Silvio Berlusconi non è sorpreso per i fischi ricevuti dal presidente del Consiglio, Romano Prodi, a Bologna. Commentando a Sesto San Giovanni l'episodio l'ex premier ha detto: "ho visto che Prodi si è meravigliato, è arrivato addirittura a dire che erano contestazioni organizzate. Ha ragione: erano organizzate da lui stesso. Con tutto quello che fa è riuscito a mettere insieme la grande maggioranza degli italiani contro il suo programma di governo. Credo si debba rendere conto che questo è il clima che c'è nel Paese".
Secondo Berlusconi da un lato "ci sono i fischi a Prodi", dall'altro "ci sono io che quasi non riesco a muovermi a Roma o a Milano per le manifestazioni di consenso che ricevo".
Nel centrodestra è ormai "avviato il passaggio dalla coalizione alla federazione". Riferendosi ad un incontro avuto ad Arcore con Bossi e i quadri della Lega, Berlusconi ha quindi precisato il concetto di federazione: "è una coalizione - ha detto - dentro la quale vige la regola della democrazia con un quorum elevato, sulle varie decisioni: si vota e la minoranza si impegna a rispettare le decisioni della maggioranza".
"Anche oggi ci siamo dati dei tempi - ha aggiunto - per la scrittura di questo statuto".
L'ipotesi secondo cui in caso di un nuovo progetto politico riguardante l'assetto del centrodestra Forza Italia possa anche sciogliersi "è un'ipotesi che non esiste".
"Lo scioglimento di Forza Italia? Non esiste - ha detto - è un partito fortissimo, abbiamo il 31,7 per cento dei consensi in Italia, oltre il 36 per cento in Lombardia. Forza Italia è un grande partito italiano".
I vertici del Milan, a cominciare dal suo allenatore, godono della "piena fiducia" di Silvio Berlusconi. Il presidente rossonero, a margine di un incontro politico a Sesto San Giovanni, ha avuto modo anche di sottolineare questo concetto parlando della fase non felice che sta attraversando la sua squadra.
"Tra noi e l'Udc non c'è alcuna contrapposizione, né vi è alcun gelo nei confronti di Casini". È quanto ha tenuto a sottolineare Berlusconi.
Non c'è possibilità alcuna che possa prendere corpo un'ipotesi di coalizione tra Forza Italia e "il blocco di Prodi".
Berlusconi: "subito dopo le elezioni ho offerto la possibilità di individuare insieme al blocco guidato da Prodi soluzioni condivise e dare il via ad un governo di coalizione in attesa di nuove elezioni. Adesso non credo che esista più questa possibilità. E dunque penso che si debba andare avanti in questa contrapposizione perchè il futuro che noi vediamo per questo Paese è esattamente l'opposto di quello dei signori della sinistra".
Non è un caso che, incontrando a porte chiuse i parlamentari lombardi e le figure che rappresentano il potere amministrativo più radicato di Forza Italia nel Paese (presidente Formigoni e il sindaco Moratti), Silvio Berlusconi abbia raccontato del suo incontro, da giovanissimo, con un importante Cardinale… "Mi rivelò una verità che allora quasi non capii ma che oggi è sorprendentemente attuale.
Mi disse infatti che, nella vita, non sempre le sconfitte sono tali e che talvolta esse nascondono una vittoria certo meno evidente ma più profonda e capace di determinare gli eventi futuri!".
"Ecco – ha insistito il leader azzurro – noi ci troviamo ora in questa fase magica e dobbiamo predisporci al domani con ottimismo ed intelligenza, inseguendo e incanalando, il grande consenso di popolo che ci ha sospinto in alto, molto più in alto di come saremmo se avessimo vinto ad aprile per pochi voti".
Se non si parte da qui è difficile capire il resto del ragionamento politico di Berlusconi, il quale ha detto che vuole, e lavorerà per avere, più Forza Italia, cioè più partito organizzato e permeabile nella società; e più popolo ed energie fresche grazie all'iniziativa politico-culturale dei Circoli.
