"Gli italiani vogliono cambiare questo governo e questa maggioranza taroccata" e dunque l'Italia "tornerà a essere governata dal fronte liberale e da un uomo di sinistra come me: è un paradosso ma è vero visto che l'unica politica sociale di sinistra l'abbiamo fatta noi del centrodestra".
Così Silvio Berlusconi, è tornato a criticare l'operato dell'esecutivo di Romano Prodi poco prima di entrare ad una cena con i deputati azzurri.
"Continuo a sperare che questa maggioranza imploderà al suo interno", ha proseguito Berlusconi. "Stanno azzerando tutto il gran lavoro che abbiamo fatto in cinque anni: stanno facendo fare numerosi passi indietro al nostro paese, mentre non sono in grado di fare le riforme positive".
"Questo - ha aggiunto - è un grande peccato perchè il paese sta perdendo prestigio sulla scena internazionale, gli investitori sono preoccupati e i capitali stanno andando all'estero". "Stanno facendo cose che non hanno cittadinanza in una democrazia piena e compiuta e per questo il mio giudizio non può che essere assolutamente negativo". Inoltre, ha aggiunto Berlusconi, "sono assolutamente convinto che le cose che dico le pensano 73 italiani su 100 come dicono i sondaggi".
Ai deputati di Forza Italia, ha aggiunto Berlusconi, "dirò che l'Italia ha bisogno di noi e dobbiamo andare avanti con grande determinazione perchè gli italiani vogliono cambiare questo governo e questa maggioranza taroccata che non ha neppure vinto le elezioni perchè hanno imbrogliato".
"Prima o poi - ha proseguito - la verità verrà a galla e l'Italia che non ha una maggioranza di sinistra tornerà ad essere governata dal centrodestra".
"Non so cosa farà la maggioranza sulle pensioni visto che uno dice una cosa e uno ne dice un'altra. Aspettiamo di vedere cosa saranno in grado di fare". Così Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia, ha risposto a una domanda sul tema della riforma del sistema pensionistico e sulla capacità del governo di modificarlo.
"È ormai un vezzo riferire tra virgolette frasi che il presidente Berlusconi non ha pronunciato e anche stamani alcuni quotidiani indulgono a ricostruzioni di fantasia. Spiace soprattutto che siano attribuite al presidente Berlusconi quelle che sono eventuali interpretazioni di suoi interlocutori più che giudizi mai espressi".
Ad affermarlo è, in una nota, l'on. Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi.
"Sull'Afghanistan si rischia di cadere nel politichese. Invece è meglio stare a quello che stamane ha detto con grande senso di responsabilità Massimo D'Alema: una maggioranza non è tale se non è autosufficiente in politica estera". Così, intervistato da Baobab di Radiouno Rai, l'on. Paolo Bonaiuti ha espresso il suo consenso alla tesi del ministro degli Esteri. "Noi voteremo - ha aggiunto il portavoce di Silvio Berlusconi - a favore della missione in Afghanistan. Ma spero che il governo non arrivi al voto di fiducia, ma abbia il coraggio di affrontare la questione: ha o non ha la maggioranza?". A proposito della situazione in Libano, Bonaiuti ha detto di essere "preoccupato per l'inasprimento della situazione. Le motivazioni con le quali siamo andati sono sempre valide, esattamente come per l'Afghanistan".
Per il portavoce di Berlusconi "il rischio di implosione per il governo è continuo", al punto che "il Senato si è concesso la più lunga vacanza mai fatta". "Ma questo accade - ha spiegato Bonaiuti - solo perchè non sono affatto sicuri di avere la maggioranza. Così a palazzo Madama passano le settimane, in attesa di lavori che non ci sono". Il parlamentare ha confermato che tutti i sondaggi, e non solo quelli di Berlusconi, danno in vantaggio il centrodestra: "I cittadini si accorgeranno tra gennaio e febbraio quale scarica di tasse riceveranno".
