dei due mucchi nel quale la sinistra ha più speranze di vincere.
Salvo poi a dibattersi tra immobilismo (non alle riforme importanti: ribadito da Prodi il rinvio della riforma pensionistica) e populismo (privatizzazioni a campione, telefonini, ecc.).
Quindi non c'è nessun segreto da proteggere: si può ammettere l'esistenza di una pattuglia di veri riformisti in una certa parte della sinistra, ma questa è troppo attaccata al potere in esclusiva per non farsi condizionare dall'estrema sinistra.
Al termine della prima giornata di "lavori", Prodi è sceso in conferenza stampa per dire: «Dobbiamo avere un'etica della coalizione, il governo deve essere serio nei comportamenti. E questo riguarda ad esempio le nomine che vanno fatte secondo il merito».
Poco lontano dal premier stazionava il suo fedelissimo capo scorta, a lui legato da tanti anni di rapporto, recentemente nominato vice capo di divisione del Cesis. Alla faccia della meritocrazia e delle nomine all'insegna dell'etica.
Per aggiungere gaffe a gaffe, il premier, ha poi lamentato di aver trovato un'eredità di «competenze dubbie» nella pubblica amministrazione, con riferimento alle nomine del governo precedente.
Sempre poco lontano stazionava Silvio Sircana, portavoce del premier, che proprio il governo Berlusconi aveva nominato capo delle relazioni esterne delle Ferrovie.
Sulla riforma della legge elettorale Forza Italia ha incontrato nei giorni scorsi le forze politiche dell'opposizione, al ministro Chiti e da ultimo, il comitato per il referendum.
Il bilancio finale può considerarsi positivo perché Forza Italia ha preso l'iniziativa dopo che Lega e Udc avevano separatamente aperto un canale di trattativa con il governo: la prima sulla questione del federalismo, la seconda su una nuova legge elettorale.
Forza Italia è riuscita a svolgere un ruolo politico autonomo, aprendo alla possibilità di migliorare in Parlamento l'attuale legge elettorale, ma dicendo chiaramente che ogni tentativo da parte del governo di dividere l'opposizione o di approvare con un colpo di mano una nuova legge senza un ampio consenso avrebbe costretto il primo partito italiano ad appoggiare il ricorso al referendum.
La minaccia del referendum spaventa il governo perché rischia di far saltare una maggioranza già fortemente divisa e sull'orlo di un'implosione.
In questo quadro, nello schieramento di centrodestra, la Lega Nord ha espresso una particolare insofferenza verso il referendum al punto da richiedere a Forza Italia, in termini ultimativi, le dimissioni dei propri rappresentanti dal comitato promotore del referendum.
Con questo colloqui a largo raggio Forza Italia ha allontanato l'approvazione di norme ostili a parte dell'attuale maggioranza e ha facilitato la convergenza sull'ipotesi di un miglioramento della legge elettorale approvata nella precedente legislatura.
Tutte le forze politiche consultate hanno infatti concordato sulla possibilità di correggere per via parlamentare l'attuale legge elettorale secondo alcune proposte avanzate dal professor D'Alimonte, unica via disponibile per scongiurare il referendum.
Ora la palla è nelle mani del governo che dovrà rendere note le proprie valutazioni e proposte, e soprattutto dovrà decidere se affrontare un confronto positivo con l'intera opposizione, oppure tentare di dividerla e imporre una nuova legge elettorale conforme ai propri interessi di parte.
In tal caso non rimarrebbe che la via referendaria per tutelare il bipolarismo e scongiurare un ritorno al passato.
La vicenda riguardante la legge elettorale è cambiata di segno politico.
Anche se la ristrutturazione del sistema politico attraverso il cambiamento della legge elettorale si è rivelata un illusione, la proposta di referendum "Guzzetta" avrebbe potuto esercitare un ruolo decisivo, se sostenuta da un patto di ferro fra quattro partiti, due del centro-sinistra due del centro-destra: Ds e Margherita da un lato e Forza Italia e An dall'altro. In questo caso il referendum avrebbe potuto portare ad una sorta di "bipartitismo coatto" peraltro facilmente eludibile: basta unirsi alle elezioni e dividersi poi in Parlamento.
Il fatto che nel comitato referendario siano entrati esponenti di Forza Italia, An, Ds e Margherita, ha dato credito all'ipotesi del patto di ferro.
