Il lamento di Piero Fassino alla direzione dei Ds, con l'accusa a una campagna di destabilizzazione in atto, anticipata da D'Alema che aveva parlato di complotto neocentrista;
la battuta polemica di Prodi nei confronti di Confindustria sulla quotazione in Borsa de Il Sole 24 Ore;
la mancata partecipazione, oggettivamente polemica, di Veltroni alla riunione della direzione Ds;
la confusa, improvvisata e smentita (dalle precedenti dichiarazioni di Parisi) decisione di Prodi sulla base di americana di Vicenza, contro il cui ampliamento, si stanno organizzando 120 parlamentari dell'Unione, con i Verdi che minacciano di votare il rifinanziamento della missione in Afghanistan;
sono tasselli di un quadro che comincia a diventare allarmante per la tenuta della maggioranza e quindi del governo Prodi.
A questi se ne devono aggiungere altri:
la spinta di Ingrao a formare un vero partito comunista integrato all'estrema sinistra;
la ripresa riformistica di Rutelli e in genere il riaffiorare di una forte competizione tra Margherita e Ds;
l'aumento dello scetticismo nei confronti del Partito democratico e le difficoltà di questo ad assicurarsi il successo in qualsiasi sistema elettorale si voglia riformare;
l'imbarazzo di Epifani di fronte all'estremismo di Rifondazione sulle pensioni;
le sollecitazioni dell'Europa a fare le riforme strutturali;
l'aumento dell'inflazione nell'eurozona che fa prevedere in tempi stretti un aumento del costo del denaro;
costituiscono altri tasselli che minano la stabilità del governo e soprattutto rendono sospettosi reciprocamente tutti i partiti della coalizione di maggioranza.
L'offensiva di Berlusconi sull'antiamericanismo ha messo fortemente in difficoltà il governo e messo un cuneo tra l'ala sinistra dell'Unione e Prodi, costretto a inventarsi una delega ai poteri locali su una decisione che per legge spetta al governo.
Infine i fischi a Padoa Schioppa ed a Prodi, fischi accademici anche se extra moenia, testimoniano, insieme ai sondaggi che hanno registrato la perdita di 20 punti di consenso del premier (un record in così pochi mesi di governo), una delusione profonda nella capacità della sinistra non solo di innovare, ma semplicemente di governare, tanto più con la casse dello Stato che si sono riempite grazie alle tasse versate nel 2006 in funzione della ripresa di attività e aumento della base contributiva prodottesi nel 2005, quindi sotto il governo Berlusconi.
La sparizione dal linguaggio politico della sinistra degli slogan sul declino, sulla quarta settimana senza soldi non passa inosservata alla gente comune, che ne ammette la strumentalità e si sente ingannata da una propaganda avallata da quegli stessi grandi giornali che oggi criticano Prodi il quale pietisce "tolleranza" dopo avere cavalcato l'antiberlusconismo: gli è andata male anche l'ultima esternazione su Vincenza, quando ha accusato il "precedente governo" di avere preso una decisione sulla base di Vicenza.
Adesso Prodi deve confermare se restare sulla linea della "autosufficienza della maggioranza" o se ammettere che il suo governo ha il fiato corto.
Forza Italia, e non solo per i suoi meriti, si trova nella favorevole situazione di crescita di consenso, di una simpatia diffusa tra nuove fasce di elettori (soprattutto alcuni pentiti del voto di aprile o quelli persi per strada) mentre si consolida nella pubblica opinione una duplice certezza.
1. Questo governo, già di per se in affanno, sarebbe un disastro per l'Italia se durasse l'intera legislatura.
2. La chiave per mandarlo a casa sta purtroppo, ancora oggi, più negli errori di questa maggioranza che nella capacità e nelle astuzie dell'opposizione.
Per Forza Italia e per l'intero centrodestra non sono consapevolezze di poco conto. Anche perché non riguardano esclusivamente un sentimento di popolo, diffuso nelle più diverse categorie sociali, ma di una sensazione che ha fatto propria anche l'establishment economico del Paese. Compresi molti imprenditori o industriali di prima fascia che a Prodi avevano ammiccato abbondantemente.