"Nell'Unione c'è una continua rissa interna. Litigano continuamente con se stessi. Non possiamo pretendere che si mettano d'accordo anche con noi". Così Paolo Bonaiuti ha risposto al conduttore di Baobab (Radiouno) che gli chiedeva se il centrodestra accoglierà l'appello del Presidente della Repubblica ad un vasto consenso sulle riforme. Il portavoce di Berlusconi si è detto d'accordo con il Quirinale, aggiungendo che sarà però difficile realizzare questo auspicio per colpa del centrosinistra. Sulla legge elettorale Bonaiuti ha ricordato che Forza Italia ha dato due indicazioni: sì al rafforzamento del sistema bipolare; no al doppio turno.
"Questo - ha concluso - favorirebbe la sinistra i cui militanti sono più ‘militarizzati' dei nostri e vanno più facilmente a votare al secondo turno".
"Esultare per mantenere lo status quo significa far rischiare ai giovani di rimanere senza pensione".
Per il portavoce di Berlusconi, il problema delle pensioni "deve essere affrontato tutti insieme perché è una questione che potrebbe diventare ossessiva".
Padoa Schioppa va alla guerra della sua stessa maggioranza. A Montecitorio annuncia che non ci sarà nessuna restituzione fiscale prima del 2009, e a Repubblica confida che non molla sulla strada dell'allungamento dell'età pensionabile e dell'aumento dei coefficienti.
In due mosse, il ministro dell'Economia si mette contro i progetti di Rutelli e Fassino che avrebbero voluto un minor prelievo fiscale già a partire dalla fine di quest'anno; al massimo all'inizio del 2009. E si mette anche di traverso al sindacato ed alla sinistra estrema che non vogliono nessun intervento previdenziale.
Una prova di indipendenza al limite del suicidio politico, che può essere prodromo di due fenomeni: la sua uscita dal governo (visto che questa maggioranza non lo asseconderà sulla mancata restituzione fiscale, né sugli interventi previdenziali), o l'ennesima marcia indietro.
D'altra parte il ministro che ora dice che bisogna intervenire sulle pensioni, è lo stesso che al conclave di Caserta aveva detto: un intervento sulla previdenza non è urgente, prima arriva la riforma dell'assistenza e del welfare state.
Padoa Schioppa, poi, per giustificare la sua scelta di non ridurre le tasse spiega che solo nel 2009 sarà possibile verificare se il gettito aggiuntivo (garantito dal governo Berlusconi) si dimostrerà strutturale. E fa coincidere l'eventuale riduzione del carico fiscale a ridosso delle elezioni europee.
E poco importa se Fassino e Rutelli avevano detto l'esatto contrario. Ormai Tps si muove nel governo come quei Poteri Forti che alzano la testa per la crisi della Politica. La Politica, intesa come arte del decidere, è in crisi: questo governo litiga su tutto e non decide. E lui pensa di sostituirla. Salvo poi essere pronto a fare marcia indietro.
L'Authority per la concorrenza dovrebbe decidersi a occuparsi del governo Prodi. E' contro tutte le regole del mercato politico appropriarsi della dialettica dei ruoli, instaurando un monopolio di fatto di entrambe le funzioni istituzionali di governo e di opposizione.
Prodi non ha alcun bisogno di un'opposizione parlamentare. Ne ha d'avanzo di quella che ogni questione in agenda incontra nell'ambito della stessa coalizione ministeriale. Altro che la favola ingannatrice della legge elettorale come causa delle difficoltà di Prodi.
La colpa dei suoi mali ricade su questo centrosinistra sgangherato.
Prodi si è limitato ad aggiungere al male la frode del famoso librone dei sogni programmatici, che avrebbe dovuto contenere tutte le risposte alle future scelte del governo. Come se fosse possibile dare forma alle infinite suggestioni che concorrono alla formazione della decisione politica.
