Per mettere i conti in linea con il Patto di stabilità europeo, sarebbe bastata una manovra da 12 miliardi di euro (lo 0,8% del pil). Per favorire lo sviluppo – con lo schema di Prodi del taglio del cuneo fiscale – sarebbe dovuta salire a 15 miliardi, cioè un punto di pil. In questo modo, nel 2007, il deficit sarebbe sceso al 2,8%. La finanziaria in discussione alla Camera è salita a 40 miliardi, cioè tre volte il necessario.
E tutta concentrata sull'aumento delle tasse. I tagli alla spesa, infatti, sono minimi, realizzati in modo rozzo e incidono sulla pelle dei cittadini, compresi quelli che hanno votato a sinistra: come nel caso della scuola. O frutto di artifici contabili, come nel caso del Tfr.
Per queste ragioni, è difficilmente emendabile da parte dell'opposizione. I saldi di bilancio sono così legati alle tasse, che se qualcuno tentasse di ridurle dovrebbe fare i conti con i problemi legati alla copertura. È bene che sia la maggioranza a doverli risolvere. Altrimenti, l'opposizione verrebbe chiamata a ruoli di collaborazione e condivisione degli obbiettivi che, inevitabilmente, non possono essere apprezzati né nell'impostazione, né nelle scelte adottate per raggiungerli.
Sarebbe un modo per coprire i loro errori.
Ogni anno in Italia si crea un flusso di Tfr pari a 13 miliardi di euro, il governo stima che circa la metà possa finire nelle casse dell'Inps in un fondo destinato a finanziare investimenti. Con un particolare. La norma della finanziaria che prevede l'operazione, dice espressamente che per arrivare a 6 miliardi si debba calcolare il 50% del Tfr "inoptato"; cioè quello che i lavoratori dipendenti non decidono di versare a fondi pensione privati. Da una stima del governo (criticata dal Servizio di Bilancio della Camera), quindi, nessun lavoratore opterà per i fondi pensione; altrimenti non si arriva a 6 miliardi. È chiaramente una stima che non trova riscontri nella realtà. Con la conseguenza che le cifre della manovra sono gonfiate da artifici contabili e da tasse.
Per queste ragioni, la finanziaria è difficilmente emendabile.
Il "Promessor Prodi" – come lo ha definito un settimanale - è stato trovato con le mani anche nel barattolo della scuola. Presentando la legge finanziaria, aveva garantito l'assunzione di 150mila precari, ma si era "dimenticato" di aggiungere che la sua manovra economica porterà al licenziamento di 50 mila tra insegnanti e personale non docente. Sindacati, Verdi, Udeur e Rifondazione sono già scesi in trincea, e i Comunisti minacciano di far mancare il proprio consenso in Parlamento.
"Tagli e cicoria" per la scuola pubblica, è stata la laconica battuta della Cgil. La Finanziaria non solo prevede questi drastici tagli, ma introduce un meccanismo di recupero per il quale se i risparmi non dovessero arrivare entro i termini previsti verrà ridotta ulteriormente la spesa corrente. I sindacati avevano chiesto una Finanziaria di investimenti, ma Prodi e Padoa Schioppa hanno percorso la strada esattamente opposta.
Il governo dell'Unione, insomma, sta tornando all'antico: è bene ricordare, infatti, che dall'85 al 2000 mai una lira era stata aggiunta agli stanziamenti per il bilancio dell'Istruzione, mentre dal 2001 al 2006, col governo di centrodestra e la Moratti ministro, le risorse finanziarie destinate alla scuola sono cresciute complessivamente di 3.456 milioni di euro. Nell'ultima Finanziaria di Berlusconi la scuola ha ottenuto 110 milioni di euro, oltre al 20% d'incremento sul bilancio. La Casa delle Libertà ha razionalizzato la spesa, ma ha sempre reinvestito nell'Istruzione i risparmi che si effettuavano. La sinistra invece, anziché intervenire su una più moderna organizzazione dei percorsi di studio, ha instaurato un sistema burocratico che penalizzerà tutti: dirigenti, docenti, studenti e famiglie. È chiaro che quella del governo Prodi per la scuola è una strategia del gambero: togliere qualità all'offerta formativa tornando, appunto, al passato.
