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il Quaderno del 18 gennaio

Loro/Su Vicenza Prodi ha mentito

Romano Prodi, ovvero l'arte di governare attraverso la menzogna. E non solo: anche attraverso l'incompetenza.

E' facile dimostrare l'incompetenza: la questione dell'ampliamento di una base militare è politica e non può essere ridotta a "una questione urbanistico-territoriale e amministrativa", quindi delegabile a livello locale, come ha detto il presidente del Consiglio: è infatti questione che tocca le specifiche competenze e prerogative del Governo.

Primo: l'aeroporto vicentino è uno scalo militare e il terreno è demaniale, dunque di proprietà dello Stato e il Comune non c'entra.

Secondo: la base è regolata da accordi internazionali che consentirono l'insediamento degli americani a Ederle, perciò è una questione di politica estera e di difesa, e quindi di competenza governativa.

Il governo Berlusconi non ha firmato nessun accordo con Washington, ma aveva espresso un orientamento favorevole alla concessione del Ddl Molin per ospitare l'altra metà della 137° Brigata paracadutisti Usa: lo ha ricordato Francesco Rutelli il 31 maggio 2006 rispondendo a un'interrogazione presentata dall'Udeur.

L'affermazione di Prodi di essere stato all'oscuro della vicenda è una pura menzogna, come dimostrano le parole del suo ministro della Difesa, Arturo Parisi, rispondendo il 27 settembre a specifiche domande di parlamentari dell'Unione durante il question time, il che dimostra anzitutto che i parlamentari erano al corrente.

Dice Parisi: "L'interrogazione dell'onorevole Galante ripropone la nota questione della richiesta del governo statunitense…". Se la questione è "nota" al ministro della Difesa, Prodi non può parlare, come ha fatto, di "iter troppo riservato".

L'interrogante cita una riunione propiziata dal ministero della Difesa e il 6 luglio precedente con militari italiani, americani e il sindaco di Vicenza: Parisi conferma il suo svolgimento, "così come la conoscenza da parte del ministero".

E non si trattò di una riunione segreta. Dice Parisi: "Rassicuro l'interrogante che non risulta che la riunione sia stata in alcun modo connotata da spirito di segretezza, con il fine di adottare iniziative in contrasto con gli intenti dell'autorità governativa. Autorità – precisa smentendo ciò che Prodi avrebbe detto in questi giorni – che resta indiscutibilmente competente per l'assunzione della decisione finale".

Quanto al merito, rispondendo ad altro interrogante, Parisi afferma che "si tratta, pertanto, di un intervento, lo ripeto, che non modifica la natura dell'insediamento, bensì unicamente la sua dimensione".

Si può capire il tentativo di Prodi di fingere di cadere dalle nuvole per mettere i partiti dell'ala sinistra di fronte a una "decisione" (che poi non era tale) presa dal "precedente governo", quasi a stabilire un'analogia di continuità con la presenza in Afghanistan, dimenticando che lo stesso ritiro progressivo dall'Iraq era stato deciso dal governo Berlusconi.

Ma su un cumulo di bugie non si costruisce una verità e soprattutto si perde credibilità: un governo che mente su una cosa, può mentire su altre, vedasi il caso ben più clamoroso dei conti pubblici, che non erano allo sbando, ma in regola.

Bonaiuti: su Vicenza Prodi usa solo scuse

Agenzia di stampa Apcom del 17 gennaio, h. 18,36

"Quando uno si trova in difficoltà ricorre sempre a delle scuse". Così Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, risponde al presidente del Consiglio Romano Prodi che, conversando con i giornalisti a Sofia, ha detto di non essere stato informato dal precedente governo sul via libera all'ingrandimento della base Usa di Vicenza.

"Prodi - prosegue Bonaiuti - ha detto un sì a mezza bocca alla base Usa di Vicenza dietro nostra pressione e subito ha scatenato la reazione della sinistra radicale che non riconosce neanche i benefici di cinquant'anni di appartenenza all'Alleanza Atlantica". Per Bonaiuti "siamo alle solite: sarà infatti difficile per questa sinistra trovare un accordo sul rifinanziamento delle missioni di pace dei nostri soldati all'estero".