La situazione reale è quella che si ricava dalla lettura dei giornali di oggi:
I tre partiti della sinistra alternativa riluttano al rifinanziamento della missione militare in Afghanistan. Ricattano il governo di cui fanno parte: il loro voto solo in cambio di un "segnale di discontinuità". Ma per un manipolo di senatori movimentisti non c'è discontinuità che tenga: voteranno no comunque. La forza della disperazione ispira alla diessina Finocchiaro la proposta demenziale di battezzare "questione di coscienza" l'atteggiamento sulla presenza delle truppe, così da lasciare libertà di voto. La scelta, per Prodi, è tra la padella e la brace: se mette la fiducia rischia la crisi, se non la mette e apre al sostegno dell'opposizione la sua coalizione va in pezzi. Da qui la tentazione di uno scambio tra il rifinanziamento e la retromarcia dall'ampliamento della base Usa di Vicenza. Sarebbe come dare un calcio all'alleanza con gli Stati Uniti per tacitare i fanatici della "discontinuità".
Qui lo scontro è tra "riformisti". Il "fazzoletto" di provvedimenti del ministro Rutelli contro la "lenzuolata" del ministro Bersani. La disputa investe la scelta delle clientele elettorali da sacrificare o premiare, in vista delle amministrative di primavera. Nel dubbio, il Consiglio dei ministri è andato ancora in bianco.
Qui è l'Udeur di Mastella che s'impunta e minaccia di fare blocco col centrodestra in un fronte del rifiuto del simil-matrimonio escogitato a quattro mani dalla Bindi e dalla Pollastrini. Contestato duramente, sul versante opposto, anche da Rifondazione e dai movimenti gay: reclamano un vero registro delle unioni.
Tommaso Padoa-Schioppa esclude che possano diminuire prima del 2009, ma Rutelli gli rinfaccia l'art.1 della legge finanziaria, che apre alla possibilità di ridurle già dal 2007.
Qui lo scontro, all'arma bianca, è tra Tps, spalleggiato dalla Banca e dalla Commissione europee, e i partiti dell'ultrasinistra, spalleggiati dai sindacati. Questi vaneggiano di abolire l'odiato scalone della riforma Maroni, nonché alzare i coefficienti di calcolo contenuti nella riforma Dini.
Tommaso Padoa Schioppa oppone il costo economico insostenibile dell'afflato "sociale" della sinistra, conteggiato dalla Ragioneria dello Stato in 200 miliardi di euro da qui ai prossimi 20 anni. Anche oggi al centro del contenzioso c'è una pretesa di "discontinuità": dal senso comune. Governare la modernizzazione del sistema insieme con le forze antisistema è una cosa semplicemente impossibile.
La lunga lista di più di 100 misure di liberalizzazione portata dal ministro per lo sviluppo economico, il diessino Bersani, al Consiglio dei ministri è il topolino partorito dalla montagna.
Seppure annunciate con fragore dai media, le nuove regole di mercato annunciate faranno il solletico ai settori protetti e non incideranno, se non marginalmente, sulle tasche dei consumatori.
Certo, come ha detto il presidente dell'Autorità per la concorrenza e il mercato, Antonio Catricalà, ogni segnale di liberalizzazione è di per sé un fatto positivo. Ma chi si attende che dal cilindro di Bersani esca un'Italia liberista rischia di coltivare un'illusione fanciullesca.
La vendita della benzina presso i centri commerciali, ad esempio, potrà portare lo sconto di meno dell'1% per litro di carburante, 10 centesimi al litro, al massimo 5-6 euro alla settimana per un automobilista medio. Nulla rispetto all'ingente carico fiscale che grava sui prodotti petroliferi.
L'abolizione dei costi di ricarica per i cellulari, invece, sarà probabilmente aggirata dai gestori di telefonia mobile con un leggero ritocco delle tariffe che, paradossalmente, per alcune fasce di utenti potrà portare a un più elevato costo mensile.
L'abolizione dei costi di chiusura anche per i conti titoli, oltre che per i conti correnti (misura approvata con il decreto Visco-Bersani della scorsa primavera), mette rimedio ad una dimenticanza ma non ridurrà granché i ricavi delle banche, che potranno spostare gli oneri sui costi di esercizio del conto, incassandoli così anticipatamente e da tutti i clienti, anche quelli che il conto non lo chiudono.
Sono solo tre esempi che dicono chiaramente quanto le liberalizzazioni di Bersani siano più propaganda che altro.