Ma cinquantamila posti di lavoro in meno sono un prezzo troppo caro da far pagare all'istruzione ed al sistema scolastico italiano. L'innalzamento del rapporto alunni-classe, la riduzione a priori delle bocciature, la diminuzione delle ore di lezione negli istituti professionali, e quindi un'inevitabile dequalificazione della scuola nel suo insieme, non sono certo le ricette promesse agli elettori nel programma dell'Unione. I tagli, se attuati nella loro interezza, metterebbero a rischio il funzionamento di tutto il sistema scolastico. Prodi aveva promesso di investire maggiori risorse su scuola e ricerca, cioè sui settori che rappresentano il futuro del nostro Paese, indicandoli come priorità assolute, e questo è invece il risultato.
È stata cancellata l'opportunità per le famiglie di iscrivere anticipatamente i figli alla scuola materna e alla scuola elementare.
È stata cancellata la figura del "tutor" che aveva la funzione di raccordare i rapporti tra scuola e famiglia.
È stato cancellato il portfolio che aveva la funzione di segnalare tutte le esperienze scolastiche ed extrascolastiche che avevano qualificato la vita dell'alunno durante il suo percorso educativo. Che significa tutto questo? La risposta è semplice: se in Finanziaria il capitolo dedicato alla scuola diminuisce, ciò sta a significare che si va ad intervenire nell'ambito dell'offerta e della qualità formativa. Saranno penalizzati gli studenti e le loro famiglie oltre che la professionalità dei docenti perché con questi "tagli selettivi" ci saranno meno investimenti.
Non lo diciamo noi ma tutti i quotidiani italiani: la Finanziaria divide il governo, l'ennesimo scontro tra Prodi e la sinistra radicale, sostenuta dai sindacati, è sui fondi destinati alla scuola e la minaccia di 50 mila licenziamenti.
A conferma ecco una panoramica dei titoli che campeggiano oggi sulle prime pagine dei principali quotidiani italiani.
Le critiche ai provvedimenti previsti nella Finanziaria sulla scuola vengono non solo dall'opposizione, ma anche – e soprattutto – dalla stessa sinistra. Non è un caso che oggi Il Manifesto spari alzo zero su Prodi e Padoa Schioppa con un commento in prima pagina del direttore, Gabriele Polo.
Dai numeri della Finanziaria, raccolti nella relazione tecnica che l'accompagna, emerge "una vocazione suicida di chi ha costruito una manovra con spirito da piccolo ragioniere".
Sotto la voce risparmi, è previsto un taglio di 50mila insegnanti "come effetto di due geniali misure: l'aumento del numero degli alunni per ciascuna classe e la diminuzione delle bocciature.
La cosa – riflette Il Manifesto - deve essere sembrata quasi irrilevante ai tecnici del ministero dell'Economia: mezzo alunno in più per classe non sembra una tragedia, 20mila bocciati in meno può essere perfino un positivo auspicio.
Meno soddisfatti sono gli insegnanti che dovranno sloggiare in qualche modo. Ma cosa non si fa per il bene comune (...)".
"Il problema è che così non si fa affatto il bene comune. Si avviliscono importanti professionalità, si mina alle fondamenta l'edificio della formazione e si ripudia la centralità dell'istruzione pubblica, visto che accanto a quei tagli crescono i finanziamenti alle scuole private (da 100 a 150 milioni di euro, forse in coerenza con il crescente peso dei ‘teodem' dentro la compagine di governo e nel futuro Partito democratico)".
"Quando il governo avrà trovato un mezzo alunno in più da piazzare in ciascuna classe - continua Il Manifesto - avremo aule più affollate, insegnanti meno efficienti, un impianto scolastico che farà un altro passo indietro nella classifica che misura la qualità della formazione. Un vero capolavoro della maggioranza che, prima delle elezioni, aveva giustamente denunciato il degrado della nostra scuola e promesso di porvi rimedio. Verrebbe la voglia di mandarli al diavolo anche in presenza dello spettro di Berlusconi". Con le sue scelte il governo potrebbe quindi riuscire nel "miracolo" di creare un "fronte dell'insoddisfazione" che va dal gioielliere all'insegnante, con prospettiva di scontentare presto anche operai, impiegati e sindacati.
"Sarebbe l'indegna conclusione delle manovre ragionieristiche di chi non ha voluto fare una scelta netta: a forza di non volersi scontrare con la parte più ricca della società, si finisce per scontentare tutti e rimanere soli.
