La confusione che regna a sinistra, nella sinistra che governa l'Italia e soffoca gli italiani a forza di tasse, non giustifica i palesi tentativi di destabilizzazione del centrodestra che molti giornali inseguono. Con l'affanno di chi vorrebbe almeno pareggiare il misero bilancio di Prodi e della sua maggioranza incerta su tutto tranne che sulla forte e riconoscibile leadership dell'estrema sinistra.
A ben vedere anche la polemica Bondi-Montezemolo, riconducibile ad una critica politica rispetto a certe affermazioni di sapore populista e genericamente anti partiti del leader di Confindustria, è stata montata (e smontata) ad arte.
Voler vedere ad ogni costo dietro le parole del coordinatore azzurro l'input di Berlusconi serviva a fare di un commento, per quanto salace e tempestivo, un caso appunto. Sono bastate poche ore - ma altre centinaia di migliaia di copie nelle edicole - per ribaltare la frittata. Occorreva infatti tenere aperta una polemica che bilanciasse lo scandalo di un governo che non sa quali riforme fare, che annuncia solo rinvii e che sulle pensioni - la riforma delle riforme - ha già deciso di rimandare tutto dopo il voto di Primavera!
Naturalmente il leader di Forza Italia e della Casa delle Libertà non era ispiratore di alcun che: lo ha confermato lo stesso Sandro Bondi all'indomani della notizia enfatizzata da alcuni quotidiani; lo ha scritto Il Giornale e oggi lo ripetono diversi esponenti di rilievo del partito e dei gruppi parlamentari, a cominciare dal portavoce del presidente Berlusconi, Paolo Bonaiuti.
Sarà forse il caso di provare a leggere questa "panna montata" che trova enfasi soprattutto in alcuni giornali di cui Montezemolo è azionista o comunque figura di riferimento, con una punta di malizia. Come? Per esempio leggendo in controluce le vicende di questi mesi deludenti di governo, quel governo che in qualche modo i vertici di viale dell'Astronomia avevano salutato con un certo favore…
Berlusconi, nell'efficace orazione di Vicenza, aveva già mostrato che il "re era nudo". La platea gli aveva dato ragione con un applauso senza fine; Montezemolo e Diego Della Valle assai meno. Ma oggi lo scenario è mutato, quasi stravolto. E i primi a fiutare il vento e a temere che la delusione di un governo in affanno si trasformi in una mannaia sulle imprese, sono proprio gli industriali. Tanto è vero che, di recente, i rapporti tra il gotha confindustriale e il leader dell'opposizione si sono infittiti ed in queste stesse ore si parla e si scrive di un possibile dietrofront di Diego Della Valle: un personaggio che alla vigilia delle elezioni ostentava platealmente il proprio dissenso nei confronti dell'allora presidente del Consiglio.
Non sappiamo quanto questa ipotesi sia vera ma è certamente verosimile. Forse però questo riavvicinamento, questa possibile nuova sintonia tra leader politici e vertici industriali e confindustriali, non è gradita ai registi di certa informazione. Costoro puntano, non da oggi, ad una divisione netta tra potere imprenditoriale e potere politico, a meno che quest'ultimo non goda del marchio Doc, cioè quello della sinistra. E allora i campioni della finanza, come l'ing. De Benedetti o il più intoccabile tra i banchieri, come Bazoli, possono fare di tutto e di più! E i loro giornali, o i giornali vicini a loro, ne daranno notizia con risalto ma senza mai menare scandalo come invece si fa per un commento politico, rilasciato da un politico su uno di loro…
Rutelli s'è messo d'impegno a sostenere Prodi come la corda sostiene l'impiccato. Nella sua lettera aperta a Repubblica si inchina alla leadership prodiana, riconoscendola dotata del carisma richiesto ai capi capaci di miracoli. In pratica, inchioda il Premier al mandato "di attuare l'agenda per la crescita economica", chiesto e ottenuto a Caserta.
Tutte le componenti dell'Unione (democratico-riformiste, massimaliste, o prive di denominazione d'origine), hanno accettato di mettere nel segno di Prodi "la maggior parte della legislatura". Tutti suoi gli allori mietuti, tutta sua anche la responsabilità degli insuccessi. A cominciare dalla catastrofe prevista per i riformisti nelle amministrative di primavera. Perché, come già sottolineato da Fassino, non c'è dubbio che il giudizio sul governo guiderà le scelte degli elettori per le amministrazioni locali.
