Alla Farnesina non ci sono idee chiare sull'Afghanistan: il ministro D'Alema sostiene infatti che un governo deve avere una maggioranza in grado di sostenere la sua politica estera, e lo dice con parole inusualmente nette: "Per quanto mi riguarda, non sono attaccato alle poltrone (...). Serve voltare pagina dopo anni segnati da tragici conflitti e da politiche unilaterali. Spero che il risultato trovi consensi. Se no, pazienza, non farò drammi".
Ma il sottosegretario Vernetti (Margherita) spiega in un modo molto diverso la linea del governo, che sarebbe quella di "non mettere la fiducia sull'Afghanistan e approvare il decreto con una maggioranza più ampia possibile". E se poi in quella maggioranza "ampia" risulteranno determinanti i voti dell'opposizione di centrodestra, poco male, visto che "anche la Costituzione europea passò nella scorsa legislatura senza i voti della Lega e con l'apporto dell'opposizione di centrosinistra, e il governo certo non cadde per questo". Sulle posizioni di Vernetti, e non di D'Alema, si sono schierati ieri anche il ministro Chiti e la senatrice Finocchiaro, sostenendo che nei sistemi di coalizione, sui temi di frontiera vi possono essere posizioni differenziate all´interno della maggioranza, e che dunque il governo non correrebbe alcun rischio anche se alcuni ribelli dell´Unione in aula dicessero no al rifinanziamento della missione in Afghanistan.
Da questo fuoco di sbarramento appare chiaro che l'Unione è consapevole di non avere una maggioranza autosufficiente su una fondamentale scelta di politica estera, e si prepara a sminuire la portata politica del probabile "incidente" parlamentare. Anche se - D'Alema docet - non tutti sembrano d'accordo su questa linea minimalista. Mastella, per esempio, non è convinto della possibilità di un passaggio indolore, visto che "un governo che non ha maggioranza sulla politica estera non è un governo". E dal Quirinale è trapelata l'intenzione, in caso di non autosufficienza della maggioranza, di costringere Prodi a un ulteriore passaggio parlamentare nel quale il governo dimostri di avere ancora la fiducia della sua maggioranza nei due rami del Parlamento. Domani, intanto, il decreto sarà varato dal Consiglio dei ministri, e non basteranno certo i buoni propositi di D'Alema sul rafforzamento della natura politica della missione a far cambiare idea ai ministri di Rifondazione, Verdi e Pdci, che non voteranno il decreto. Poi si aprirà una lunga trattativa parlamentare sul testo di una mozione da accompagnare al provvedimento. Il tutto però è complicato dallo scontro sulla base Usa di Vicenza: il primo febbraio, al Senato, verranno discusse le mozioni parlamentari sulla vicenda, e la maggioranza rischia di spaccarsi verticalmente. La Finocchiaro individua come lo scenario più pericoloso quello nel quale la Cdl votasse sì nel caso in cui il governo ponesse la fiducia. Ma questo non accadrà comunque, perché - come ha sottolineato Cicchitto - in caso di fiducia sarebbe impossibile per Forza Italia votare sì. E poi Prodi ha in mente un'altra strategia: se il rifinanziamento della missione sarà approvato con i voti determinanti della Cdl, il Professore è pronto a chiedere immediatamente la verifica della maggioranza. Proporrà al Senato subito un documento su cui porre la fiducia senza però aprire una formale crisi di governo. Ma la maggioranza ne uscirà comunque indebolita, se non "terremotata".
La sinistra, per resistere al potere, sta inventando una nuova forma di fiducia: la fiducia differita.
Ragionando sulla eventualità che il Governo non abbia la maggioranza sulla questione dell'ampliamento della base militare americana di Vicenza o sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, si fa strada l'ipotesi che il soccorso determinante dell'opposizione di centrodestra su questi temi non debba essere considerato come un atto di sfiducia verso il Governo, comportante le sue dimissioni.
Il governo incasserebbe una sfiducia reale, cioè il venir meno di una maggioranza su questi temi, poi, successivamente, porrebbe una questione astratta di fiducia, che verrebbe approvata dalla propria maggioranza e quindi continuerebbe a governare come se nulla fosse successo.
Il succo di questa fiducia astratta sarebbe: vogliamo continuare a stare al potere? Naturalmente la risposta sarebbe positiva, la maggioranza – senatori a vita compresi – si compatterebbe per manifestare la propria gioia di continuare a governare.
