"Esprimo la mia grande soddisfazione personale, e quella di tutta Forza Italia, per l'elezione alla presidenza del Parlamento europeo di Hans-Gert Poettering, un amico sincero e un limpido democratico che ha interamente dedicato la sua straordinaria esperienza al consolidamento delle istituzioni comunitarie e che rappresenta dunque una garanzia morale e politica per tutti.
L'approdo sulla poltrona più alta del Parlamento di Strasburgo, nel quale siede ininterrottamente dal '79, è il meritato riconoscimento a un moderato che ha sempre ispirato la sua azione ai valori fondanti del popolarismo europeo, cioè a quella tradizione che resta il pilastro più solido nella costruzione di un'Europa in cui la volontà dei popoli prevalga sulle logiche economiche e sulle barriere burocratiche che soffocano l'Unione.
Sono certo che la sua presidenza darà nuovo impulso e vigore al rilancio della fase costituente, restituendo una forte centralità al ruolo del Parlamento".
Quella di Prodi su Vicenza non è una decisione, né tanto meno un'assunzione di responsabilità. Il governo che "non si oppone" all'ampliamento della base Usa, che derubrica una decisione che non rientra nella sfera della politica estera in "un problema di natura urbanistica e territoriale", fa esattamente l'opposto. Far passare per un "sì di Prodi" (Repubblica e stampa compiacente) quello che è un "non-no" è un'operazione di mistificazione e falsificazione della realtà.
La decisione americana di rafforzare il contingente di stanza in Italia, riducendo di due terzi, rispetto ai tempi della guerra fredda, la presenza militare nel continente europeo, viene irresponsabilmente liquidata dal governo come un fatto meramente locale. Un problema da "piano regolatore" della città di Vicenza, prima ancora che una scelta di politica estera e della difesa. Prodi (anche D'Alema ieri ha rincarato la dose) in realtà si è esibito ancora una volta nella strategia che più gli è consona, quella dello scaricabarile. Lo ha espresso con chiarezza:"Noi non siamo chiamati ad alcuna decisione".
Da un lato ha vestito i panni del notaio, chiamato a certificare asetticamente una scelta fatta dal governo Berlusconi e, a suo tempo, approvata dal voto del consiglio comunale.
Dall'altra ha indossato i panni di Ponzio Pilato, negando ogni implicazione politica di tale scelta e mettendosi alla finestra, in attesa di vedere quel che succede.
Senza mancare di sottolineare malignamente che erano state offerte agli americani "altre soluzioni che ci sembravano più equilibrate per il territorio". Un modo come un altro per dire che non era d'accordo e per alimentare irresponsabilmente le dure proteste della sinistra radicale e di quanti, a Vicenza, già parlano di "insurrezione pacifista". E di quanti (anche Fassino e D'Alema) sono a favore di un referendum.
La presa di non-posizione di Prodi e del suo governo non risolve dunque il problema. E' nel solco delle tante non-decisioni (dalla Tav ai degassificatori, dai tassisti alle false liberalizzazioni) con le quali Palazzo Chigi tenta di far passare per scelte quel che preferisce poi delegare agli enti locali. Chiamati a "sporcarsi le mani" nel concreto e a fronteggiare il fronte del "no" ambientalista e antagonista. Se la sbrighino loro, i sindaci. Qualunque cosa decidano, il governo "non si oppone".
Con tempismo perfetto, Berlusconi aveva avvertito che sarebbe stato "di straordinaria gravità un no del governo all'ampliamento della base di Vicenza, perché in questo modo l'Italia sarebbe diventata un partner inaffidabile nei confronti degli Stati Uniti e dell'Alleanza Atlantica". E in effetti Prodi è stato costretto a dire sì, obtorto collo e derubricando la vicenda a una questione "urbanistica e territoriale". Ma le conseguenze per la sua coalizione rischiano di essere deflagranti, visto che il premier per la prima volta ha dovuto tradire il suo principale alleato, e cioè la sinistra radical-pacifista.