E' un fardello ben pesante, quello che Rutelli carica sulle spalle del Premier. Sua la responsabilità di "tenere la barra riformatrice". Cosa "assolutamente indispensabile" , perché questo governo "non sarà ricordato per essere rimasto a galla, ma per le riforme che avrà realizzato nella sua navigazione". Nessuna concessione alla retorica dell'operare "insieme", cara a Prodi quando si tratta di spalmare sui suoi seguaci la responsabilità per i danni collaterali delle scelte che orgogliosamente rivendica in esclusiva per sé.
Ben venga la "super-lenzuolata di riforme" annunciata da Bersani: troverà un Rutelli plaudente. Non c'è scelta riformatrice che non possa fare assegnamento sulla leale condivisione della componente riformista. Prodi, dunque, "ha in mano sua la chiave per riuscire, con tutto il nostro sostegno: deve fare le riforme". Chiaro che Rutelli, come si dice delle belle donne, non può dare a Prodi più di quello che ha. Non può impegnarsi anche a nome della sinistra massimalista.
Spetta unicamente a Prodi la parte del federatore, capace di ricondurre a unità d'azione la varietà dei gusti dei coalizzati. Affar suo trovare i modi per mantenere unita la coalizione sulla via delle riforme e corrispondere alle aspettative di raccolta del consenso elettorale dei partiti che gli hanno dato fiducia. E' il ragionamento di chi aspetta il Premier al varco del primo rendiconto, ben deciso a non fargli sconti.
Con una maggioranza terrorizzata dalla prospettiva di andare a casa alla prime seria verifica, Romano Prodi detta legge e riduce ogni questione a uno scontro tra destra e sinistra, impedendo qualsiasi opportunità di dialogo che gli farebbe perdere il controllo su qualche componente dell'Unione.
Chiunque voglia assumere un profilo robusto e voglia condizionarlo, viene assalito da Prodi: così è toccato a Fassino e Rutelli per la "fase 2" o fase delle riforme, che Prodi vede come un'occasione di dialogo tra maggioranza e opposizione che lo metterebbe fuori gioco.
Per questo motivo egli riduce sempre qualsiasi tema a uno scontro con Berlusconi, il fantasma che tiene unite l'ala estremista e l'ala moderata dell'Unione.
Così Prodi ha bruciato il dialogo sulla riforma elettorale, assegnando a Chiti (e al governo, cioè a se stesso) il ruolo di gestore della questione, ben sapendo che un barlume si avrà dopo il voto di maggio quando, fatti i conti con le urne, i partiti perfezioneranno i loro obiettivi.
Comunque la linea di Prodi è di controllare e di distruggere ciò che non può controllare.
Ennesima conferma: il Partito democratico, visto che non potrà controllarlo, sta facendo di tutto per farlo fallire, soprattutto mortificando Fassino e Rutelli.
A Caserta, Prodi ha fatto propria la gestione delle liberalizzazioni, togliendo la "cabina di regia" a Rutelli e Bersani: uno schiaffo ai riformisti dell'Unione.
A Bruxelles, che rinnova in modo pressante l'invito a riformare le pensioni, Prodi risponde con arroganza "sappiamo noi cosa fare": uno schiaffo a quelle istituzioni europee che Prodi ha sempre esaltato e che guidò come presidente della Commissione.
A Washington, sulla questione dell'ampliamento della base di Vicenza, risponde "Decido io": un doppio schiaffo, uno ai componenti della propria maggioranza, e l'altro agli Usa che vengono declassati a spettatori di una decisione autocratica. In tal modo Prodi non dà soddisfazione ai filo-americani dell'Unione e non costringe la sinistra ad abbozzare.
Sotto il velo politico, infine, Prodi cerca di assicurarsi quanto più potere economico possibile comprando il silenzio dei sindacati e dell'ala sinistra della coalizione mediante la mortificazione dei riformisti ai quali deve bastare il semplice fatto di stare al potere, in vetrina.
Difficile che Prodi venga destabilizzato da sinistra: il più pericoloso sembra Di Pietro, mentre si manifestano qua e là delle ribellioni: sul piano politico, Di Pietro, Capezzone, Boselli, Amato, Mastella cominciano a costituire una pattuglia disomogenea ma significativa.
Colpisce di più, tuttavia, l'inizio di sgretolamento dei Ds, la cui mancata autocritica, tra il 1989 e il 1994, è il vero macigno sulla strada del rinnovamento italiano.