La trasformazione della sfiducia in fiducia sarebbe un miracolo, cui si potrebbe dare il nome di fiducia differita.
Ma questo Governo sta abituando gli italiani ai miracoli, come la moltiplicazione delle entrate fiscali, cui è seguito ieri, quello della dichiarazione di Prodi "i conti sono a posto".
A meno che non si attribuisca all'aumento di qualche licenza di taxi, al risparmio di qualche euro sui medicinali o sulla chiusura dei conti correnti, un effetto profetico che avrebbe causato l'improvviso rientro del deficit pubblico da oltre il 4% a meno del 3%, cioè entro i parametri di Maastricht.
Ora la maggioranza di centrosinistra ha fatto proprio l'appello di Borrelli: "Resistere, resistere, resistere". Al potere, ovviamente, scardinando la Costituzione, nella speranza che accada un altro miracolo: la deflagrazione del centrodestra.
Attesa destinata ad andare delusa poiché FI, An e Lega sembrano restare unite e anche nell'Udc non tutti sono pronti a sostenere la sinistra sulla politica estera purché non ponga la fiducia.
In coincidenza con la spinta insurrezionale degli Hezbollah per rovesciare il legittimo governo libanese, il ministro degli Esteri ha dato un'intervista al Messaggero in cui non nomina il Libano. Un peccato. Piacerebbe sapere come il governo intende usare il contributo alla stabilizzazione del Libano, offerto con l'invio di un forte contingente militare. In compenso, In compenso, D'Alema si sofferma sulle due questioni che fanno traballare la maggioranza di centrosinistra: Afghanistan e Vicenza. Determinato sulla prima e decisamente stravagante sulla seconda.
Il ministro oppone all'offensiva dell'ultrasinistra contro il rifinanziamento della missione militare a Kabul la impossibilità di procedere a un ritiro unilaterale senza annichilire la presenza dell'Italia sulla scena internazionale. Riconosce che "un governo deve avere una maggioranza in grado di sostenere la sua politica estera". Affermazione corroborata da una certa disponibilità a dimettersi dall'incarico: "Non sono attaccato alle poltrone". Il che non gli impedisce di farsi carico del tentativo di ribaltare, all'Onu e nella Nato, la strategia per l'Afghanistan, trasformando la lotta contro il terrorismo in una sorta di crociata umanitaria.
Ma è sull'ampliamento della base Usa di Vicenza, che D'Alema perde la trebisonda. Arriva a sostenere due tesi insostenibili e contraddittorie. Per lui l'ampliamento è la conseguenza sia di una decisione del governo Berlusconi, sia dell'autonoma scelta del Comune di Vicenza. Due menzogne funzionali allo scaricabarile delle responsabilità. Né il governo Berlusconi autorizzò l'ampliamento (si limitò a dare corso alla richiesta Usa di condurre studi di fattibilità), né è sostenibile che un Comune possa assumere in proprio la responsabilità di decisioni concernenti la politica estera e di sicurezza del Paese.
D'Alema e Prodi debbono credersi molto furbi quando sostengono l'insostenibile: se la base Usa è battezzata questione municipale, l'ultrasinistra può renderla irrealizzabile. Le basta premere sulla amministrazione locale con i metodi dei no-Tav, o degli Hezbollah libanesi. Davvero una bella prova di "serietà al governo".
Aumenta la distanza fra il governo dell'Unione e la società italiana: sale il numero dei moderati fortemente critici nei confronti di Prodi e della sua squadra rissosa, ma cresce anche la schiera dei delusi, di chi ha votato per il centrosinistra e non è disposto a una nuova apertura di credito.
I sondaggi testimoniano il progressivo calo di consensi dell'Unione; l'ultima inchiesta demoscopia effettuata due giorni fa dall'Istituto Piepoli ( con le procedure e le garanzie previste per queste materie) dice quali sono le previsioni degli italiani per le prossime elezioni amministrative che impegneranno 11 milioni di elettori.
Il risultato è netto e significativo: un italiano su due (esattamente il 48 per cento del campione) si dice certo che alle amministrative il centrodestra trionferà; il 18 per cento ritiene che prevarrà il centrosinistra, il 16 per cento pensa che tutto rimarrà come prima, mentre un altro 18 per cento non ha opinioni. Insomma, Cdl batte Unione quasi 3 a 1.