D'altra parte, i margini di resistenza per il Professore si erano ridotti dopo che il presidente della Repubblica era stato molto netto nel sostenere che gli impegni presi vanno rispettati e che non è certo il caso, in una congiuntura internazionale segnata da molteplici focolai di crisi, di mettere in discussione i rapporti euroatlantici che da sempre caratterizzano la nostra politica estera.
Ma il caso Vicenza non si esaurirà con qualche occupazione di binari o con qualche marcia per la pace: Rifondazione, Verdi e Comunisti Italiani hanno infatti già annunciato battaglia in vista dell'approdo in Parlamento di alcuni provvedimenti "caldi" (tra cui il decreto di rifinanziamento delle missioni militari italiane all'estero). Non è un caso che, prevedendo la decisione del premier di avallare il progetto di ampliamento della Dal Molin, il senatore verde "dissidente" Mauro Bulgarelli abbia lasciato intendere che una scelta di questo tipo non potrà non avere ricadute sull'atteggiamento parlamentare della sinistra della coalizione. La quale ora dovrà fare i conti con il malumore del proprio elettorato.
Quel no su Vicenza, che era stato anticipato agli americani prima del ripensamento finale, era una merce di scambio necessaria, se non indispensabile, per riuscire a tenere unita la base parlamentare della sinistra quando si tratterà di votare per questioni delicate, a cominciare dalla missione in Afghanistan. Ma il patto è stato infranto, e Cento invita già il popolo Verde a una battaglia nazionale.
L'Unione è un arcipelago privo di omogeneità politica e programmatica, a partire dal fondamento essenziale di ogni coalizione: la politica estera. Si va dai filoamericani (e filoisraeliani) come la Bonino, Capezzone e Pannella al partito filo-hezbollah di Diliberto passando per i Ds, nei quali la base resta visceralmente nemica della politica statunitense e il gruppo dirigente cerca faticosamente l'approdo di una realpolitik occidentale. E' indubbio che i rapporti con l'America, e in particolare con l'amministrazione Bush, costituiscono una delle questioni dirimenti, sulle quali si gioca l'equilibrio del governo Prodi. Dopo l'11 settembre, quando il centrosinistra era all'opposizione, la nomenklatura del postcomunismo italiano diede il peggio di sé di fronte alla sfida lanciata dal terrorismo islamico, lasciandosi andare a una irresponsabile deriva pacifista e antiamericana, sostenendo che Al Qaeda si combatte con l'intelligence e scambiando spesso la causa con l'effetto, come se la guerra l'avesse dichiarata Bush invece di Bin Laden.
Cinque anni di demagogia hanno lasciato il segno quando la sinistra è tornata al governo, e un po' per la spinta dell'ultrasinistra, un po' per un atavico richiamo della foresta rossa a cui i dirigenti diessini non sono certo insensibili, in questi mesi i rapporti tra Roma e Washington si sono visibilmente deteriorati, con l'ala "americana" dell'Unione confinata in un angolo. E il sì pronunciato da Prodi sulla base di Vicenza non passerà certo alla storia come una vittoria dei riformisti filo-americani (solo Amato ha fatto sentire alta e forte la sua voce), perché la decisione è giunta sotto la triplice spinta delle pressioni americane, del capo dell'opposizione e del Quirinale.
Ma il nodo dell'antiamericanismo a sinistra, in questo modo, è diventato ancora più intricato.
"Sono convinto che il primo dovere di un grande Paese come l'Italia sia quello di tener fede agli impegni internazionali assunti anche per essere credibile nei confronti dei propri alleati.
Seguendo questo principio, tra il 1996 e il 2001, nella legislatura in cui ci trovammo all'opposizione di vari governi di sinistra, abbiamo sempre sostenuto con il nostro voto tutte le missioni alle quali il nostro Paese aveva scelto di prendere parte.
Allo stesso modo, in questa legislatura, abbiamo approvato, pur con significative e motivate perplessità, la missione italiana in Libano.
Per noi è sempre stato prevalente l'interesse nazionale.