Il governo Prodi vuole tagliare le pensioni. Ma non lo dice. Camuffa la volontà con la discussione - apparentemente tecnica - sulla revisione dei coefficienti. Ma rivedere i coefficienti di rivalutazione previdenziale, vuol dire appunto ridurre l'assegno di chi va a riposo.
Esistono due metodi per dare "stabilità" alla spesa pensionistica: aumentare l'età di quando si lascia il lavoro (e l'Italia detiene il record europeo dei riposi anticipati) o ridurre l'assegno dei futuri pensionati.
Il primo metodo è quello seguito in tutto il mondo. Il secondo è quello che vogliono seguire Prodi e Padoa Schioppa.
Nella precedente legislatura, il governo Berlusconi, con la riforma Tremonti-Maroni, introdusse un aumento dell'età pensionabile: tutti a riposo a 60 anni a partire dal 1° gennaio 2008, con 35 anni di contributi. Senza intaccare l'assegno che si sarebbe ricevuto. Non solo. Per attenuare l'effetto del "gradino" (oggi si va a riposo con 57 anni e 35 anni di contributi), introdusse un super bonus che lasciava nelle tasche del lavoratore che aveva maturato l'età di andare a riposo circa il 30% altrimenti prelevato dal Fisco.
Questo schema previdenziale venne ampiamente apprezzato dall'Unione europea, dall'Ocse, e dal Fondo monetario. Garantiva stabilità finanziaria alla spesa previdenziale; ed introduceva il meccanismo della pensione integrativa, destinata - nel lungo periodo - a compensare la riduzione della pensione obbligatoria: riduzione data dal calo dei contributi.
Per il governo Prodi quella riforma che non toccava l'assegno previdenziale non esiste. Per Padoa Schioppa esiste soltanto la riforma Dini del 1995. Quella riforma, che introdusse il principio che il calcolo dell'assegno veniva fatto sui contributi versati e non sulla retribuzione, prevedeva che ogni dieci anni dovevano essere rivisti i coefficienti previdenziali. La revisione era dettata dalla circostanza che agiva in un sistema misto: retributivo e contributivo.
I sindacati accettarono la revisione dei coefficienti, che in sostanza riduce gli assegni dei futuri pensionati, proprio perché il check sarebbe avvenuto dopo dieci anni: e nel lungo periodo - come dicono gli economisti - "siamo tutti morti".
Oggi, però, quei dieci anni sono arrivati. E quindi, il governo è autorizzato - in base a quella legge - a ridurre i coefficienti e, quindi, le pensioni future.
Prodi, dunque, pur di mandare a riposo lavoratori di 57 anni, taglia loro l'assegno, attraverso la revisione dei coefficienti.
Una scelta negativa, non solo per un aspetto di equità sociale (pensionati sempre più poveri), ma anche per conseguenze macroeconomiche perché ridurre le pensioni vuol dire ridurre il potere d'acquisto di una fascia di popolazione sempre più numerosa. Con gravi conseguenze sui consumi, quindi sul pil.
Per queste ragioni, Almunia è preoccupato della piega presa dal dibattito italiano sulla riforma delle pensioni. La strada intrapresa da Prodi e Padoa Schioppa è negativa sotto un profilo sociale (pensionati più poveri), economico (ha effetti negativi sulla crescita), di stabilità della finanza pubblica (non interviene sulle cause strutturali della spesa, evitando di aumentare l'età pensionabile).
Questa volta Prodi e D'Alema stanno scherzando col fuoco: l'accelerazione di stampo levantino - e antiamericano -impressa alla nostra politica estera rischia infatti di portare l'Italia, dopo sessant'anni, in rotta di collisione col suo principale alleato. Intendiamoci: non è la prima volta che la diplomazia della Farnesina porta avanti politiche distanti dalle posizioni statunitensi, soprattutto in relazione ai rapporti col mondo arabo, ma i ministri degli esteri democristiani erano molto abili a non oltrepassare mai il limite e a non ledere dunque gli interessi che Washington giudicava imprescindibili.
Il ministro degli Esteri D'Alema sembra aver imboccato la strada dello scontro frontale con la Casa Bianca, attraverso un'escalation di critiche senza precedenti alla superpotenza americana.
Il primo affondo risale all'ottobre scorso, quando il governo italiano scelse di non appoggiare il Guatemala contro il Venezuela di Chavez alla votazione per un biennio di membership non permanente al Consiglio di Sicurezza dell'Onu.