Loro/Dopo Vicenza c'è il rischio-Afghanistan

Il sì di Prodi all'allargamento della base Usa di Vicenza ha subito proiettato ombre minacciose sul rifinanziamento della missione in Afghanistan. Che è diventata in poche ore una bomba a orologeria per Palazzo Chigi, visto che ormai nell'ala sinistra della coalizione si è scatenata la corsa al pacifismo più sfrenato. Una corsa aperta da Pecoraro Scanio il quale ha annunciato a tempo di record che, senza un'adeguata exit strategy, i Verdi non voteranno più il decreto Kabul.

Per Prodi, stavolta, si profilano giorni cruciali: la settimana prossima, infatti, il Consiglio dei ministri dovrà varare il decreto che rifinanzia la missione in Afghanistan, e siccome non ci saranno fatti nuovi, in quanto la decisione su Vicenza "è definitiva", i Verdi non potranno che votare no, innescando una pericolosa reazione a catena.

Al no del ministro verde si aggiungeranno giocoforza quelli del rifondarolo Ferrero e del comunista Bianchi, e forse anche quello del diessino Mussi: se così fosse, Prodi andrebbe incontro alla sua prima, vera Caporetto. Il Professore tenterà sicuramente qualche manovra diversiva, tipo uno spostamento di forze dall'impegno bellico alla cooperazione, ma questa volta i margini di manovra sono strettissimi, anche perché la Nato ha già ricordato al governo che l'Italia ricopre un ruolo di primaria importanza in Afghanistan. E poi perché i pacifisti dell'Unione non sembrano disposti a farsi beffare un'altra volta, e brandiscono la lettera che il 26 luglio scorso il ministro della Difesa Parisi inviò al gruppetto di "dissidenti" duri e puri che tenevano il punto sull'Afghanistan e che alla fine si convinsero a votare per la missione solo perché venne messa la fiducia.

Parisi assicurò che sulla base Usa di Vicenza non c´era una decisione del governo Prodi, e - ricorda ora Mauro Bulgarelli, il capofila di quei "dissidenti" – "la questione della basi entrava a pieno titolo nella mediazione sull'Afghanistan, c´era un patto tra gentiluomini ma questo è stato rotto".

E Severino Galante (Pdci) accusa addirittura il ministro di avere "detto il falso" in un question time di fine settembre. In quell'occasione, infatti, Parisi sottolineò che con la controparte americana, sulla base di Vicenza, non erano stati "sottoscritti impegni di alcun genere. La disponibilità di massima manifestata dal precedente governo non si è tradotta in alcun accordo scritto".

Come si può dunque sostenere - chiede a Prodi il deputato del Pdci - che il governo in carica non sia in grado di "opporsi a decisioni già prese dall'esecutivo Berlusconi"? Una delle due affermazioni dev'essere falsa. Il governo, insomma, è sull'orlo dell'ennesimo precipizio, e per questo Mastella preconizza che Prodi cadrà sulla politica estera, e non sui Pacs.

Loro/Dopo Vicenza gli antiamerikani ricattano

• Due episodi, quasi passati sotto silenzio, ma di gravità inaudita. Patrizia Sentinelli, viceministro degli Esteri, ha difeso il ruolo delle Corti Islamiche contro, testuali parole: "l'occupazione dell'Etiopia in Somalia".

Donato Di Santo, sottosegretario agli Esteri, ha osannato la vittoria antiamericana del presidente appena eletto dell'Ecuador, Rafael Correa, trovandosi in questa esaltazione ideologica in compagnia di un certo Ahmadinejad.

Il pacifismo unilaterale, il rifiuto ideologico perfino del naturale senso comune della reciprocità.