E - avverte Il Manifesto - potrebbe essere anche la fine del governo".
Non gliene va bene una. I 4 milioni 200mila e rotti partecipanti alle primarie dell'Ulivo certificavano la legittimità del suo premierato, ed ecco che la misteriosa sparizione degli elenchi nominativi fa traballare il trono. Peggio, da parte diessina ci si premura di far sapere che il dato dei quattro milioni era una balla pazzesca. Una rana gonfiata con gli estrogeni della propaganda elettorale per creare l'illusione del vitello grasso da sacrificare al mito di Prodi.
Una menzogna tra tante. Come le proteste indignate per la previsione che la sinistra al governo avrebbe aumentato le tasse, falsificate dalla Finanziaria che le aumenta. Come l'eredità del buco di bilancio, inventata di sana pianta per fornire un alibi alla manovra. Come i giuramenti inverosimili di estraneità all'imbroglio Telecom. Come le istruzioni impartite al contingente inviato in Libano, perché tenga in non cale le regole d'ingaggio Onu su controllo e repressione dell'afflusso di armi agli hezbollah. Come i demenziali confronti degli indici di lealtà del lavoro autonomo rispetto a quello dipendente nella dichiarazione dei redditi, propinati irresponsabilmente per canalizzare odio sociale a sostegno della Finanziaria.
Pochi mesi sono passati dalle elezioni, e Prodi annaspa nel vittimismo. Protesta che l'informazione – tranne l'Unità – è tutta contro di lui. Criminalizza il dissenso di massa dalla Finanziaria delle tasse, come dovuto alla rivolta di evasori impenitenti contro il castigamatti. Si lamenta dell'indifferenza generale per la rivelazione di essere stato vittima di intercettazioni telefoniche (ma non è stato proprio lui a decretare un draconiano silenzio stampa sul contenuto degli ascolti illegali?).
Veste penne di pavone per il buon esito dell'avvicendamento che porta l'Italia nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, come se fosse merito suo e non un lascito del governo Berlusconi. E' un crescendo rossiniano di goffaggine, menzogne a ruota libera, velleitarismi patetici che lascia interdetti anche, e soprattutto, i partiti legati a lui.
L'Italia si merita qualcosa di meglio di questo governo Prodi, e lo avrà. Il tentativo di rilancio della prospettiva del Partito democratico ha dato occasione per significative prese di distanze. Smottamenti che preparano il crollo non lontano.
Dice Prodi a El Paìs: "Ero spiato e, salvo L'Unità, la stampa italiana tace".
Risponde Repubblica ("Qualche domanda al premier spiato" di Giuseppe D'Avanzo): " Quando ne avevamo parlato noi, Prodi non aveva fatto una piega. Perché quel che ieri non sollecitava alcuna reazione del governo, ora dovrebbe allarmare il Paese? Prodi dovrebbe farci sapere la sua sul silenzio di ieri. Che cosa è accaduto? Cosa è cambiato?".
Sarebbe banale e semplicistico spiegare la piccata reazione di Repubblica con la "sindrome della moglie tradita", che pure c'è e traspare. Ma come, dice D'Avanzo, siamo stati i primi a parlare di intercettazioni, è sette mesi che il mio giornale mette sotto assedio Telecom e il Sismi, io stesso sono stato seguito e spiato e tu solo ora rompi il silenzio, per raccontare a un foglio spagnolo che solo L'Unità ti difende. Ingrato.
Sarebbe altrettanto semplicistico e banale spiegare l'uscita di Prodi con la sua ridicola "sindrome da accerchiamento" nei confronti dei giornali e dei poteri forti.
C'è anche questo, la crescente paranoia di un premier che, con sfrontatezza fa sapere, a proposito del piano Rovati: "Se anche avessi saputo, che importanza aveva? Se mentivo o dicevo la verità in fondo è qualcosa senza importanza". Parole di irresponsabile sincerità, sufficienti in un altro Paese per mandarlo a casa. C'è dunque anche questo, ma ancora non basta.
L'allarme rosso suona, invece, per il governo Berlusconi. Con singolare quanto sospetta sintonia, il diessino Massimo Brutti lancia l'allarme:" Sono tornati i tempi della P2. Dov'era il nostro controspionaggio? Tocca alla politica e a noi del centrosinistra avviare la pulizia negli apparati".