Niente più di una schermaglia, ma poi la Farnesina ha fatto emergere una raffica di divergenze ben più serie, dall'allargamento della base di Aviano al blitz statunitense in Somalia contro Al Qaeda fino al nuovo piano di Bush sull'Iraq e alla campagna contro la pena di morte.
L'eventuale stop all'allargamento della base di Vicenza imporrebbe all'amministrazione Usa il ricorso a onerosi piani alternativi sullo scacchiere europeo, con l'inevitabile conseguenza di una gelata nei rapporti fra America e Italia e la scelta da parte di Washington di una parntership più sicura e affidabile in Europa, rappresentata dalla Germania della Cancelliera Merkel.
Non dimentichiamo che fu Bush ad alzare la voce per impedire che la Germania diventasse un membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu a discapito dell'Italia. Ma ora, con uno scenario così cambiato, il presidente Usa potrebbe dare semaforo verde alla Merkel, che non a caso proprio in queste settimane ha rilanciato la sua battaglia.
L'allontanamento dall'orbita americana, poi, metterebbe l'Italia in una posizione subordinata per quanto riguarda l'assegnazione di posti di rilievo nelle missioni di pace e all'interno delle grandi organizzazioni internazionali.
Bonaiuti: la sinistra è antiamericana
"Purtroppo la sinistra italiana è legata a due vecchi chiodi fissi: in politica estera è da sempre e convintamente antiamericana; in politica interna credono di risolvere tutto con una scarica di tasse sui cittadini".
Lo afferma Paolo Bonaiuti, portavoce del presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi.
Senza bussola, senza vergogna, senza strategia. Il governo di Romano Prodi e la maggioranza che lo sostiene a corrente alternata hanno rivelato di colpo punte di anti-europeismo che dovrebbero allarmare gli italiani e che sicuramente preoccupano i nostri partner nell'Unione.
È bastato che il commissario dall'economia Joaquin Almunia ribadisse la necessità per l'Italia di procedere alla riforma previdenziale perché si levassero dall'Unione - soprattutto dalla sua ala sinistra estrema - reazione sprezzanti.
Il premier, col livore astioso che segna la sua confusa maniera di comunicare, ha risposto ad Almunia: "Sappiamo cosa fare".
Più aspri e diretti i leader della sinistra radicale. Fausto Bertinotti all'invito a riformare le pensioni ha risposto così: "La penalizzazione degli operai sarebbe inammissibile. C'è l'Unione Europea, ma c'è anche Mirafiori", non si possono ignorare, cioè, le critiche degli italiani. Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, ha sostenuto che il commissario Almunia si sia "già caratterizzato nel corso di questi mesi, anche durante la discussione sulla Finanziaria come attore del dibattito politico italiano, travalicando gli stessi elementi della sua composizione".
Oltre che con gli alleati di oltre Atlantico, dunque, si preannuncia una frattura anche con l'Europa. Il terrorismo psicologico sul rigore e sulla necessità si rispettare i patti andava bene quando si è trattato di spremere cittadini e imprese con la finanziaria, adesso non serve più e l'Europa per i signori dell'Unione diventa fonte di disagio politico.
La menzogna dei buoni europei. Eppure c'è stato un tempo in cui il centrosinistra tirava in ballo l'Europa, i suoi precetti e le sue direttive un giorno si e l'altro pure. Quando era ancora presidente della Commissione europea Romano Prodi si preparava alla campagna elettorale del 2006 utilizzando scorrettamente la sua posizione, tanto da attirare le critiche di autorevoli esponenti dell'europarlamento.
In quel periodo il Professore si atteggiava ad europeista oltranzista e sosteneva che il governo Berlusconi ci stava portando fuori dall'Ue.
Nulla di più falso, a il costante richiamo dell'allora opposizione alla vocazione europea serviva per imbastire, con la complicità dei gruppi di sinistra nell'europarlamento, continui e grossolani processi al governo italiano. Superato nel modo che sappiamo lo scoglio delle elezioni dell'aprile 2006, l'Europa non serve più. Questo governo ci allontana sempre di più dai nostri tradizionali alleati e partner.
Innanzitutto il minor nervosismo della Lega dopo le rassicurazioni sul referendum che ha ricevuto da Silvio Berlusconi. Poi l'Udc che appare meno intenzionata a ricercare un accordo sulla legge elettorale con un rapporto privilegiato con la maggioranza di governo, in modo da rendere possibile ancora la politica dei due forni. Infine Alleanza Nazionale che ha ammorbidito i toni sul referendum, con la disponibilità a ricercare un'intesa parlamentare su una modifica condivisa della legge elettorale.