Come per la Tav, come per ogni importante progetto di vero sviluppo dell'Italia. Sviluppo, parola di cui si riempie la bocca ogni giorno, salvo poi comportarsi come uno che sa di avere le ore contate.

Loro/Dopo Vicenza diesse senza alibi

Il penoso spettacolo offerto dalla maggioranza di centrosinistra sull'ampliamento della base americana di Vicenza ha avuto almeno il pregio di chiarire definitivamente, anche agli occhi degli osservatori più compiacenti, alcune verità fondamentali sul governo e sulla situazione politica del Paese. Le scuse di Prodi, impegnato ad attribuire al governo Berlusconi o agli architetti la "colpa" per la decisione assunta su Vicenza (ma colpa di che?), dimostra che a sinistra vige ancora la mentalità del comunismo più bieco e deteriore, quello degli antiamericani a tutti i costi, seguaci ed eredi del partito che ci voleva alleati con Mosca e fuori dalla Nato. Poi è venuto Enrico Berlinguer, e con lui lo strappo dal Cremlino e l'Eurocomunismo: ma i fatti di oggi dimostrano che la lezione di Berlinguer non è servita ed è stata presto dimenticata. È ancora la mentalità da "Guerra Fredda", diffusa e imperante ben al di là del già ampio perimetro della sinistra radicale, a segnare la cultura e i comportamenti della gauche italiana. E anche per questo il governo Prodi, in politica estera, non è più (ma in realtà non è mai stato) maggioranza.

In questo scenario cupo e imbarazzante per una moderna democrazia, svetta l'implosione del principale partito della sinistra. I Democratici di Sinistra hanno campato per anni sugli equivoci, barcamenandosi fra sinistra radicale e centrosinistra moderato senza prendere una posizione chiara, ma diventando sempre più un semplice centro di controllo del potere sul territorio. Un centro di controllo che andava via via perdendo forza, ideali, motivazioni, sino a diventare un contenitore neutro nel quale nuotavano a casaccio personaggi con idee e riferimenti del tutto opposti e inconciliabili. Non è un caso, dunque, se una volta posti di fronte a scelte chiare e precise i Ds si sono dissolti, divisi e frantumati persino nei vertici: il litigio Fassino-D'Alema ne è la prova lampante.

La verità, in fin dei conti, è che i Ds non sono "entrati in una fase di crisi".

La verità è che il primo partito della sinistra già da tempo non esisteva più, e che ora questo dissolvimento è semplicemente diventato di dominio pubblico.

Bertinotti offende il suo ruolo

Mancanza di senso dello Stato. Era un'accusa, per lo più condita da ironici commenti e pesanti contumelie personali, che rimbalzava con frequenza dai banchi dell'opposizione durante la precedente legislatura e che aveva come bersaglio Silvio Berlusconi. Quel che emerge ogni giorno, ora che quei signori sono al governo e occupano ogni stanza del potere, è la distanza abissale tra le parole di ieri e i comportamenti di oggi.

Il caso di Fausto Bertinotti è, sotto questo profilo, esemplare. E' il presidente della Camera, è la terza carica dello Stato, da lui sarebbe lecito attendersi un doveroso rispetto per il ruolo istituzionale che ricopre. Purtroppo non è così. Piazzato formalmente il fedele Giordano alla testa di Rifondazione Comunista, si è riservato il ruolo di segretario-ombra. Così quello di presidente della Camera è un lavoro part-time.

Con il suo intervento, ultimo di tanti, sulla base Usa di Vicenza, ha stracciato ogni residua forma di rispetto verso l'istituzione che rappresenta (presidente di "tutti" i deputati) e annullato ogni distinzione fra carica super-partes e uomo di partito.

Affermando che "ogni atto che va in direzione della pace, compreso quello con cui si impediscono nuove forme di presenza e organizzazione militare, è una buona cosa", Bertinotti si è di fatto messo alla testa della protesta anti-americana e delle manifestazioni che verranno, assumendosi una grave responsabilità per quel che potrebbe accadere.