Che lo stesso popolo di centrosinistra sia depresso e poco incline all'ottimismo lo dimostra, nello stesso sondaggio, l'analisi delle risposte fatte in base all'orientamento politico. Anche il 35 per cento degli elettori dell'Unione ritengono che sarà il centrodestra a vincere, mentre un altro 35 per cento crede che prenderà più voti il proprio schieramento. La prospettiva della vittoria è svanita: i più speranzosi, a sinistra, ipotizzano un pareggio.
Altra tensione dinamica nel centrodestra: il 79 per cento degli intervistati ritiene che il centrodestra nella tornata di primavera prenderà più voti; soltanto un marginalissimo 3 per cento pensa che l'Unione riuscirà a sfangarla.
Nel Paese è in atto una palese e poderosa rimonta dei moderati ed il merito di questa tensione positiva delle forze che si richiamano a una visione liberale dello Stato e della società va soprattutto a Silvio Berlusconi, il cui ottimismo contagioso ha mobilitato tanti italiani distanti dalla politica e non abituati a scendere in piazza. La grandiosa manifestazione di Roma, a dicembre, ha mostrato quale lievito civile e liberale può far crescere il peso politico dei moderati. L'ottimismo di Berlusconi non è un semplice esercizio di volontà, nasce da un'analisi accurata della società italiana e dei danni enormi che il governo attuale può arrecare al Paese. I sondaggi confermano che rispetto all'aprile 2006 l'Italia moderata è cresciuta, e di molto. La "seconda ondata" di cui parla il leader della Cdl è possibile e le prossime amministrative potrebbero essere una fase fondamentale di questo processo politico. Ma i sondaggi non bastano. In ogni elezione, specie in quelle "amministrative", contano le idee e i programmi, ma contano anche gli uomini, perché le idee camminano con le gambe degli uomini e si mostrano con le loro facce. Le premesse sono tutte a favore del centrodestra, ma bisognerà scegliere le persone giuste, le facce giuste, persone che sappiano intercettare e canalizzare il consenso che già c'è per lo schieramento della libertà.
La decisione di andare a "vedere il gioco" del governo sulle liberalizzazione è saggia non solo per ragioni tattiche: per non lasciare ad altre componenti delle forze di centrodestra il ruolo di protagonisti di un'opposizione "intelligente" e "nel merito". Ci sono, infatti, ragioni strategiche che spingono non solo ad accettare la sfida del governo sul terreno delle libertà economiche, ma a rilanciarla.
Nella scorsa legislatura a tirare il freno furono quei partiti di centrodestra convinti di rappresentare sul piano elettorale alcune categorie-corporazioni in cui prevale chi ha paura della concorrenza rispetto a chi vuole più libero mercato. Ma ci fu anche chi si mise di traverso sul capitolo forse più importante: la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
La legge finanziaria presentata da Tremonti nel 2002 prevedeva un robusto intervento liberalizzatore sulle public utilities. Ma gli alleati bloccarono quelle norme e Tremonti dovette accettare la loro posizione: da allora non si fece più nulla.
E' proprio sul terreno delle public utilities che Forza Italia può rilanciare. In quel settore la sinistra, nelle regioni rosse e non solo, ha creato una sorta di "socialismo municipale" di stampo neostatalista, intrecciato a filo doppio con le coop rosse e che rappresenta un blocco di potere sempre più forte e capace di alimentare un flusso finanziario e di consenso non indifferente verso i partiti di sinistra.
Il disegno di legge del governo, a firma Linda Lanzillota, tocca solo marginalmente i privilegi che oggi le nuove "mini-Iri" locali hanno ed elude il tema del ruolo delle cooperative.
La discussione sulle liberalizzazioni è allora l'occasione per lanciare un offensiva seria e di mercato sui privilegi che le coop hanno ottenuto negli scorsi decenni e che si stanno ampliando parallelamente alla crescita dimensionale delle coop rosse.
Non si tratta, certo, di attaccare lo spirito della cooperazione, ma è inaccettabile che imprese quotate in borsa siano controllate da soggetti economici, le cooperative, la cui natura solidaristica è scomparsa da tempo per lasciare spazio al ruolo di holding finanziarie che operano in regime di concorrenza sleale nei confronti delle "normali" imprese private.