E tuttavia da qui al voto di primavera - che dovrà concretizzare per la prima volta con le cifre il generale scontento - non possiamo vivere di rendita. Non possiamo accontentarci cioè di gestire, incoraggiare o anche solo accarezzare questo senso di oppressione che un anno di governo porterà al bilancio del voto, sia pure amministrativo.
Dobbiamo costruire e ricostruire, anche con l'apporto del dei Circoli della Libertà e delle facce nuove ad essi collegate, l'entusiasmo della riscossa. Che non sarà dietro l'angolo ma è alla nostra portata.
Dobbiamo monitorare gli alleati, Udc in particolare, che già provano a spostare il vecchio discorso della leadership personale sulla iniziativa politica delle forze di coalizione. Pronti a distinguersi sempre e comunque. Come se Casini - e talvolta lo stesso Fini - volessero mostrare di essere capaci di proposte e iniziative, strizzando l'occhio a una certa maggioranza, che Forza Italia non è in grado di lanciare.
In primavera inoltre, in concomitanza con il congresso Ds fissato attorno al 20 aprile e a Camere chiuse, dovremmo lanciare un evento mediatico che contrasti l'occupazione dell'emittenza che quella kermesse comporterà.
Romano Prodi è condannato all'immobilismo. Finanziaria, pensioni, Vicenza, Afghanistan e, presto, gli esuberi nel pubblico impiego; ed ancora, coppie di fatto, congressi di partito, elezioni amministrative. Non ci vuole la palla di vetro per immaginare che, nei prossimi mesi il governo sarà bloccato. Non assumerà nessuna decisione per evitare che le diverse posizioni interne alla maggioranza possano esplodere in altrettante contraddizioni.
Il caso Vicenza, ma anche quello delle pensioni, stanno ad indicare che Prodi non rappresenta più il punto di mediazione della maggioranza fra le sue diverse anime. E' diventato, lui stesso, un elemento di rottura quando assume una posizione e la comunica (come Vicenza). Ne consegue che, per evitare la disfatta della coalizione, il presidente del Consiglio smetterà di mediare; non assumerà più alcuna decisione operativa. E' verosimile attendersi solo annunci, commenti, considerazioni. Senza fatti concreti.
Con il risultato che un governo "fermo" forse può solo salvare una coalizione e soprattutto le poltrone ai suoi componenti. Di certo non è un bene per 60 milioni di italiani.
L'assenza di decisioni paralizza un Paese. E se il problema della crescita è realmente il primo problema della società italiana, la crescita non viene favorita dall'inattività; ma proprio dalla definizione di regole. Per definire le regole, però, è necessario fare scelte. Scelte che Prodi, pur di sopravvivere a Palazzo Chigi, non farà. Con il risultato che condannerà l'Italia al declino.
Charlot amava dire che nulla ha più successo del successo. Verità evidente, come il suo contrario: nulla ha più insuccesso dell'insuccesso. Appunto il clamoroso insuccesso del suo governo è all'origine delle bordate di fischi che accolgono le apparizioni di Romano Prodi in pubblico, e che tanto lo affliggono. Tanto da portarlo a reagire all'ennesima contestazione (quella goliardica che lo ha accolto alla Cattolica di Milano) invocando "rispetto per le istituzioni". Nonché professandosi rattristato dal "silenzio della Cdl, che non condanna".
Più ancora dovrebbe rattristarlo il silenzio dei partiti della sua coalizione. Nessuno dei quali fa del suo petto scudo al Premier. Rifondazione guida a Vicenza le insorgenze di campanile contro il governo di cui fa parte, e gli altri si defilano assumendo il tipico atteggiamento del passante che non c'entra. Prendono le distanze da un Premier sfiduciato dai suoi stessi elettori, in attesa di prenderle anche dal suo (e loro) governo. Più Prodi si affanna a spalmare sugli accoliti le responsabilità per il discredito del suo governo di coalizione, più quelli le personalizzano concentrandole sulla persona del leader.