C'è di più. Nessuno ha voluto annotare che, alla luce delle precedenti dichiarazioni del Quirinale, ha aperto anche un lacerante conflitto istituzionale con il Colle. Sul quale, ai tempi del centrodestra e a parità di condizioni, si sarebbe scatenata chissà quale polemica. Invece, tutti zitti.

Ieri Miriam Mafai, intervistata a Radio24, ha criticato duramente Bertinotti, ricordando i tempi in cui Nilde Jotti, da presidente della Camera, si comportò con tanta correttezza da meritarsi critiche e duri attacchi dai banchi del suo partito, il Pci, e dello stesso Berlinguer. I comunisti di ieri, ha concluso la Mafai, avevano più senso dello Stato. Noi diciamo che non sono cambiati. Ma se lo sono, Bertinotti dimostra che è in peggio.

Loro/Consiglio doc: diesse, dividetevi

Dall'alto dei suoi 92 anni, Pietro Ingrao dà, su La Stampa, un buon consiglio alla sinistra: "Non capisco che senso abbia una battaglia per restare tutti insieme quando la si pensa in modo così diverso. Mi sembra una perdita di tempo cercare di tenere uniti i Ds, perché stare insieme per forza produce solo un pasticcio".

Detto fatto, il "correntone" minaccia di tagliare la corda senza aspettare la celebrazione del congresso, che Fassino si ostina a volere prima della resa dei conti elettorale, nelle amministrative di primavera.

Ma il ragionamento di Ingrao ha un campo di applicazione più vasto delle beghe diessine. Innanzi tutto vale da benedizione alla dissoluzione dei Ds, partito né carne né pesce, nel nuovo Partito democratico. Tutta ciccia moderata, secondo il vecchio comunista impenitente, da espellere dal menu della sinistra.

Più in generale, la geometrica razionalità ingraiana investe la legittimità del "pasticcio" rappresentato da una coalizione di governo tra nemici mortali, animati da idee opposte dell'Italia e del mondo. Vicenza è solo la punta emersa della guerra in atto tra alleati. Tramonta l'illusione prodiana di venirne a capo con l'arte del compromesso, che ha avuto nell'enciclopedico programma di governo il suo monumento grottesco.

Vicenza è qualcosa di peggio di un campo di battaglia tra le eterne due anime, la rivoluzionaria e la riformista, della sinistra. E' il pretesto usato dall'ultrasinistra per lanciare contro i diessini la sua offensiva in due tempi: prima spolparli elettoralmente già nel test di primavera, poi espellerli dalla sinistra fino a rimanere padroni del campo.

Assistiamo alle avvisaglie di uno scontro tra parenti prossimi, governato dal più potente degli istinti: quello di sopravvivenza. Il partito di D'Alema e Fassino non può vivere, e tanto meno trasformarsi, se non mette i concorrenti in condizioni di non nuocere. Cioè il contrario della scelta di governare insieme. Il governo Prodi è al capolinea.

Loro/I fischi? Colpa dei fiaschi

Se ci fosse da assegnare l'Oscar dell'impopolarità si aprirebbe una gara serrata fra Romano Prodi e i suoi ministri per l'assegnazione del poco ambito premio.

Il premier e parecchi esponenti dell'esecutivo in pochi mesi hanno collezionato contestazioni, fischi, insulti che testimoniano, con la rudezza tipica delle proteste, quanto si sia allargato il fossato che separa questo governo di centrosinistra dai cittadini. Prodi è stato fischiato nella sua città, a Bersani e a Mussi è capitato di inciampare nei fischi durante le missioni di rappresentanza propagandistico-ministeriale, Damiano ha avuto il privilegio di essere insultato da "compagni", Tommaso Padoa Schioppa ha inaugurato nell'ateneo di Torino la variante dei petardi e delle uova.