Questo clima agevola la preparazione delle prossime elezioni amministrative, che possono diventare l'occasione di una rivincita dell'opposizione e di una crisi del già fragile equilibrio di governo.
Questo nuovo quadro è stato reso possibile anche dall'iniziativa di Forza Italia che ha sparigliato le carte, sia del governo che delle altre forze politiche disposte a muoversi senza un raccordo di coalizione. Come la stessa Lega che, soprattutto con le dichiarazioni di Maroni, si dichiarava disposta a trovare un accordo sul federalismo.
Ora il ministro per le riforme conosce i punti di vista di tutti i partiti ed è in grado di proporre una eventuale riforma della legge elettorale che non abbia l'obiettivo di rafforzare la maggioranza di governo e nello stesso tempo di dividere l'opposizione.
Come ha ammesso lo stesso Chiti nel corso dell'incontro con la delegazione di Forza Italia, due sono le ipotesi su cui si sta lavorando e sulle quali si è registrato un'ampia convergenza.
La prima è il miglioramento dell'attuale legge elettorale secondo le cinque proposte formulate dal professor D'Alimonte.
La seconda guarda al modello elettorale in vigore per le elezioni regionali, il cosiddetto "tatarellum". La preferenza di Forza Italia va per l'attuale legge elettorale, approvata nella scorsa legislatura per iniziativa soprattutto dell'Udc. Le modifiche indicate consentirebbero di ridurre la frammentazione partitica (grazie al lieve innalzamento della soglia di sbarramento) e di rafforzare la governabilità (attraverso il cambiamento del premio di maggioranza al Senato attualmente attribuito a livello regionale e non nazionale come quello della Camera).
Il modello regionale presenta invece qualche problema in più, soprattutto perché comporta modifiche costituzionali come l'indicazione del premier. L'attuale sistema regionale inoltre prevede un premio di maggioranza con lista bloccata e circoscrizioni elettorali con preferenza per l'elezione della restante parte dei parlamentari.
A questo punto sarebbe auspicabile un vertice dei partiti della Casa delle Libertà per cercare di presentarsi al tavolo del governo con una proposta condivisa.
Un uso strumentale della prescrizione ha trasformato questo istituto da elemento a tutela dell'imputato (non si può tenere una persona sulla graticola per vent'anni) a mezzo per farla diventare una macchia perenne, anche di fronte a processi chiaramente infondati e a palesi prove di innocenza. La Procura di Milano e alcuni giudici del capoluogo lombardo hanno estremizzato tutto ciò nei confronti di Silvio Berlusconi. Intanto va chiarito che il decorrere della prescrizione non solo è a tutela dell'imputato ma rappresenta la prova dell'inerzia o della lentezza della magistratura. In alcuni casi questa lentezza è fisiologica, vista la mole di lavoro che spesso attanaglia la macchina giudiziaria, in altri e ben identificabili casi essa viene usata con maliziosa furbizia, specie quando alcuni inquirenti mirano più alla condanna morale dell'imputato che alla condanna penale, sapendo di non avere in mano gli strumenti per arrivare a quest'ultima. E' quello che è stato fatto nei confronti di Berlusconi, il quale nonostante l'incredibile persecuzione giudiziaria cui è stato sottoposto, è sempre stato assolto con sentenze definitive. I forcaioli della prima ora amano snocciolare tutte le sentenze assolutorie per prescrizione, ma esse denotano colpe della magistratura, non dell'imputato. Diciamo pure che in alcuni processi determinati magistrati ci hanno scommesso ed hanno preso sonore batoste, perché in quei casi il leader di Forza Italia e della Cdl ha sempre vinto nel merito. A quel punto, i pm hanno usato anche la tattica della dilazione: far galleggiare per anni un processo in attesa che arrivi la prescrizione e con essa la persecuzione morale. Anche aprire e portare avanti con testardaggine un'inchiesta a 10-15 anni dal presunto reato, cioè in prossimità della prescrizione, rappresenta un tentativo di mettere alla gogna una persona ben sapendo che mai e poi mai il processo vedrà la fine. Ed è quello che è stato fatto nei confronti di Berlusconi anche per il processo sui diritti televisivi Mediaset, come in quella sulla presunta corruzione dell'avvocato Mills.