Giusto il richiamo al "rispetto delle istituzioni". Ma il compito di renderle rispettabili ricade soprattutto su chi le rappresenta al massimo livello. Prodi non contribuisce a infondere rispetto per le istituzioni quando spazza sotto il tappeto la responsabilità per le decisioni che è chiamato a prendere. Non si rende rispettabile l'istituzione di governo che degrada a questione urbanistica l'ampliamento della base americana di Vicenza, onde scaricarla sulle spalle dell'amministrazione comunale. Tutto questo costituisce sfida al comune senso del ridicolo. E il ridicolo uccide il rispetto.
La verità è che Prodi si trova nelle condizioni dell'uomo che ha sbagliato ad abbottonarsi il cappotto. Per vincere le elezioni (se le ha vinte...) ha formato un accrocco bizzarro di identità politiche che non serve a governare il Paese. Lo sapevano tutti che la santa alleanza contro Berlusconi non poteva funzionare come formula di governo. Anche Prodi lo sapeva, ma non si è tirato indietro. Adesso avrebbe bisogno di un nuovo inizio, con ogni bottone nell'asola giusta. Ma non gli è dato di ottenerlo. Il nuovo inizio non sarà affar suo.
Un governo che "ha creato un clima diffuso di sfiducia", "ha colpito la gente con una ondata di tasse" e non ha "neanche una politica estera".
L'on. Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, dipinge così lo stato dell'arte per l'esecutivo di Romano Prodi, ma non esulta per i fischi di ieri a Prodi e Padoa Schioppa.
"Sono cose che dispiacciono - dice in una intervista a "Il Mattino" -. Per chi è stato al governo non è bello vedere contestato chi oggi guida il Paese. Lo stesso Berlusconi è sempre stato contrario a questo tipo di contestazioni". In tema di politica estera, Bonaiuti conferma la posizione di Forza Italia sul rifinanziamento della missione di pace in Afghanistan.
"Noi abbiamo sempre rispettato l'interesse nazionale - afferma -. Ma il problema è tutto interno alla coalizione. Anche se per ipotesi dovessimo dare i nostri voti al rifinanziamento della missione in Afghanistan, si tratterebbe di un consenso che la sinistra radicale non potrà mai accettare".
"Questo governo - dice poi il deputato azzurro - in appena sei mesi e nonostante abbia il vento in poppa della ripresa economica internazionale ha creato un clima diffuso di sfiducia". Manifestazioni di studenti e rettori, professionisti e artigiani, commercianti e imprenditori piccoli e medi, "senza contare la grande manifestazione di San Giovanni con due milioni di persone".
"Non è un caso - conclude Bonaiuti - che pezzi importanti della sinistra riformista, come Nicola Rossi e Peppino Caldarola, abbiano deciso di uscire dai Ds".
L'abbassamento dell'età pensionabile promessa in programma dell'Unione "è la cambiale satanica che Prodi ha firmato per vincere le elezioni". Così Giulio Tremonti, vicepresidente di Forza Italia ed ex ministro dell'Economia, è tornato a criticare il governo sulla riforma delle pensioni sostenendo che la maggioranza e l'esecutivo fanno confusione.
"Ieri il ministro Damiano - ha osservato Tremonti - ha detto che la modifica dei coefficienti l'avrebbe dovuta fare il governo Berlusconi. Ma la riforma Dini aveva previsto una verifica dopo dieci anni dalla sua entrata in vigore e dunque nel 2005. Una verifica, tuttavia, che sarebbe stata secondo l'ex ministro "troppo complicata con il Parlamento sciolto". Insomma, ha aggiunto, "la questione posta da Damiano è infantile: siamo a gennaio e quindi la facciano loro la verifica dei coefficienti".
Secondo Tremonti la cosa "fondamentale" è la questione del cosiddetto scalone. "Nel programma elettorale della sinistra - ha osservato - c'era l'abbattimento ed ora sorge un problema: siccome nel 2008 entra in vigore la riforma Maroni ci sono 4-500 mila persone che non sanno che futuro avranno e cosa devono fare. Se andare in pensione a 60 anni, come prevede l' attuale legge, o a 57 come prevede la riforma contenuta nel programma dell' Unione".