Ipotesi, però, contraddetta dai fatti. Margherita e Ds stanno al governo con un certo numero di partiti "nani": Sdi, Pdci, Verdi, Udeur, socialisti di Bobo Craxi radicale, oltre a Rifondazione Comunista da sempre contro il bipartitismo. Costoro hanno cortesemente fatto presente a Prodi e agli stati maggiori dei Ds e della Margherita che, prima di farsi assassinare dal referendum, avrebbero assassinato il governo.
Intanto, nel centrodestra, l'Udc e ancor di più la Lega non sono stati con le mani in mano: alla vigilia di importanti elezioni amministrative hanno fatto sapere che, persi per persi, si sarebbero sottratti ad ogni vincolo di coalizione.
Il passaggio decisivo, comunque, si verifica nel centro-sinistra.
Bassanini (Ds) e Giachetti (Margherita) sono usciti dal Comitato, mentre Fassino e Chiti hanno sviluppato una iniziativa politica in due direzioni: il primo ha posizionato i Ds contro il referendum e ha accusato il Comitato di essere espressione del centro-destra. Il secondo ha lavorato per disarticolare l'opposizione (Udc-Lega).
Il gruppo dirigente di Forza Italia ha, allora, agito per ricomporre lo schieramento di centro-destra (che deve affrontare nel 2007 una impegnativa campagna elettorale amministrativa) e ha difeso la bontà dell'attuale legge elettorale privilegiando la modifica parlamentare; senza abbandonare il referendum, strumento necessario a evitare che la maggioranza si ricomponga su qualche modello elettorale per noi inaccettabile.
Allo stato questa iniziativa ha migliorato la situazione, ma restano nella Lega forti turbolenze. Inoltre Forza Italia deve evitare di cadere nella trappola del centro-sinistra e di farsi assorbire dalla vicenda della legge elettorale: prioritaria è la battaglia di opposizione sulle questioni economico-sociali.
L'attuale legge elettorale è buona; i difetti sono il frutto delle modifiche imposte a suo tempo dal duo Ciampi-Gifuni. Vanno comunque difesi i tratti fondamentali: bipolarismo, proporzionale, turno unico, scheda unica. L'ipotesi referendaria resta così una carta di riserva per evitare che il centro-sinistra imbocchi strade per noi inaccettabili.
Il tormentone tra Fassino e Rutelli da una parte, e Prodi dall'altra, sul dilemma "fase uno, fase due", ha occupato per settimane le pagine dei quotidiani, prefigurando chissà quali sfracelli. Poi, Rutelli si è fatto da parte, mentre il segretario ds, all'inizio di quest'anno, ha alzato ancora di più i toni della polemica con una fragorosa intervista a Repubblica che suonava più o meno così: "O riforme o morte", con l'aggiunta di un ultimatum temporale di cinque mesi "cruciali per la sopravvivenza del governo e di questo centrosinistra".
Fassino basava il suo ragionamento sul dato di fatto oggettivo di un governo e di una maggioranza tutta sbilanciata sugli interessi della sinistra massimalista-comunista. La risposta di Prodi è stata, però, gelida e quasi irridente. L'entourage di Palazzo Chigi ha fatto subito sapere che "battere i pugni sul tavolo per ottenere le riforme è solo un esercizio sterile". Comprensibile dunque l'irritazione del leader Ds. Sul tavolo del quale, oltre alla bomba fatta esplodere dalle dimissioni di Nicola Rossi e dal suo feroce j'accuse contro la leadership del centrosinistra, sono piovuti i sondaggi commissionati nelle città dove si voterà per le amministrative. E i risultati sono allarmanti, per l'Unione (anche se la sinistra radicale pare cavarsela bene) e soprattutto per i Ds. E così, come ha rivelato un autorevole dirigente Ds, Fassino era furibondo con Prodi, e deciso a dettare una sorta di aut-aut illustrato ai suoi più o meno in questi termini: "Posso anche fermarmi, se dà fastidio che ricordi al governo che senza un immediato colpo d'ala rischiamo di perdere i contatti con intere fette dell'opinione pubblica. Ma se tra cinque mesi non è successo nulla e le elezioni vanno male, le conseguenze le pagheremo tutti. E anche il governo Prodi può cadere".
Alla vigilia del vertice di Caserta sono entrati in azione i frenatori e Fassino ha dovuto prendere atto di una certa solitudine anche all'interno del suo partito. "Le tue sollecitazioni sono giuste", ha detto la capogruppo Anna Finocchiaro, ma al Senato siamo a rischio ogni giorno, se ci scontriamo con Rifondazione si sfascia tutto".
La pietra tombale sull'outing fassiniano l'ha messa Massimo D'Alema, che, con realismo, ha invitato tutti a prendere atto che gli equilibri del centrosinistra sono quelli che sono e che i Ds "non possono permettersi di rompere con Prodi".