E' ancora Repubblica a chiedersi:"Perché i gattini ciechi della Quercia fino all'altro ieri, andavano ripetendo con Massimo Brutti che "tutto va bene, madama la marchesa"? Cosa sa quel Brutti che nessuno sa? Con chi ce l'hanno?".
La risposta più semplice è che tutte le resistenze nel centrosinistra, e segnatamente nei ds, a silurare Pollari sono cadute. "Tocca a noi del centrosinistra", dice Brutti.
Per i Servizi, che meritano soltanto lodi e riconoscimenti per quanto hanno fatto dall'11 settembre, nella lotta contro il terrorismo, si prepara un'operazione di giustizia sommaria, una "purga" come solo la sinistra sa fare.
Rimesteranno nella melma, vera o presunta, senza riguardi. Tanto meglio, se qualcuno si sporcherà con gli schizzi.
Non è solo pensar male, immaginare che la vera resa dei conti sarà con il governo Berlusconi.
La sinistra celebra come una propria vittoria, e non come una vittoria dell'Italia, l'elezione del nostro Paese per la sesta volta a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell'Onu per il biennio 2007-2008.
E' evidente l'aspetto polemico di questa auto-celebrazione, che contrasta con i dati di fatto e con il contesto internazionale.
L'Italia fu ammessa all'Onu alla fine del 1955 e da allora è stata eletta membro del CdS, prima del voto di due giorni fa, altre cinque volte, e precisamente per i seguenti bienni: 1959-1960, 1971-1972, 1975-1976, 1987-1988, 1995-1996.
E' quindi da notare che l'ultima elezione risaliva al 20 ottobre 1994, quando alla guida del governo c'era Silvio Berlusconi e a quella del ministero degli Esteri c'era Antonio Martino.
In quell'occasione, l'Italia aveva avuto 167 voti su 170: anche in quel caso, un voto plebiscitario, che non riguardava la specifica politica estera del governo in carica da pochi mesi, ma consisteva in un riconoscimento all'Italia per il suo costante impegno internazionale e il suo appoggio alle organizzazioni internazionali.
Poi l'Italia aveva tentato una nuova elezione nel 2000 (governo Amato, ministro degli Esteri Dini) per il biennio 2001-2002, ma era stata sconfitta dalla Norvegia il 10 ottobre di quell'anno, scendendo, dalla prima alla quarta votazione, da 94 a 57 voti (quorum 115).
Farne adesso una vittoria di parte, o addirittura un "fatto storico" o un "voto straordinario", è quindi assolutamente sbagliato anche perché è fantasioso pensare che i 186 voti su 192 raccolti siano confluiti per merito della politica estera dell'attuale Governo. Essendo in carica da cinque mesi, mentre l'azione diplomatica necessaria per ottenere almeno i due terzi dei voti dell'Assemblea generale dell'Onu inizia sempre con anticipo di almeno un anno.
La formazione di un'opinione in seno alle Nazioni Unite è sempre un processo lungo e lento per cui una valutazione positiva (o negativa) si forma sulla base di un comportamento di lungo periodo.
Non c'è quindi nessun dubbio che il riconoscimento all'Italia derivi da una valutazione della sua attività internazionale degli ultimi anni, in particolare del quinquennio berlusconiano.
Poiché le relazioni internazionali hanno subìto una svolta drammatica a partire dall'11 settembre 2001, è nei successivi cruciali anni che l'Italia ha accresciuto il proprio profilo internazionale, in modo particolare attraverso l'appoggio alla lotta al terrorismo guidata dagli Stati Uniti e le missioni di pace in Afghanistan e Iraq.
Assegnare questo successo all'Onu al governo di sinistra che avrebbe modificato la politica estera è quindi un'operazione tutta di politica interna, che dimostra un innato provincialismo.
Il centrodestra ha validi motivi per compiacersi di questo riconoscimento che premia la continuità della sua politica estera alla quale ha dato sempre, sia come maggioranza al governo sia come opposizione, il suo contributo nell'interesse superiore del Paese.
Del disegno di legge Gentiloni sorprende più la tempistica che il contenuto, dettato dalla vendetta di Prodi che si esalta quando riesce a ferire Berlusconi e dal genetico odio sociale della sinistra che si rivela senza equivoci nel famoso manifesto di Rifondazione che vorrebbe far piangere i ricchi. Figuriamoci Berlusconi, il quale ha due "peccati gravi" da scontare: è ricco e fin dal 1994 è un ostacolo alla loro piena conquista del potere.