Le coop rosse, come ha recentemente detto Silvio Berlusconi, rappresentano una metastasi del nostro Paese: è il momento di sferrare il primo colpo.
Joacquin Almunia, prima di essere il commissario agli affari economici della Commissione europea, è un politico. Per di più di sinistra. Pertanto, prima di criticare apertamente un Paese come l'Italia (fra i soci fondatori) e per di più ora retto da un governo di centro-sinistra, ci pensa due volte. Il suo ruolo di commissario, però, gli impone onestà intellettuale. Per queste ragioni, sbaglia chi legge nelle parole del commissario un apprezzamento per l'azione di risanamento della finanza pubblica italiana. In realtà – ricorrendo ad un lessico tecnico-diplomatico – Almunia critica l'operato del governo.
Quando dice che la riforma delle pensioni può essere introdotta entro il 2011 (anno di fine legislatura), il commissario non fa riferimento al dibattito attuale. Ma parla solo di eventuali modifiche al sistema previdenziale.
Con un particolare. Per Almunia, al momento, vale l'ultima riforma: quella Tremonti-Maroni. Ed è quella che – secondo Almunia – può essere modificata entro il 2011, e resa più incisiva. Non la "Dini" che, per il commissario, è stata superata da quella del governo Berlusconi.
Questo equivoco fa gioire il governo Prodi che esalta l'approvazione del piano di risanamento presentato dall'Italia.
In realtà, Almunia sa di cosa parla, ma non può dirlo apertamente. Così preferisce alimentare l'equivoco.
D'altra parte, il corteggiamento ossessivo al quale è stato sottoposto dal governo, ma soprattutto da Fassino (lo ha incontrato in due riprese), deve aver lasciato il segno. Così, pur di criticare la politica economica di Padoa Schioppa, ma senza dirlo apertamente, il commissario si rinchiude nel tecnicismo.
I limiti del sistema politico italiano sono evidenti: il bicameralismo partitario, il regionalismo confuso e rissoso, il deficit di responsabilità degli esecutivi e di efficienza delle istituzioni parlamentari e di governo. Maggioranza e opposizione hanno il dovere di riflettere sulle soluzioni possibili.
Da questo punto di vista, l'azione di Forza Italia è ispirata ad una serie di principi e di convinzioni ampiamente dichiarati su cui occorre ribattere:
Ormai, Fioroni ha adottato il "metodo blitz". La lettera, riportata dal quotidiano Italia Oggi, con cui il ministro ha invitato gli editori a non stampare i libri secondo "una mera adesione ai vincoli prescrittivi delle indicazioni nazionali", è un ulteriore atto di smantellamento della riforma Moratti. Ciò che in burocratese il ministro chiama "vincoli prescrittivi", in realtà sono gli obiettivi formativi prefissati dalla riforma del governo Berlusconi. Ancora una volta, dunque, si verifica una smania di discontinuità, che risente di una consistente spinta ideologica. E ciò avviene senza aver minimamente consultato studenti e famiglie, il cui ruolo, con le politiche del ministro Moratti, era stato ampiamente rivalutato, con un coinvolgimento nella scelta dei libri di testo. E, ancora più sorprendente, è che ciò debba avvenire tramite lettere "informali" che sono un vero e proprio sotterfugio alle spalle, e a svantaggio, di chi è destinatario del servizio formativo.
Con Fioroni si sta concretizzando l'idea del centralismo educativo, l'espressione di uno Stato Padre e Padrone che decide al posto dei cittadini e, ancor peggio, ne traccia le linee guida per il futuro. Con la riforma Moratti si erano gettate le basi per una scuola che fosse davvero un terreno fertile in cui ognuno potesse trovare un ambito di espressione delle proprie aspettative. Ora, invece, regredisce a un sistema arcaico e antidemocratico, in cui gli interlocutori principali non sono di certo gli studenti e le famiglie, ma i sindacati.
I giovani azzurri sono convinti che sia necessaria una forte opera di sensibilizzazione su quanto sta accadendo nella scuola: è necessario condurre una forte battaglia politica per la reintroduzione del portfolio, delle sperimentazioni, perché venga adottato tutto ciò che possa rendere il nostro sistema educativo davvero europeo. La pusillanimità di chi, per accontentare tutte le forza del centrosinistra e restare attaccato al potere, vuole solo controriformare, sta creando effetti della cui gravità ci accorgeremo, purtroppo, solo nel lungo termine.