A loro il compito di innovare e attrarre il bisogno della gente comune di sentirsi utile e di contare quando si condivide l'ideale di fondo: la libertà appunto.
Berlusconi ha chiarito meglio il progetto di Federazione tra i partiti del popolo della Libertà, con Forza Italia che fa baricentro e con Lega e An (per ora) pronte a concordare una linea politica comune, per evitare i penosi balletti e i veti degli alleati dei cinque anni di governo.
È chiaro che la manifestazione romana e le patetiche tribolazioni di Prodi, hanno restituito al partito e al leader della Libertà uno smalto che i sondaggi alimentano di continuo.
In questa chiave il centrodestra ha il tempo di riorganizzarsi e aprirsi, studiando mosse calibrate che non affrettino il progetto del partito unico. Esso resta nel nostro orizzonte ma guadagna in prospettiva.
È come se Berlusconi fosse consapevole che un battesimo anticipato, darebbe vita a un soggetto in qualche modo incompleto e quindi incapace di rispondere da subito alle esigenze crescenti, alle grandi aspettative e dunque alle nostre responsabilità rispetto agli elettori.
In fondo oggi più di ieri e certamente più dell'11 aprile, con una Forza Italia in grande ripresa, riconosciuta dalla gente sotto la guida berlusconiana che si è rafforzata, sarebbe sbagliata qualunque forma di fusione troppo anticipata. Anche l'idea giusta ha bisogno dei suoi tempi.
Solo il 31% degli italiani si dichiara soddisfatto dell'operato del governo: a otto mesi dalle elezioni, si tratta del record negativo di tutta la storia della Repubblica. E il calo di consensi riguarda in particolare chi possiede titoli di studio più elevati, chi è impegnato in un'attività lavorativa, chi ha dai 35 ai 55 anni, vale a dire i settori cruciali nella vita socioeconomica del Paese. Altro che contestazioni organizzate. Lo scontento verso Prodi e i suoi ministri dilaga a destra come a sinistra e proviene trasversalmente da categorie portatrici di interessi specularmente diversi: i poliziotti, gli operai di Mirafiori, i giovani del «Motor Show» fino ai ricercatori precari dell'Università.
Proprio la varietà di queste manifestazioni e la diversità dei loro protagonisti indicano qual è il vero elemento di debolezza dell'esecutivo: la necessità di tenere conto contemporaneamente di interessi molto differenziati e spesso opposti tra loro. Questa impietosa fotografia viene fatta stamani dal Corriere della Sera che sottolinea come la situazione sia particolarmente critica nell'elettorato di centrosinistra, dove la caduta di popolarità di Prodi assume proporzioni maggiori: chi è più vicino al centro sostiene che l'azione di governo è troppo sbilanciata a sinistra, senza che vi siano stati sin qui provvedimenti volti al rilancio dell'economia Paese e, al tempo stesso, chi si sente più a sinistra obietta che, anzi, l'esecutivo non protegge a sufficienza gli interessi dei settori più deboli, come invece un vero governo di "sinistra" dovrebbe fare.
Insomma l'esecutivo scontenta un po' tutti: di qui una continua rincorsa a tamponare le proteste di questa o quella categoria, di questa o quella componente sociale. Tutto ciò dipende dall'eterogeneità dell'Unione, e da un programma "omnibus" impossibile da realizzare. Certo, se il premier dice ad ogni occasione che il lavoro "naturale" è quello a tempo indeterminato e poi il governo accentua la flessibilità dei contratti, è chiaro che i precari lo fischiano. La sinistra, ancora una volta, si scontra con le proprie utopie.
Prodi, comunque, risulta ancora oggi più popolare di quanto non lo sia il suo governo (il Professore ha il 37% di giudizi positivi), benché il calo dei suoi consensi personali sia stato nelle ultime settimane assai più intenso (meno 12%), specie nel (fondamentale) segmento degli indecisi (meno 19%). Propria la crisi di popolarità del Professore ha spinto alcuni a guardarsi attorno, per individuare un eventuale possibile successore: secondo le rilevazioni più recenti, il più popolare in questo momento è D'Alema (15% di indicazioni) seguito, quasi a pari merito da Bertinotti e Rutelli (14%) e, subito dopo, da Veltroni e Fassino.