Il contenuto quindi era prevedibile, i tempi di presentazione della legge, invece, meritano qualche riflessione: perché proprio ora?
Si può fare una serie di ipotesi:
Per punire Berlusconi. Dopo aver usurpato una vittoria elettorale che non c'era, questi signori della sinistra vogliono vedere cadere la testa di Berlusconi ed evitare così che possa, ad una futura competizione elettorale, diventare un avversario sempre più invincibile. Sono loro a fare le leggi contra personam.
Per offrire un ricostituente a Prodi. Il governo sta attraversando un brutto momento. In poco più di cinque mesi è riuscito a fare danni, per gli altri ma anche per se stesso. Dal decreto Bersani a Telecom, dalle missioni all'estero alla finanziaria: non sono stati atti di alta popolarità e di largo consenso. Prodi ha tutte le ragioni per essere provato e depresso: era necessario un toccasana per tirarsi su.
Per ricompattare la maggioranza. Passato il momento elettorale, l'Unione ha cercato in ogni occasione di minimizzare le divisioni interne. Contraddizioni insuperabili che con la Finanziaria si rivelano ancora più profonde: come assicurarsi il voto in Parlamento? Con una buona dose di politica antiberlusconiana, unico vero collante di questa maggioranza.
Una riforma sulla Tv a futura memoria (l'iter parlamentare si preannuncia – come prevedibile - lungo) per cancellare nell'immediato i vari distinguo sulla manovra economica.
Per distrarre il popolo. Contro la Finanziaria si sono espressi tutti dai moderati dell'Unione, agli industriali, da Bankitalia a Economist, dai sindaci agli economisti, gli uni e gli altri di sinistra, dalla stampa amica a quella di apparato. Proteste che trovano nell'opposizione politica e nel suo leader, Berlusconi, gli strumenti per passare dalla protesta verbale a quella delle piazze, al coinvolgimento di gran parte dell'elettorato che ha votato Prodi e che oggi manifesta il suo malessere. Berlusconi può in questa fase canalizzare il malcontento e come il pifferaio magico portare a "casa sua" quei voti delusi. Non potevano immaginare, i signori di sinistra, che proprio il presidente Mediaset dicesse a Berlusconi: "Silvio, rompigli le balle dalla mattina alla sera".
Vi sono ancora in questo Paese "persone serie", politici indipendenti, in grado di trovare soluzioni condivise e costruttive? Esistono persone serie e capaci di far prevalere un giudizio indipendente? Esiste ancora in questo povero Paese la possibilità di un confronto vero, di un dialogo autentico, che, fatte salve le diversità di interessi e di progetti politici, permetta all'Italia di procedere in avanti senza contrapposizioni deleterie, senza desiderio di distruzione dell'avversario? E' purtroppo lecito sostenere che queste condizioni non vi siano più, e che non vi sia più, dopo Tangentopoli, una classe politica degna di questo nome. Non vi è più un autentico e reciproco rispetto e un dialogo politico: si nota al contrario una spinta, all'interno della maggioranza di governo, che può portare ad un vero e proprio imbarbarimento della vita politica di cui purtroppo si avvertono già molti segni evidenti.
Non ha torto chi sottolinea come "il governo abbia ormai tanto potere da poter colpire direttamente la proprietà privata del suo avversario politico".
Si pensi soltanto al cosiddetto "tavolo dei volenterosi": si è mosso Prodi per imporre il ritiro degli esponenti della sua maggioranza. Questo episodio la dice lunga sullo stato dei rapporti fra le forze politiche e sulla debolezza di un governo spaventato perfino da alcuni volenterosi. Un governo che, tuttavia, proprio a causa della sua debolezza alza il tono della sua arroganza e provoca giorno dopo giorno una serie di lacerazioni al tessuto democratico del nostro Paese. Il rischio di una assuefazione è molto alto, complice una cappa di conformismo nell'ambito dei mezzi di comunicazione e della cultura. Questo meccanismo debolezza-forza può non arrestarsi facilmente.
Occorre perciò un'opposizione forte che costringa ad una sosta, ad un ripensamento, a fermarsi per riflettere, per dissipare le ombre e guardare le cose veramente importanti per il futuro del nostro Paese.