LE TRACCE DELLA MEMORIA
Lorella Giudici

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C’è una costante nel lavoro di Antonella Prota Giurleo: la memoria. Da quando ne seguo le evoluzioni (e sono oramai diversi anni) l’elemento chiave del suo racconto, delle sue rappresentazioni è questo rapporto profondo, intimo e diretto con il ricordo, con il passato, con la storia. Non la storia aulica, quella, per intenderci, celebrata dai libri e dai dotti, ma gli eventi più semplici, genuini e sinceri della gente comune, le piccole-grandi gesta della vita di tutti i giorni. Di questo prezioso repertorio Antonella ne ha riannodato i fili, ha ritrovato le relazioni primarie, ha riafferrato i bandoli di perdute (o più spesso dimenticate) matasse in un unicum temporale, in un racconto che ha il fascino e la magia di una saga e la veridicità di una cronaca. Penso a Bucato: grandi teli (cuciti da mani amiche, da donne e uomini speciali, presenze importanti nel cammino della sua vita) su cui corrono veloci e variegate striature di colore. In queste pagine di stoffa sono condensati affetti, ricordi, pensieri, tracce di un passato che esplode davanti ai nostri occhi in un fiume di emozioni. Indomite e concitate le pennellate si rincorrono in percorsi aggrovigliati, a tratti interrotti e subito ripresi, in un desiderio affannato di racconto, in un bisogno impellente di rendere partecipe chi guarda dell’energia emotiva accumulata nella ricerca del prossimo. Penso a Gomitolo: una gigantesca massa in progress, cresciuta nel tempo e tessuta con fili di lana e cotone da diverse generazioni di donne. Quel viluppo aumenta o si dipana passando di mano in mano, di donna in donna, di luogo in luogo, in una catena ininterrotta di intrecci, di scambi, di solidarietà. Occorre esorcizzare le distanze -fisiche e mentali-, occorre ritrovare il senso di un cammino comune, lo scopo di ataviche leggi universali. Una frase di Adrienne Rich accompagna e completa il benefico rituale: "Sino a che non esisterà un forte filo ininterrotto di amore, approvazione ed esempio da madre a figlia, da donna a donna, di generazione in generazione, le donne continueranno a vagare in un territorio ostile".

Eppure, nei lavori più recenti, nei Collages ad esempio, c’è qualcosa di diverso: una sottile e indefinita vena malinconica si è insinuata tra quei brandelli di carta, un leggero senso di malessere, di ineluttabilità, quasi di pessimismo sedimenta nelle increspature della materia. Per quanto la veste sia ancora cromaticamente e formalmente vivace, forte, persino chiassosa, l’anima è minata da una latente disperazione interiore. Scopriamo, allora, che le irregolari sagome di cellulosa sono nate da una violenza, da impietosi strappi, da lacerazioni imprevedibili che hanno mostrato gli strati più profondi e vulnerabili di quella già millimetrica e cedevole epidermide. In più, a rafforzare questo cruccio, variopinti fili di lana e di cotone si attorcigliano, si allungano, si aggrappano alle superfici e imbrigliano quelle fluttuanti scaglie cartografiche in asfissianti morse. La tensione lineare, distribuita su più piani, contrasta con la dolce geografia delle forme. E, se in un primo momento abbiamo scambiato quelle corde per dei cappi, ci rendiamo poi conto che quelle carte dipinte con pietra ollare, polvere di mattone, cenere e colla, è come se avessero bisogno di un’ancora per non andare alla deriva, di lacci che le incaglino saldamente al fondale, di riferimenti che diano un senso al loro esistere, anche a costo di perdere quell’effimera libertà di movimento.

Ma il lavoro che più colpisce, per ricchezza di simboli e forza drammatica, è Ciao bambine, ciao bambini. Un’installazione che, per certi versi, è vicina ad alcune opere di Louise Bourgeois, a Pink Days and Blue Days (1997), ad esempio. Tuttavia, se nell’artista francese i temi, gli elementi dell’assemblaggio (una specie di attaccapanni dalle cui braccia penzolano vestitini rosa e camiciole di pizzo appesi a gigantesche ossa che gettano sulla tenerezza dell’insieme un bagliore sinistro e narrano i dolori di un’infanzia violata), i contenuti partono da esperienze strettamente autobiografiche, quelli di Antonella nascono da riflessioni universali, contingenti alla vita di tutti.

Quei candidi vestitini rigonfi d’aria rimandano a vite mai nate, a corpicini mai conosciuti, a piccoli angeli invano desiderati o troppo presto rapiti alla vita. Come leggeri palloncini questi indumenti fluttuano nell’aria in un poetico e triste racconto di desideri mancati, di speranze deluse, di dolci sentimenti impunemente recisi. E lo spazio circostante non è grande abbastanza per contenere l’intensità luminosa di quei bianchi, la cui inesauribile sorgente sgorga dall’interno. A terra, bianche ninfee di carta a sottolineare la caducità dell’esistenza, la dolcezza del ricordo, la fragranza dell’amore e l’impotenza del genere umano.

In fondo, è bello pensare che anche Sadako Susaki, una bimba giapponese che colpita dai bombardamenti di Hiroshima aveva eroicamente cominciato a costruire fragili gru di carta (la gru, nella cultura orientale, è portatrice di buona salute), sia ora una piccola perla di luce. A lei è dedicata l’opera Culture di pace: una cascata di gru di origami e di pagine stampate scritte in differenti linguaggi e riunite in un universale messaggio di pace.

Lorella Giudici

"Ogni vero ricordo è ancora un richiamo, una verità che ci lavora nelle ossa, un febbrile atto di sfida al buio di domani."

(Giovanni Arpino, L’ombra delle colline.)