Ed è per questo che il vicepremier Rutelli che sulle liberalizzazioni aveva fatto affidamento per aprire la "fase due" del governo e dare all'esecutivo un'impronta riformatrice – ha attaccato duramente Bersani accusandolo di non voler "toccare i santuari".
In effetti non c'è traccia nelle proposte di Bersani di qualunque intervento che colpisca i settori veramente protetti, come il trasporto pubblico, l'energia elettrica, il gas, l'acqua, i rifiuti. Cioè tutti servizi locali un tempo gestiti dalla aziende municipali e oggi saldamente in mano a società per azioni, alcune quotate in borsa, che operano in regime di monopolio, modulano i prezzi in funzione di lauti profitti e danno tanto, ma tanto lavoro alle cooperative rosse.
D'altra parte, perché mai il governo, che con il Tesoro controlla l'Enel, dovrebbe rinunciare al ricco dividendo che l'azienda corrisponde ogni anno a spese di cittadini e imprese? E perché mai i Comuni, per lo più amministrati dalla sinistra, proprio ora che il governo lesina loro i fondi dovrebbero fare a meno degli utili che affluiscono nelle loro casse dalla distribuzione di gas, acqua, luce e dalla raccolta dei rifiuti?
Così, se il lunedì i barbieri potranno tenere aperto (nelle grandi città già molti lo fanno) e sarà più facile aprire una bottega di estetista, le bollette continueranno a rimanere alte e la Coop potrà "darti di più" con uno sconticino sul pieno.
In questo scenario l'opposizione liberale non deve giocare male la sua partita, come fece in occasione del primo provvedimento Bersani, quando, soprattutto da parte di An, venne speso il consenso di mezza Italia a difesa dei tassisti, categoria non certo privilegiata ma che non rappresenta l'interesse della globalità dei consumatori.
Ora la partita va giocata al rilancio, raccogliendo le proposte di Rutelli e trasformandole in emendamenti che al Senato potrebbero essere approvati, spaccando la maggioranza. O respinti, tagliando così l'erba sotto i piedi alla Margherita e alle sue velleità di presentarsi come l'ala modernizzatrice del governo.
È poi il momento di dare battaglia al privilegio corporativo di un altro santuario, che sta diventando ogni giorno più imponente, le coop rosse. A partire proprio dalla Coop, ormai dominus della grande distribuzione, dove incontra solo la concorrenza dei francesi (Auchan e Carrefour) e minaccia di assorbire le altre catene di proprietà nazionale.
Se il "patron" di Esselunga, Bernardo Caprotti, è stato costretto ad acquistare intere pagine di quotidiani per manifestare le ragioni del suo fermo rifiuto a cedere la sua catena alla Coop, vuole dire che il mercato è fatto oggetto di pressioni e di turbative che l'Autorità guidata dal professor Catricalà farebbe bene a mettere sotto osservazione.
Non si può parlare che di turbativa di mercato a proposito della feroce campagna di disinformazione contro il gigante della distribuzione Usa Wall-Mart di fronte all'ipotesi dell'acquisto della catena Esselunga.
In quelle settimane i principali organi di stampa dipinsero Wall-Mart come il diavolo in terra: prodotti di scarsa qualità, sfruttamento dei lavoratori, raggiro dei consumatori con la propaganda, nessun servizio ai clienti. Solo sui prezzi non poterono infierire, visto che è noto a chi conosce il mercato statunitense che Wall-Mart è la catena distributiva più a buon mercato.
Quella campagna di terrore, però, riuscì a mettere in subbuglio i sindacati e a spaventare Wall-Mart, che decise prudenzialmente di ritrarsi dalle trattative. E fu lì che Coop, probabile ispiratrice dell'offensiva giornalista e ottimo investitore pubblicitario su tv e stampa, lanciò il suo diktat a Caprotti, che fu costretto, appunto, a difendersi con inserzioni a pagamento.
Questo è lo spaccato del "mercato" bersaniano. Un luogo in cui il consumatore si illuda di essere il sovrano, mentre a comandare veramente è la Coop. D'altra parte, "la Coop sei tu, chi può darti di più?"