L'ultimatum del segretario ds è stato così derubricato, a pura e semplice dichiarazione d'intenti. E invece del passaggio dalla fase uno alla fase due del governo, abbiamo assistito alla trasformazione del Fassino uno, minaccioso, nel Fassino due di Caserta, mite con un agnellino e allineato e coperto dietro la carovana di Prodi.
L'accanimento contro le riforme del governo Berlusconi che la sinistra sta mettendo in atto ha tra le sue conseguenze la fine del processo di modernizzazione della formazione dei giovani.
Negli ultimi anni, da quando è stata varata l'Agenda di Lisbona, in Europa si è affermato il principio dell'"economia della conoscenza". Su cui si basa la riforma Moratti, grazie anche a due fondamentali strumenti: la libertà di ogni famiglia di scegliere un indirizzo scolastico personalizzato e l'introduzione del portfolio, con valenza europea.
Il governo Prodi, per mano del ministro Fioroni, ha invece innescato una preoccupante e dannosa retromarcia. In ossequio a quella tradizione che vede i governi di centrosinistra perennemente in ostaggio del ricatto sindacale, ha marginalizzato profondamente il ruolo di studenti e famiglie nelle scelte didattiche, tornando alla "super scuola", una "scuola colosso" in cui le sperimentazioni non esistono più e in cui è il sistema educativo non tiene in conto le esigenze degli studenti.
La cancellazione del portfolio ha inoltre tagliato alle radici la possibilità di poter avere una scuola che prepari davvero ad affrontare il mondo del lavoro.
Portfolio e sperimentazioni sono gli strumenti che i giovani di Forza Italia vogliono difendere e chiedono di reintrodurre. Perché sono strumenti che l'Europa ci chiede e che permettono ad ogni studente di realizzare le proprie aspirazioni.
L'eredità "coi fiocchi" che il governo Berlusconi ha lasciato ai suoi successori è dimostrata dai dati dei conti pubblici.
Il fabbisogno dello Stato per il 2006 è stato pari a 35,2 miliardi: di poco superiore al 2 per cento del Pil ed alla metà di quello accertatolo scorso anno.
Si è dimostrata del tutto falsa e propagandistica la tesi governativa contenuta già nel DPEF a giugno di una nuova grande crisi italiana, di un nuovo 1992, come avevano detto, slealmente, il Presidente del Consiglio e il ministro dell'economia.
I dati dicono con precisione che da tempo la situazione era ed è sotto controllo, come sapevamo bene, avendo la coscienza di avere sempre agito per l'interesse del Paese.
Il Governo invece, contro ogni ragione e ogni evidenza, ha insistito e continua ad insistere con la sua pericolosa propaganda e con la sua ancora più pericolosa politica economica e fiscale che rischia di portare l'economia italiana verso la recessione.
Nel mese di aprile del 2006, Giulio Tremonti, forse in un eccesso di rigore, aveva previsto che il fabbisogno di fine anno sarebbe stato pari a 66 miliardi: il 4,5 per cento del Pil. Una previsione plausibile, anche se forse eccessiva. Nei primi tre mesi dell'anno, infatti, il fabbisogno era stato più o meno pari a quello dell'anno precedente.
A partire dal mese di maggio sono venuti alla luce fatti molto positivi. Nei primi quattro mesi del 2006 le entrate sono cresciute di oltre 10 miliardi, con una percentuale pari all'8,7 per cento, che nei mesi successivi si sarebbe ulteriormente arrotondata, fino a raggiungere il picco del 12,6 per cento. Contro una prudente previsione a bilancio del 5,9 per cento.
Inoltre i conti del 2006 sono andati bene anche perché la spesa - tranne gli stipendi dei pubblici dipendenti, che hanno continuato a correre più di quelli dei privati - è cresciuta meno delle previsioni. Grazie a un'intelligente proposta di Giulio Tremonti che il governo ha introdotto con la finanziaria 2006: dallo scorso anno le amministrazioni pubbliche possono spendere, ogni mese, fino a un dodicesimo del loro budget annuale. Ma se spendono di meno – ecco l'importante innovazione i fondi risparmiati non sono più spendibili. In passato la lentezza delle amministrazioni lasciava che i fondi si accumulassero, per poi spenderli, spesso in modo dissennato, alla fine dell'anno.