A urlare e fischiare sono stati, di volta in volta, operai (Mirafiori) e imprenditori (Vicenza), artigiani e pensionati, casalinghe e agenti di polizia, docenti e bidelli: non c'è stato settore o segmento della società italiana che non abbia manifestato critica e rifiuto nei confronti della politica del governo.

Fra le contestazioni in senso stretto non consideriamo la grande manifestazione di dicembre promossa dalla Casa delle libertà, perché i ministri non hanno constatato di persona la straordinaria ampiezza del fronte contrario alla politica fiscale di rapina e poi perché quella consapevole manifestazione del popolo di centrodestra ha avuto una civiltà, una misura, una compostezza che non tutte le contestazioni talvolta esprimono.

A Tps ieri è toccato di sperimentare l'aggressività e le maniere troppo spicce dei suoi "compagni di strada", giovanotti dei Cub, dei centri sociali e di Rifondazione comunista, aderenti ai movimenti e ai partiti di quella sinistra antagonista su cui poggia il trono traballante di Prodi & C.

Romano Prodi, con i suoi esperti di fiducia, fra i quali Tps, ha scelto di stringere un patto di ferro con la sinistra estrema, per sopperire ai limiti della sua leadership e per compensare la mancanza di un suo partito. Ma il patto è rischioso.

Non basta sfornare una finanziaria basata sulle tasse e sull'odio di classe, non basta blandire i massimalisti nella spartizione delle spoglie, non è sufficiente comprimere e deprimere altri settori della maggioranza: la tigre ha sempre fame e all'occorrenza fa ruggire i giovanotti dei "movimenti".

La tigre è duplice, di lotta e di governo, e sembra avere tutta l'intenzione di buttar giù gli incauti aggrappati alla sua criniera.

Loro/Le colpe? Sempre di Berlusconi

Come la donna amata per un uomo tradito, Berlusconi è l'ossessione della sinistra. E tutto quello che non funziona è colpa del Cavaliere, persino le divisioni interne della maggioranza trovano la loro causa nei prodromi del governo di centrodestra.

Insomma, oggi come nel 1994, Berlusconi è l'uomo che ha sconvolto la loro esistenza, e poco importa che sia al governo o all'opposizione. Il nemico numero uno da abbattere rimane sempre e comunque lui: perchè è l'unico che rende precaria e traballante la poltrona del loro potere. D'altronde la strategia dei dittatori è sempre stata questa: identificare un nemico esterno su cui convogliare l'attenzione e gli strali per poter – distratto il popolo – fare all'interno quello che gli pare. Con un motivo in più: una maggioranza divisa trova nell'antiberlusconismo un collante ideologico più forte della colla dell'elefante.

Dopo otto mesi, cambiano gli scenari e le sintesi politiche, ma la prova a loro discolpa rimane sempre Berlusconi. Ma fino a quando può durare? Perché più vanno avanti nel tempo, più devono rispondere dei loro atti di governo e più cadono nel ridicolo e nel patologico.

Idea/Sfruttiamo il question time

La sinistra usa ogni strumento per fare propaganda, perfino il question time.

Ben sapendo che le interrogazioni a risposta immediata, ogni mercoledì, vanno in diretta televisiva per oltre un'ora, la maggioranza si è organizzata e si presenta numerosa all'appuntamento per permettere al ministro di turno di poter utilizzare un tempo che dovrebbe essere dedicato a pungolare il governo per farsi pubblicità.

Sarebbe inutile piangere sul latte versato e pensare che se nella passata legislatura il centrodestra avesse usato lo stesso metodo ne avrebbe ricavato un ritorno di immagine da non sottovalutare.

Invece, quando al governo c'era il centrodestra erano rare le interrogazioni presentate scientificamente da componenti della stessa maggioranza per dare modo al ministro di illustrare in diretta televisiva importanti provvedimenti del suo dicastero. C'erano, questo sì, interrogazioni di alleati di governo, ma esse puntavano spesso e volentieri a criticare un ministro, ad alimentare polemiche tra singoli partiti, a interessi di bottega e non certo di coalizione. Siamo stati poco furbi.