"Questa - ha concluso - è la cambiale satanica che Prodi ha firmato per vincere le elezioni. La sinistra ricorda quel tipo che al bar dice ‘pago da bere a tutti'. Ma chi paga? Voi. In ogni caso se si abbassa l'età pensionabile si scassa il sistema e la sostenibilità dell'Inps, ma se invece non si mantiene la promessa elettorale allora bisogna portarli in una fabbrica e fare spiegare loro che i lavoratori sono stati ingannati".
"Tommaso Padoa-Schioppa è un bugiardo, che dovrebbe chiedere scusa a Berlusconi e Tremonti, perché ha detto che il Paese era in una situazione peggiore di quella del ‘92". Così Fabrizio Cicchitto, vicecoordinatore nazionale di FI, ha attaccato il ministro dell'Economia.
"Allora, o non è informato sui fatti o dice il falso" ha aggiunto Cicchitto. L'esponente azzurro ha poi criticato i contenuti della manovra, sostenendo che esiste una "perversa alleanza fra la Cgil e alcuni grandi gruppi industriali".
Prova ne sono, ha proseguito, "i provvedimenti contenuti nella finanziaria sulla mobilità lunga, sulla rottamazione delle auto e dei frigoriferi e sugli incentivi alle palestre". "Si tratta - ha concluso - di una manovra classista, che però non riesce neanche a essere populista, visto lo scontento degli italiani".
La scelta del voto segreto per segretario e mozioni al congresso ha dato una boccata d'ossigeno a Fassino, attenuando le polemiche con la sinistra interna, ma potrebbe diventare un cappio al collo per il segretario diessino. Dopo aver tergiversato per settimane sulla richiesta della sinistra interna, Fassino deve aver pensato che evitare la rottura con il correntone potesse essere l'unico modo per uscire dall'impasse, offrendo ancora una volta l'immagine di un dirigente che sacrifica i propri interessi personali per trovare un percorso unitario all'interno del partito. Ma la direzione di ieri aveva l'unico compito di fissare le regole delle assise di aprile, perché era assolutamente vietato parlare di politica, come aveva ammonito D'Alema - a microfoni aperti - prima dell'inizio dei lavori. Gli scenari politici nella Quercia sono tutti in alto mare, anche se i dati di fatto dicono chiaramente che Fassino non ha più in mano la bussola del partito: tutti, da Veltroni a D'Alema, da Mussi alla Finocchiaro, giocano ormai una partita in proprio, guardando "oltre" l'attuale segretario, sia che nasca in tempi brevi il Partito democratico, sia che la Federazione con la Margherita lasci tutto sostanzialmente invariato. E' già partita la corsa, insomma, ai nuovi organigrammi, e non a caso si parla di un possibile rimpasto di governo che vedrebbe coinvolto proprio Fassino. In questa situazione, il grido d'allarme lanciato ieri dal leader del Botteghino ("C'è un tentativo di delegittimazione dei Ds"), più che un tentativo di ricompattare il partito in un momento di difficoltà, è apparso come l'ultimo appello di un segretario alla frutta.
Il partito, infatti, non è mai stato così diviso, e la vicenda della base americana di Vicenza ha dato nuova linfa alla fronda della sinistra interna, mentre i riformisti appaiono sempre meno convinti della piega presa dagli eventi. E Fassino è sempre più solo.
Non è più la riforma, ma la controriforma. Sulle pensioni, Rifondazione Comunista fa terra bruciata: non soltanto della riforma Maroni, ma anche della riforma Dini. Abolizione dello scalone (era nel programma dell'Unione), ma anche il ritorno a un'età pensionabile di 57 anni, un ulteriore sconto di due anni per "operai,turnisti (pubblici e privati), per chi svolge un lavoro stressante", no agli scalini, ai disincentivi, alla revisione dei coefficienti.
Il "paradiso pensionistico" immaginato da Giordano si completa con l'aumento dei minimi pensionistici e la riforma degli ammortizzatori sociali. Propositi, questi ultimi, condivisibili. Se non fosse che mancano i soldi. La copertura finanziaria dovrebbe arrivare dalla lotta all'evasione fiscale (una "partita" presunta) e all'evasione contributiva (elevata a "reato penale").