Molti si chiedono come mai Fassino ieri abbia sentito il bisogno di sbandierare dinanzi ai piccoli imprenditori milanesi che la cosiddetta «fase due» si articolerà in cinque punti, e come mai Rutelli abbia presentato un documento sulle liberalizzazioni senza consultare i suoi alleati. La risposta è semplice: perché le contestazioni di Mirafiori e di Bologna stanno inducendo i due azionisti di maggioranza del Partito democratico a ripensare le strategie e, forse, a cambiare cavallo sull'onda dei sondaggi catastrofici.
Nella storia repubblicana non si era mai vista un'ondata di malcontento così generalizzata. Una situazione che potrebbe tradursi in un pesante rovescio di Ds e Margherita alle amministrative di primavera se non si adottassero adeguate contromisure. Il sondaggio Unicab per La7 rileva che il 56% degli italiani ora voterebbe per il centrodestra. È la sconfitta di Prodi, leader senza partito, e di una coalizione troppo ampia per produrre politiche credibili.
"Il futuro non è nella ricerca industriale", è questo lo slogan, insieme a "la ricerca in panne", con cui una cinquantina di appartenenti alla Rete nazionale dei ricercatori precari, ha contestato il ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, intervenuto al convegno ‘Il futuro è nella ricerca industriale', organizzato dal Cnr e la regione Emilia Romagna.
Striscioni e volantini alla mano, con indosso giubbotti catarifrangenti, di quelli d'obbligo in caso di incidente stradale, i ricercatori hanno interrotto il convegno, per poi leggere un loro comunicato. "Siamo qui per manifestare il nostro profondo dissenso per la politica della ricerca messa in atto finora dal Governo Prodi", hanno dichiarato i ricercatori, che lamentano una Finanziaria incoerente con il programma dell'Unione.
Mobilitazione nazionale degli studenti dell'Unione degli Universitari oggi per "cambiare la finanziaria, garantire il diritto allo studio, bloccare l'aumento delle tasse".
Sono le parole d'ordine sulle quali si ritrovano gli studenti dell'Udu che organizzano presidi, azioni simboliche e di informazione davanti agli enti per il diritto allo studio, nelle mense, nelle facoltà per denunciare "i pesanti tagli che mettono a repentaglio i servizi agli studenti. Ribadiamo - affermano - il nostro fermo rifiuto di ogni aumento delle tasse per sopperire alla carenza di finanziamenti". "Se le intenzioni espresse nel programma elettorale del governo Prodi erano di mettere la conoscenza al centro delle politiche di sviluppo, la legge Finanziaria 2007 è un'occasione sprecata".
"Questa Finanziaria non interviene sui finanziamenti generali per le Università da anni in affanno, (con un aumento diffuso delle tasse) e per effetto del decreto Bersani-Visco mette in crisi il sistema di diritto allo studio, le mense, le case dello studente".
Secondo l'Udu per rilanciare l'Università italiana "servono piani di finanziamento straordinario per l'edilizia, il reclutamento del personale e una nuova politica per il diritto allo studio che garantisca a tutti l'accesso all'Università e l'autonomia sociale degli studenti".
Per la prima volta in trent'anni la manovra non viene approvata dalle Commissioni Bilancio di Camera e Senato. E, così come è già successo a Montecitorio, anche l'assemblea di Palazzo Madama si trova da oggi a discutere un testo non discusso dalla commissione di merito.
Come previsto, quindi, anche al Senato il governo predisporrà un maxi emendamento sul quale chiedere il voto di fiducia. Lo metterà a punto il ministero dell'Economia, sentiti il relatore di maggioranza ed il presidente della Commissione, Morando e Morgando. Questa mattina, però, il testo non era ancora pronto. Il motivo del ritardo è da ricercare nelle difficoltà tecniche che sta affrontando il governo a mettere a punto un maxi emendamento che comprenda anche l'assunzione di 300 mila precari.