Quest'anno, invece, la maggioranza di sinistra non lascia nulla al caso, segno che a volte il professionismo della politica paga più della serietà non accompagnata da una certa dote di malizia.

E' consapevole che c'è la straordinaria occasione di una diretta tv alla settimana? Perché non usarla, spremerla come un limone, andare in video per far vedere agli italiani quanto sono bravi e quanto sono belli gli esponenti del governo? E questo stanno facendo. Per fare un solo esempio, nella giornata di ieri, il question time ha riguardato 13 interrogazioni a risposta immediata.

Ebbene, 7 sono state presentate da esponenti della maggioranza e solo 6 da esponenti dell'opposizione. Tralasciamo quelle del centrodestra. Per quanto riguarda la sinistra, Katia Zanotti, dell'Ulivo, ha chiesto al ministro della famiglia, Rosy Bindi, di illustrare la politica della famiglia. Al termine dell'intervento ci ha pensato un altro collega della Zanotti a dirsi pienamente soddisfatto.

Moderatamente soddisfatto è stato Salvatore Raiti, dell'Italia dei valori, per un‘interrogazione a Bersani.

Che dire dei Verdi che chiedono a Pecoraro Scanio come il governo intenda affrontare l'emergenza climatica e sono felici della risposta del ministro, nonché loro collega di partito? E così via, ad occupare oltre la metà di uno strumento che dovrebbe essere principalmente (certo non in modo esclusivo) in mano all'opposizione, senza una sola interrogazione che sia di stimolo. Solo spot pubblicitari.

Idea-giovani/Lotta dura nelle università

Le contestazioni di cui ieri è stato bersaglio a Torino il Ministro Padoa Schioppa la dicono lunga sul clima di scontento che aleggia anche tra i giovani di sinistra. Alcune decine di ragazzi, guidati da rappresentanti di gruppi antagonisti, sinistra radicale, sindacati di base Rdb-Cub e Giovani Comunisti, lanciando uova, fumogeni e petardi hanno scandito slogan contro i tagli all'istruzione, contro l'ipotesi di una riforma delle pensioni e contro le spese per la difesa. Le stesse contestazioni vengono mosse al Ministro Mussi, che ormai non può più avvicinarsi ad un ateneo senza incorrere in proteste da parte di giovani, sia di destra che di sinistra, come è accaduto qualche giorno fa a Pavia in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico.

Non si può archiviare il pomeriggio di Torino come un fatto episodico. Nella scuola, nelle università e nei centri di aggregazione dei giovani di sinistra serpeggia un malcontento sempre più violento che finirà per alimentare quell'estremismo che fa capo a Casarini e Caruso, come dimostrano anche i recenti fatti di Vicenza.

Fatti del genere dimostrano che questo Governo, anche sui giovani, è riuscito a scontentare un po' tutti e ha aperto al suo interno uno scontro generazionale sempre più duro dal quale difficilmente riuscirà ad uscire. La sinistra si è impantanata tra il varo della finanziaria e il vertice di Caserta, in una palude immobilista che impedirà di fatto al Governo Prodi di mettere mano alle riforme per l'ammodernamento del Paese e per il futuro delle nuove generazioni. Questo non toglie che la sinistra continuerà a sfruttare la questione giovanile cercando di fare al proprio interno la parte della maggioranza e quella dell'opposizione.

Non dobbiamo lasciare la questione giovanile in mano alla sinistra estrema o a personaggi giovanilisti come la Melandri, ma preparare invece forme costruttive di opposizione all'interno delle università, delle scuole e dei luoghi di aggregazione giovanili per far emergere tutte le contraddizioni del Governo Prodi.

Un Governo che si è dimostrato incapace di provvedere ai bisogni delle nuove generazioni e che pensa solo a smantellare riforme di Berlusconi, unico atto politico negli ultimi 30 anni a favore dei giovani italiani.

   

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