Sarebbe di straordinaria gravità che il governo attuale si dimostrasse così inaffidabile nei confronti degli Stati Uniti e dell'Alleanza Atlantica da contraddire le decisioni sull'ampliamento della base di Vicenza assunte nella scorsa legislatura dal governo italiano da noi guidato.
Questi aspetti sono stati ribaditi anche dal dottor Gianni Letta, che ha ricevuto per mio conto una delegazione del ‘Comitato del Sì', condotta dal senatore Pierantonio Zanettin e da Roberto Cattaneo".
Se il Partito Democratico doveva essere il grimaldello per il rilancio dell'Unione, la chiave per dare compattezza alla sinistra e togliere ogni speranza di governo al centrodestra, per ora sta solo lacerando la sinistra. Margherita e Ds se le danno di santa ragione, muovendosi con assoluta diffidenza l'uno nei confronti dell'altro. Galeotta fu la proposta, diessina, di far diventare la stessa cosa PD e PSE e condizionare proprio l'ingresso nel partito socialista europeo per far parte del partito democratico. Tanto è bastato perché il partito di Rutelli annusasse la trappola, cioè il tentativo della Quercia di inghiottire la Margherita. Da quel giorno, non c'è più stata pace fra i due partiti, né c'è stata fiducia. Entrambi si preparano all'appuntamento, tutt'altro che certo, ma si guardano in cagnesco e non perdono occasione per punzecchiarsi e per rimarcare la propria indipendenza.
Ma se la Margherita ha quantomeno una sua maggiore compattezza per arrivare al partito democratico, il percorso dei democratici di sinistra è di certo più tortuoso e sta riservando passaggi assai lancinanti. I Ds, infatti, sembrano in piccolo la coalizione di governo, divisa tra riformisti e radicali: da una parte la sinistra del partito, assai diffidente e di certo non entusiasta dell'operazione (al punto che c'è chi ha già annunciato la scissione), dall'altra i cosiddetti "riformisti", convinti della fusione ma decisamente inferociti con il governo e le sue scelte. Ecco allora che Fassino perde uno dopo l'altro i pezzi. Prima Nicola Rossi (che si è dimesso dal partito), poi Peppino Caldarola e Mercedes Bresso, più moderati nelle scelte ma altrettanto arrabbiati: non parteciperanno al congresso. Se il Partito Democratico doveva dare unità, l'operazione appare fallita in partenza.
Quando si è impegnata ad abolire lo "scalone" della riforma del centrodestra, l'Unione - come ha sottolineato Giulio Tremonti - ha firmato un patto col diavolo. Perché al dilemma non si sfugge: o si alza l'età del pensionamento, o si riducono le pensioni, nel centrosinistra la confusione è totale.
Padoa Schioppa punta a ridurre (6-8 per cento) gli assegni di coloro che andranno in pensione fra qualche anno, rivedendo i coefficienti di calcolo. La revisione è prevista dalla riforma Dini, ma non piace né ai sindacati né alla sinistra radicale.
Rutelli è favorevole a un graduale innalzamento dell'età pensionabile e sostiene che intanto si devono discutere nuovi coefficienti.
Diliberto ribatte subito: il leader della Margherita avrebbe dovuto formulare questa tesi mentre di discuteva il programma, non adesso. Bagarre continua.
Il ministro diessino Cesare Damiano afferma che " lo scalone va rivisto, non cancellato". L'esponente della Quercia riconosce che l'abolizione pura e semplice della riforma del centrodestra aprirebbe una falla nei conti pubblici.
Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil attacca rudemente il ministro amico: "Lo scalone va subito abolito. Su questo non scherziamo". Anche nella Quercia c'è chi, come Gloria Buffo, ritiene che si debbano respingere le pressioni a riformare il sistema esercitate dall'Europa e dal Fmi. L'incertezza è totale, non c'è una linea concordata nell'Unione, Prodi è arroccato in un silenzio che irrita gli alleati. Sullo sfondo, e non sono di buon auspicio, le parole minacciose del ministro di Rifondazione Paolo Ferrero: "A Caserta - ha detto - volevano metterci nella condizione di prendere o lasciare, ma questa offensiva è stata fermata: se si prospetta un taglio brutale delle pensioni sia avvia la crisi della coalizione".