Una circostanza che può smorzare il sorriso sulle labbra di Diliberto. Il segretario dei Comunisti italiani si riteneva ampiamente soddisfatto della volontà politica di assumere i precari della pubblica amministrazione. Volontà politica che si era anche tradotta in una modifica già approvata dalla commissione Bilancio del Senato.
La scelta di porre il voto di fiducia, però, fa decadere tutte le modifiche introdotte in sede di commissione. Ne consegue che anche l'assunzione dei precari è appesa ad un filo. Ed il filo si è fatto sempre più sottile, viste le difficoltà tecniche individuate per dare copertura alla scelta.
Lo strumento individuato era l'utilizzazione dei "conti dormienti" (quelli dimenticati dai correntisti) nei forzieri delle banche. Si tratta di 15 miliardi di euro, un punto di pil. Che può essere utilizzato, però, una volta soltanto, il prossimo anno. Ne consegue che nel 2008 la spesa pubblica aumenterebbe di un punto di pil senza la necessaria copertura.
A questa soluzione si è aggiunta anche l'utilizzo del 5% dei dividendi girati allo Stato da parte di Eni ed Enel. La doppia soluzione (conti dormienti e dividendi) sarebbe stata approvata da Padoa Schioppa, in quanto i due flussi entrerebbero in un fondo (Fondo ammortamenti titoli) utilizzato per abbattere il debito pubblico; che, di colpo, e per pura operazione finanziaria potrebbe ridursi di un punto di pil. Ma la soluzione avrebbe incontrato qualche problema operativo: Bruxelles, infatti, non sarebbe favorevole a questo meccanismo. Così, l'operazione procede a rilento.
Alle questioni tecniche, poi, si aggiungono anche quelle personali. Non è un mistero per nessuno che fra Padoa Schioppa e Diliberto non corre buon sangue. «Non ho simpatia per i tecnocrati», ha detto il segretario dei Comunisti. Ed ora è forse arrivato il momento per Padoa Schioppa di vendicarsi.
Con un problema: se il governo non mette l'assunzione dei precari nel maxi emendamento alla finanziaria, è probabile che Diliberto ed i suoi possano tentare qualche sgambetto. Manuela Palermi, capogruppo dei Comunisti italiani al Senato, da tempo manifesta poca simpatia per la politica economica del governo, al punto da chiedere un decreto per eliminare lo scalone previdenziale. Ed ora, se non ottiene nemmeno l'assunzione dei precari, il rischio di qualche sgambetto si fa sempre più probabile. Soprattutto vista la risicata maggioranza a Palazzo Madama.
Fassino ha cominciato a prendere le distanze da Prodi. Non ne ha condiviso la reazione ai fischi di Bologna perché ha detto, pensando anche a Mirafiori, che "quando si manifesta un disagio, un politico non gira la testa dall'altra parte, occorre ascoltare le motivazioni e cercare di dare una risposta trasmettendo la necessità di quel cambio di passo di cui il Paese ha bisogno".
Intanto ieri Prodi è tornato sul Partito democratico, affermando: "Quando leggo che secondo qualcuno il Partito democratico sarebbe un salto nel buio penso che invece questo progetto è sperimentatissimo e che un salto nel buio sarebbe tornare indietro". Una forzatura che è anche un modo per mettere in difficoltà Fassino, che rischia la defezione di una parte importante dei Ds.
La stessa dichiarazione dell'attuale segretario di volere la propria conferma alla guida dei Ds può essere una mossa tattica. Apparentemente si tira fuori dalla gara per la guida del PD, ma in realtà persegue due obiettivi: o essere chiamato alla guida del nuovo partito o, più incredibilmente, essere chiamato a sostituire Prodi.
In questo secondo molto ipotetico caso, Fassino lascerebbe la guida dei Ds ad un altro esponente del partito e favorirebbe l'assunzione della guida del PD da parte di Rutelli, leader della Margherita.