Questi fatti sono stati totalmente ignorato nella preparazione della cosiddetta due diligence, voluta dal ministro Tommaso Padoa Schioppa e condotta dalla commissione Faini. Che certificò, invece, un drastico peggioramento delle condizioni finanziarie, che in realtà non esisteva. Il fabbisogno venne stimato a più di 70 miliardi, il 4,8 per cento del Pil. Fu questa la cifra che il ministro comunicò al Parlamento alla sua prima audizione.
A giugno il governo presentò il Dpef e la propagandistica e falsa tesi di un ritorno al 1992. Con una vistosa contraddizione, tuttavia, perché le previsioni del fabbisogno furono ridotte a 59 miliardi, segno che anche la peggiore propaganda non poteva contraddire la realtà più di tanto.
Qualche giorno dopo, nella Relazione previsionale e programmatica, il governo si corresse ancora, fissando il fabbisogno a 47,7 miliardi: il 3,3 per cento del Pil. Oggi i dati dimostrano che anche quella previsione peccava di pessimismo preconcetto.
Il governo, invece, continua a sostenere che nella scorsa legislatura si è verificata una riduzione del gettito delle entrate tributarie correnti in rapporto al PIL, prevalentemente per l'erosione della base imponibile, conseguenza di condoni e sanatorie fiscali, e non in conseguenza della riduzione di aliquote e del recupero di base imponibile.
Questa affermazione non è vera, come dimostrano i fatti che lo stesso ministro ha dovuto riconoscere.
Basti citare il ministro dall'audizione alle competenti commissioni di Camera e Senato lo scorso 12 ottobre. Dice Padoa Schioppa: "Il gettito erariale, al netto delle entrate una tantum, è stato rivisto verso l'alto rispetto al DPEF per riflettere il positivo andamento del gettito nei primi otto mesi dell'anno. In particolare, occorre notare che nel periodo gennaio-agosto 2006, l'IRE ha registrato una crescita del 6,4 per cento rispetto allo stesso periodo del 2005. L'IRES è aumentata del 20,2 per cento, anche per effetto di misure con carattere una tantum. L'IVA è cresciuta del 9,3 per cento. Alla luce di questi andamenti, le stime di preconsuntivo per il 2006, in termini di contabilità nazionale, sono state riviste al rialzo, di 5,9 miliardi rispetto al DPEF con una crescita del 7,4 per cento rispetto al 2005".
Ora è evidente a tutti che, se la crescita del prodotto interno lordo nel periodo è stato di circa 1,6% così dice la nota di variazione al Dpef che il Parlamento ha approvato – se le aliquote fiscali sono state ridotte (e questo è un fatto non controvertibile), l'aumento del gettito non può che attribuirsi all'ampliamento della base imponibile, a cui hanno contribuito certamente e in modo positivo i condoni, che hanno portato alla luce base imponibile prima sommersa. È evidente, infatti, che chiunque aderisca al condono da quel momento in poi dovrà pagare le imposte, che prima aveva evaso.
Dunque oggi il Pil cresce più delle previsioni iniziali e il fabbisogno va in direzione opposta. È quindi molto probabile che i risultati del 2006 saranno di gran lunga migliori delle ipotesi poste a base della legge finanziaria. E dunque non era necessaria, anzi era assolutamente da evitare la stangata fiscale di oltre 15 miliardi di nuove entrate che il governo ha imposto agli italiani. C'è solo da sperare almeno che le maggiori entrate non vengano destinate ad un'ulteriore espansione della spesa pubblica.
Le scelte economiche e fiscali del governo, inoltre, produrranno danni certi all'economia, rallentando la crescita. Come dimostrano i dati del Centro studi di Confindustria e le previsioni degli altri organismi internazionali, che cifrano in un modesto tasso dell'1,2 per cento la crescita probabile dell'anno in corso, rispetto all'1,7% del 2006.
Perché si è voluta seguire, con determinazione degna di miglior causa, una strada fallimentare? Per un motivo molto semplice e tutto interno alla maggioranza parlamentare. Drammatizzare la situazione economica e finanziaria del Paese serve a cercare un capro espiatorio inesistente, il precedente governo, e così mantenere unita la coalizione di governo.
Quella stessa coalizione che, invece, lasciò un'eredità pesante al governo Berlusconi. Nel 2001 Vincenzo Visco, ministro del Tesoro, firmò l'ultimo Dpef della legislatura prevedendo un deficit pari allo 0,8 per cento del Pil. L'Istat, qualche anno dopo certificò che il deficit era stato pari al 3,1 per cento del Pil, quasi quattro volte tanto. Ecco dimostrato chi è abituato a mentire sui conti pubblici e sui meriti e le colpe del loro andamento.