Dopo aver tanto discusso, ora il riconoscimento delle unioni di fatto (preparazione o camuffamento dei Pacs ) esce dall'agenda del governo, che non riesce a imporre una soluzione condivisa. La bozza di proposta di legge della ministra Barbara Pollastrini sarebbe dovuta approdare al prossimo consiglio dei ministri, ma l'opposizione della ministra Rosy Bindi ha indotto a cancellare l'argomento dall'ordine del giorno, per evitare rotture clamorose. Si manifesta lo scontro latente da tempo fra le diverse sinistre e la componente cattolica dell'Unione sui temi eticamente sensibili. Lo scontro è sulla registrazione, in speciali registri, delle coppie di fatto - etero e omosessuali - ai cui componenti andrebbero assicurati diritti e garanzie. Per la Pollastrini la registrazione è indispensabile, per la Bindi si tradurrebbe in un indebolimento della famiglia tradizionale.
"Il nostro programma - afferma la ministra della Margherita - non prevede il riconoscimento di matrimoni di serie B".
Se il governo può togliersi d'impiccio rinviando, è più difficile smussare i contrasti nell'ambito del Parlamento. I cosiddetti "teo-dem" del centrosinistra accetterebbero delle norme che tutelassero i diritti individuali dei componenti delle coppie di fatto, ma non sono disponibili a riconoscere forme scimmiottature del matrimonio tradizionale.
L'intesa appare sempre più difficile e l'ambiguità del programma elettorale aiuta le polemiche interne più aspre.
Si spacca il capello in quattro per interpretare quel testo prolisso, ma resta l'altolà formulato dai senatori della Margherita Binetti, Bobba e Baio Dossi: "Non voteremo mai una legge dove si riconoscono alle coppie di fatto gli stessi diritti di quelle legittimamente sposate".
L'antiamericanismo è il cuore culturale e politico della sinistra e i giovani di Forza Italia devono contrapporre la propria visione culturale filoccidentale, liberale e atlantista all'anacronistico ma sempre pericoloso "mondo" della sinistra radicale al Governo. I migliori "ambasciatori" di questo messaggio non possono che essere i giovani.
Dobbiamo lanciare una campagna di contrapposizione di due diverse schiere generazionali. Da un lato quei giovani che vivono nei centri sociali, occupano case, scuole e università, assaltano sedi di partito e agenzie interinali, bruciano fantocci e bandiere, e tutto ciò lo fanno in nome della pace: ovvero i "pacifinti". Dall'altro lato quelli che sfilano per Roma il 2 dicembre in migliaia cantando slogan ironici e colorando le strade con un corteo gioioso, quelli che manifestano civilmente in difesa di Israele come degli studenti iraniani, quelli che la casa non la occupano ma se la sudano e a scuola e all'università vanno per studiare e non per "fumare".
Caruso è già pronto a scatenare le sue truppe di giovani antagonisti e dei centri sociali che, come hanno già fatto in precedenza, metteranno a ferro e fuoco Vicenza.
Alla dichiarazione di guerra del deputato comunista, i giovani di Forza Italia rispondono sostenendo il comitato vicentino per il sì alla base, difendendo non solo i posti di lavoro che la base offre già ma anche il suo ampliamento. Caruso, infatti è talmente accecato dall'odio per gli Stati Uniti da giustificare la perdita di 750 posti di lavoro, di 2000 unità che lavorano nell'indotto ed altri 400 dipendenti che verrebbero assunti con l'ampliamento della base americana.
Il caso di Vicenza non farà cadere il governo, ma è anche sostenendo piccole battaglie come queste che riusciremo a far perdere consenso e credibilità alla sinistra, soprattutto in quella fascia giovanile che non si riconosce in Caruso e compagni.