È ovvio che Prodi si opporrà in tutti i modi a questo disegno di Fassino per cui, passata la Finanziaria, l'alleanza tra i due dovrebbe indebolirsi ulteriormente.
In realtà il Professore cerca di distruggere tutti i suoi potenziali concorrenti, ma nel giro di pochi mesi potrebbe trovarseli tutti contro. Da ciò il suo nervosismo e le sue reazioni.
L'adesione alla proposta di legge sul testamento biologico non soltanto non rappresenta in alcun modo una posizione contraria alla fede cristiana ed alla vera laicità, ma, anzi, indica una sorta di anticipazione lineare di un percorso comune fra laici e cattolici. Perché cos'è il Testamento biologico (o Testamento di vita o "living will")? E' una "dichiarazione anticipata di volontà" che consente a ciascuno, finché si trova nel possesso delle sue facoltà mentali, di dare disposizioni riguardo ai futuri trattamenti sanitari qualora tali facoltà fossero gravemente ridotte o annullate; disposizioni vincolanti per gli operatori sanitari e che, tuttavia, non siano in contrasto con la deontologia professionale del medico e con le realistiche previsioni di cura.
Un atto che può essere revocato dal firmatario in qualsiasi momento e che può prevedere l'indicazione di una persona di fiducia, alla quale affidare scelte che l'interessato non è più in grado di assumere. Si tratta, sia chiaro, di una semplice opportunità, della quale ci si potrà avvalere o meno, nella prospettiva, lecitissima anche per un cristiano, di restituire all'individuo la "sovranità su di sé e sul proprio corpo" e al fine di dare sostanza e forza di diritto a quel principio di autodeterminazione, già presente nella nostra Costituzione e solennemente affermato dalla Convenzione di Oviedo del 1997. Anche la Chiesa ha detto sì al testamento biologico, con precise indicazioni sia sul piano giuridico-logico, sia sul piano etico-religioso.
Il dibattito sul testamento biologico è non solo opportuno, ma, a questo punto, necessario.
Tutti i tamburi della retorica di sinistra hanno rullato, con grande strepito catodico e mediatico, per annunciare agli italiani il grande ritorno di Enzo Biagi alla Rai. Sì, l'esule tornerà a Rai Tre e avrà un suo programma. Il contratto è pronto e il giornalista afferma di gradire molto la collocazione che gli si offre: "La terza rete – si è affrettato a dichiarare – è quella che più mi assomiglia". Sarà per la faziosità politica dell'intonazione, che valse a Rai Tre l'appellativo di Telekabul?
Il programma sarà giudicato quando andrà in onda, adesso interessa soltanto sottolineare che il ritorno di Biagi è stato presentato come la riparazione di un intollerabile torto storico: si avalla la leggenda metropolitana secondo la quale il giornalista fu epurato col "diktat bulgaro" che Silvio Berlusconi avrebbe emesso, con una dichiarazione fatta appunto a Sofia, nell'aprile del 2002.
Ebbene, questa versione del caso Biagi è assolutamente falsa, inventata dalla sinistra soltanto per gridare al regime che non c'era. Una versione che Biagi ha sostenuto a lungo, per vestire i panni del martire che non è stato. E per smontare questa tesi sono sufficienti dichiarazioni che lo stesso Biagi ha fatto e che è utile ricordare per non assecondare il vizio italiano dell'interessata smemoratezza.
Agli inizi del 2001, Enzo Biagi conduceva su Rai Uno un costosissimo programma della durata di sei minuti: due miliardi l'anno di compenso per il giornalista, un ufficio privato, una redazione "dedicata", che cioè lavorava soltanto per lui, per realizzare le sue schede e le interviste. Naturalmente per Biagi, da 41 anni in Rai, c'erano soltanto lodi e riguardi, ma il programma in realtà poneva qualche problema serio ai dirigenti. Innanzitutto, perdeva ogni sera una decina di punti di audience rispetto al diretto concorrente Canale 5 (che schierava "Striscia la notizia"). L'Auditel è una brutta bestia, perché i suoi verdetti si riflettono subito sugli introiti pubblicitari.