Rifondazione ha scavalcato anche i sindacati. Tanto da far sbottare a Epifani: "Finirà che ci terremo la Maroni".
Tremonti ha sintetizzato i due corni del problema per il governo: o scassa il sistema pensionistico oppure va incontro a una crisi di consensi. E' questa "la cambiale satanica di Prodi". Che decida di pagarla oppure no, l'unica cosa certa è che nessuna decisione sarà presa prima delle elezioni amministrative.
D'altronde la posizione espressa da Rifondazione è talmente radicale e disastrosa per i conti dello Stato, così incompatibile con i moniti che ci vengono da Bruxelles, da dover essere letta soltanto in chiave politica: un vero e proprio "manifesto elettorale" per arginare un eventuale perdita di consensi verso il partito di Diliberto e per drenare voti nell'area ds.
Significativo il fatto che Giordano abbia deciso di sfondare anche la "linea Maginot" della riforma Dini, sulla quale gran parte dell'Unione si è finora attestata per liquidare quella di Maroni come inutile e dannosa. Ma perfino Dini, oggi, si dice convinto che "l'età pensionabile di anzianità deve confermare lo scalone della riforma Maroni". All'"amico" Padoa Schioppa indirizza una freccia intinta nel veleno: "Nel Dpef ha scritto che ci vogliono quattro riforme, la prima era quella pensionistica. Non credo che si voglia smentire. Se lo facesse, verrebbe meno alla sua stessa credibilità". Uomo avvisato...
E' ingeneroso dire, come fa Casini, nella lettera pubblicata oggi dal Corriere, che "l'Italia ha bisogno di imboccare subito la strada delle riforme...".
Come se fossimo all'anno zero! E le 36 riforme realizzate dal governo Berlusconi nella passata legislatura? Casini non pensa che la legge Biagi, la riforma fiscale di Tremonti, la riforma della scuola, la legge obiettivo, la riforma della disciplina sull'immigrazione, la riforma del diritto fallimentare, la riforma del diritto societario, la riforma del risparmio e della Banca d'Italia, siano state delle riforme?
E ancora: Casini chiede che si cominci dal "sistema previdenziale". Ma, in questo campo, la riforma è stata già fatta, ottimamente, nel 2004, con la Maroni-Tremonti, sia per quanto riguarda la sostenibilità del primo pilastro, che per il trattamento di fine rapporto. E non è stato facile. Cos'altro vuol riformare Casini! Non crediamo che voglia sposare la linea controriformista di Prodi: cancellare cioè l'innalzamento dell'età pensionabile, e far così ripiombare l'intero sistema nell'insostenibilità finanziaria nel prossimo decennio. E allora?
Liberalizzazioni: concordiamo con Casini sul giudizio negativo da dare ai provvedimenti Bersani nella scorsa estate.
Sul tema, infine, dei monopoli pubblici locali di aziende ex municipalizzate bisognerebbe onestamente riflettere sul perché, tutti insieme, nella passata legislatura, in presenza di una congiuntura stagnante, abbiamo deciso di aspettare tempi migliori. Oggi però, il nostro giudizio sul Ddl Lanzillotta è, se possibile, ancor più critico di quello di Casini. Non basta, come fa la Lanzillotta, insistere semplicemente sulla razionalizzazione nelle forme di gestione dei servizi pubblici da parte dell'ente locale. Occorre liberalizzare e privatizzare per davvero. Questo è il vero terreno di confronto col governo.
In ogni caso ben venga all'interno della Casa delle Libertà questo dibattito. Forza Italia metterà tutti questi temi al centro della terza conferenza programmatica degli amministratori locali nel mese di marzo a Fiuggi.
Nonostante gli abbiamo affibbiato la tuta da cantiere, Di Pietro non rinuncia alla sua vecchia e non sempre gloriosa toga di magistrato: e se Mastella lo ha invitato a non interferire sul lavoro di via Arenula, i giornali lo interpellano spesso come esperto giuridico. Il Corriere della Sera gli riserva uno spazio d'onore sulla vicenda "unabomber" e su quel malcapitato ingegnere che per mesi è stato marchiato come responsabile dei delitti del folle bombarolo del nord e che oggi viene scagionato da una semplice controperizia.