Si va avanti, si procede con il rinvio a giudizio, con l'obiettivo che se ne parli sia in occasione dei provvedimenti giudiziari (per esempio proprio l'ordinanza di rinvio a giudizio), sia - polemicamente - quando viene dichiarata la prescrizione.
E, infine, ogni giustizialista sarà pronto a ricordare tutti i processi in cui non c'è stata sentenza di merito ma di prescrizione, quindi di colpevolezza. Capovolgendo così un istituto nato per proteggere e non per massacrare a livello mediatico una persona. E per questo il maggiore responsabile è una parte ben nota della magistratura.
A chi gli rivolge una critica, un appello o anche solo un saluto, il presidente del Consiglio risponde ormai con una formula standard: "Io lavoro per restare cinque anni". La prima volta, tutti hanno detto: bravo, ha ragione. La seconda, molti si sono chiesti: questo l'ha già detto, perché ce lo ridice? Alla fine, l'ossessiva insistenza di Prodi sulla durata del suo mandato ha fatto nascere il sospetto - ormai diffuso - che questa formula nasconda un messaggio chiaro ai suoi alleati che, per una ragione o per l'altra, si mostrano insoddisfatti di quello che fa il suo governo: io ormai sto qui e per cinque anni non potete cacciarmi.
Può darsi che il metodo di ripetere la scadenza dell'ingaggio per evitare il licenziamento funzioni. Può darsi che anche alla politica si applichino ormai le regole del calcio. Può darsi. Però sarebbe opportuno che qualcuno rivelasse a Prodi un dettaglio fondamentale: ai presidenti del Consiglio non si applica il contratto dei calciatori, che possono essere ceduti solo con il loro consenso, ma quello degli allenatori di calcio: finché vincono sono degli eroi, ma dopo tre sconfitte salta la panchina.
Agli studenti iraniani, artefici delle ripetute proteste contro Ahmadinejad, sono state inflitte pene detentive pesanti, contornate dall'ordinanza di chiusura di diverse pubblicazioni studentesche.
"Per favore, usate la vostra libertà per promuovere la nostra"; questa supplica di Auung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel '91 e attualmente ancora detenuta politica in Birmania, può essere innalzata ad obiettivo fondante di una politica realmente liberale per la difesa dei diritti umani nei Paesi oppressi dalle dittature.
Fausto Bertinotti, al Tg1 di ieri sera, ha affermato che "occorre superare le categorie di antiamericanismo e filoamericanismo, e lavorare per una politica di pace". In questa frase c'è racchiusa tutta la sintesi di una politica di governo che sta delineando appieno tutte le caratteristiche "realiste": non c'è un fondamento politico di difesa della libertà globale, ma soltanto l'effimera ricerca di una sicurezza interna nel breve periodo. In tutti questi mesi, la sinistra ha cercato di spogliarsi della veste antiamericana ed anti israeliana propinandoci la favola di un dissenso da politiche di governo ben distinto dalla contrapposizione pregiudiziale verso un popolo. Questa è un'ipocrisia che tradisce la mancanza di volontà nell'affrontare il problema. Perché, fino a prova contraria, ciò che deve affrontare l'Occidente è una minaccia ideologica, che odia l'Occidente in quanto è tale, e non in quanto si comporta in un certo modo.
Nella nostra concezione politica l'approccio "terzomondista", che dà all'Occidente la colpa di tutti i mali dei Paesi in via di sviluppo oppressi da dittature, è dannoso quanto inutile. La guerra al terrorismo e una forte, e, per certi aspetti "antipolitica", contrapposizione culturale ad ogni forma di regime sono stati e sono gli unici atti di rottura dolorosamente necessari per portare a quei popoli la libertà e la democrazia.
E' chiaro che i nostri pari età iraniani sono, oggi, l'esempio più lampante di quanto questi popoli abbiano bisogno della nostra cultura e dei nostri valori. A dicembre abbiamo già espresso alle autorità della diplomazia iraniana in Italia la nostra intenzione di formare una delegazione che incontri, in un vero e proprio gesto di "adozione politica", gli studenti i quali, in questi mesi, stanno conducendo la loro battaglia di libertà.
Oggi ci sentiamo di rilanciare la nostra volontà certi che, se si parla di globalizzazione, questa debba poggiare le basi proprio sull'intenzione delle giovani di generazioni di crescere autonome, e non guidate dall'ideologia.