C'era anche un problema politico, perché Biagi quando già si era in campagna elettorale parteggiava apertamente per l'avversario di Silvio Berlusconi e non perdeva occasione per attaccare il leader del centrodestra. Memorabile l'invito di Biagi a Roberto Benigni subito prima del voto, con il comico che dichiarò apertamente di parteggiare per Rutelli. "Berlusconi non mi piace – disse – Rutelli sì". Anche nella Rai di sinistra, che schierava nello stesso periodo Michele Santoro e Daniele Luttazzi, a qualcuno poteva apparire eccessivo l'attivismo fazioso di Biagi.
Le elezioni le vinse Berlusconi e agli inizi del 2002 i dirigenti Rai, preoccupati anche dalle accuse, provenienti dalla sinistra di voler aiutare Mediaset, offrirono a Biagi un'altra collocazione, per evitare che la frana di audience nella fascia pre-serale continuasse. Offrirono al giornalista un programma biennale, con dieci puntate in prima serata e venti puntate storiche da mettere in onda in seconda serata. Compenso: tre miliardi più le spese.
L'11 aprile del 2002 Biagi indisse una conferenza stampa per annunciare che accettava la nuova proposta. "Non ho problemi di orario – disse – posso fare un programma anche a mezzanotte…".
Il 18 dello stesso mese di aprile, Silvio Berlusconi, a Sofia, rispondendo a precise domande dei giornalisti, dichiarò:" Santoro, Biagi e Luttazzi hanno fatto un uso della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, criminoso".
Scoppiarono aspre polemiche, ma Biagi andò avanti col suo programma, e con la sua intonazione faziosa, fino alla scadenza naturale, 31 maggio 2002.
Fu a questo punto che Enzo Biagi decise di vestire i panni del martirio e di rifiutare l'offerta che l'11 aprile aveva detto di voler accettare. E sdegnosamente, in un'altra conferenza stampa, annunciò così il suo gran rifiuto: "Non sono un uomo per tutte le stagioni".
Tuttavia, la Rai gli fece un'altra offerta, quella di riproporre sulla terza rete "Il fatto", lo stesso programma che aveva realizzato per Rai Uno. Nessuna censura, massima libertà, sarebbe stato il Biagi di sempre. Ma una lettera del legale del giornalista notificò alla Rai il rifiuto di questa seconda offerta. Probabilmente non piaceva la collocazione oraria ( ra le 18,53 e la messa in onda del tg delle 19), oppure veniva giudicato scarso il compenso (inferiore a quello pagato per i sei minuti su Rai Uno); o, forse, allora la rete a Biagi non sembrava poi tanto "somigliante". E comunque il giornalista veniva presentato come un epurato, un'icona della sinistra che non si fermava davanti a nessuna menzogna per sostenere che quello del centrodestra era un "regime liberticida".
In realtà, ripetiamo, l'epurazione non ci fu mai ed è stato lo stesso Biagi a dichiararlo. Si concluse felicemente, infatti, la trattativa fra il giornalista e la Rai. A Biagi andò una buonuscita di un miliardo e mezzo; la separazione, come risulta dall'accordo ufficiale, fu "effettuata con il pieno consenso dell'interessato e con di lui piena soddisfazione". Ancora più in là della fredda attestazione in lingua burocratica, andò lo stesso Biagi che il 3 gennaio 2003 dichiarò all'Ansa: "Non sono stato buttato fuori, al contrario ho raggiunto di mia iniziativa un accordo pienamente soddisfacente che gratifica sotto tutti i profili, morali e materiali, i miei 41 anni dedicati alla Rai".
Questi i fatti, nella loro essenzialità. Ma la leggenda metropolitana dell'epurazione procede sulle ali della propaganda menzognera. E Biagi posa ancora a martire. Adesso gli piace anche Rai Tre.