La solita sciatteria dei magistrati italiani che - questa volta - vengono bacchettati anche da Antonio Di Pietro: "Hanno messo in croce un povero cristo. Se questi sono i risultati era doveroso stare zitti. Le prove devono essere inconfutabili", dice l'ex Pm di Milano. "E non dimentichiamo che l'accusa ha l'obbligo di cercare anche le prove a favore dell'indagato". Parole sante che sembrano stonate sulla bocca di chi - insieme ai suoi colleghi del pool Mani Pulite - ha fatto scempio di verità, garanzie e diritti individuali.
Avremmo voluto che questi pensieri e questi comportamenti gli appartenessero allora, quando la sua toga era protagonista delle inchieste di tangentopoli. Oggi è troppo facile.
Avremmo voluto che rinunciasse alle manifestazioni di piazza con famiglie intere inneggianti, palloncino alla mano, al "fans club Di Pietro".
Avremmo voluto che non usasse il carcere come strumento di pressione per la confessione o la delazione, avremmo voluto che non inseguisse i poveri cristi con inchieste rivelatesi poi fasulle.
Avremmo voluto che le sue inchieste non spingessero alcuni indagati all'atto estremo del suicidio, avremmo voluto che venisse davvero fatta giustizia, senza telecamere e comunicati stampa.
Avremmo voluto che lui che pomposamente si richiama all'"Italia dei valori" portasse in politica davvero il valore dello stato di diritto, della giustizia giusta. Così non è, né la sua intervista di oggi ci fa dire: "Benvenuto fra i garantisti, fra i cultori della giustizia giusta, dottor Di Pietro", perché nessuno cade nel tranello.
Com'era prevedibile, e come hanno denunciato i giovani di Forza Italia in questo ultimo mese, la questione generazionale sta montando e sta diventando un tema centrale della politica italiana. Soprattutto a sinistra, dove il fallimento dei "riformisti" a Caserta apre un nuovo problema nel rapporto tra i partiti di governo e l'elettorato giovanile, roccaforte alle ultime elezioni.
Non è un caso che Fassino oggi conceda un'ampia intervista a "Il Venerdì di Repubblica" rilanciando sui giovani e sul blocco generazionale. E' singolare che proprio lui parli di flessibilità del lavoro, quando sono stati i suoi compagni di partito che, fin dalle prime battute, hanno cercato di affossare la legge Biagi.
Fassino paradossalmente sposa le tesi liberali di Forza Italia e cerca di camuffarle parlando di equità e meritocrazia, come se la sinistra volesse costruire una società liberale che dia pari opportunità di partenza e Forza Italia invece volesse schiacciare l'individuo in un mero darwinismo sociale.
Sappiamo bene che si tratta di fumo negli occhi lanciato ai giovani italiani e alle loro famiglie, ma non possiamo permettere che sia il leader della Quercia a farsi paladino della questione generazionale in Italia. Non possiamo concedere alla sinistra di essere maggioranza e opposizione, liberale e antagonista, riformista e conservatrice. Il baluardo della questione generazionale è in mano unicamente a Silvio Berlusconi, unico leader in grado di farsi promotore dello svecchiamento del sistema Paese.
La sinistra parla ai giovani dei loro problemi senza però proporre ricette innovative.
La sinistra continua ad avanzare proposte che vedono sempre più presente e incombente lo Stato come solutore dei problemi economici ed esistenziali dell'individuo, commettendo l'errore di sempre. Per creare sviluppo, e quindi ricchezza, e quindi lavoro, e quindi sicurezze sociali, lo Stato non deve sostituirsi al sistema economico del Paese, ma deve fornire ad esso le condizioni strutturali e logistiche.
Quindi non affrontare il tema dello sviluppo, ma abbandonarsi a metafore, come quella dell'equità, significa di fatto, ancora una volta, ingannare un'intera generazione di giovani per non rinunciare alla la propria ideologia di fondo; comunista: statalista e massimalista.