Oggi arriva in Consiglio dei ministri la cosiddetta "lenzuolata" di liberalizzazioni di Bersani. Se l'era portata dietro a Caserta, doveva servire come "coup de theatre" finale, per coprire il nulla di quel summit. Al massimo gli era servita per ripararsi durante la notte trascorsa nell'hotel della Reggia, dopodichè l'aveva dovuta malinconicamente riporre in valigia. Impallinato dagli alleati, in particolare Rutelli, con il quale il confronto è ancora aperto.
L'enfasi governativa (e dei media di complemento) che accompagna l'iniziativa ha qualcosa di surreale.
Sgombriamo anzitutto il campo dagli equivoci: ben vengano le liberalizzazioni, se servono concretamente a semplificare la vita dei cittadini, a favorire i consumatori, ad allentare i vincoli che impediscono alle imprese di nascere, operare e crescere. Non sarà il centrodestra, tanto meno Forza Italia, a mettersi di traverso su quei provvedimenti, ove siano utili e viaggino in direzione dell'apertura ai mercati e dei mercati.
Quel che appare francamente intollerabile è che il varo (se così sarà) di una "lenzuolata" di provvedimenti, i più disparati, scelti con cura certosina nell'ottica prevalente dell'impatto sull'opinione pubblica, venga contrabbandato come controprova dell'afflato riformatore di un governo in balìa di una sinistra statalista, dirigista, controriformista.
Fin troppo facile vedersela ieri con i tassisti, oggi con i benzinai, anche in barba alla tanto sbandierata concertazione. Lo diciamo solo noi? No. Ci limitiamo a sottoscrivere quanto ha malignamente dichiarato Rutelli: "Non possiamo fare solo provvedimenti che colpiscono le piccole categorie, mentre non si toccano i santuari".
Sotto il lenzuolo, niente. O peggio. Il "fantasmino lenzuolato" di Bersani ha altri obiettivi: tentare di recuperare parte dei consensi elettorali, ormai in caduta libera; cacciare dalle prime pagine dei giornali le quotidiane liti fra alleati; soprattutto nascondere la sistematica opera di demolizione delle riforme del governo Berlusconi.
Riforme e liberalizzazioni vere, di sistema, quelle del centrodestra, a fronte dei provvedimenti "un tanto al chilo" di questo governo. Hanno cancellato la riforma della scuola, vogliono stravolgere la legge Biagi sul mercato del lavoro, preparano lo stravolgimento delle riforme (non solo la Maroni, ma anche la Dini) sulle pensioni, hanno alzato la pressione fiscale. Attentando ai conti dello Stato e al futuro delle giovani generazioni.
Vale la pena di ricordare che la crescita dell'occupazione, l'allungamento dell'età pensionabile, l'abbassamento del prelievo fiscale per aziende e famiglie erano i pilastri dell'agenda di Lisbona, ai tempi in cui Prodi presidente della commissione europea la pensava un po' diversamente dal Prodi premier "demolitore" di oggi.
Il governo Berlusconi ha preso di petto, con coraggio, questi grandi problemi: lavoro, pensioni, fisco. Riforme vere, liberalizzazioni vere.
Cambiamenti epocali e di sistema, con lo sguardo al futuro del Paese e della sua crescita.
La sinistra del "nuovo" Prodi va in senso contrario. In compenso le coop avranno il loro benzinaio fuori dalla porta. E Il Sole 24 Ore applaude. "Il cibo era squisito", ci ha fatto sapere Montezemolo dopo l'incontro di Palazzo Chigi. Buona digestione.
Per sanare due posizioni incompatibili e dare soddisfazione alla sinistra radicale che vuole il pieno riconoscimento e legittimazione delle coppie di fatto e nello stesso tempo ai teodem che non vogliono sentir parlare di pacs e matrimoni di serie B, il governo ricorre ad un sofisma. Ad un ragionamento apparentemente logico ma in realtà falso che disorienta l'interlocutore. E, paradossalmente, per regolamentare le unioni civili arrivano i diritti dei singoli, con soddisfazione di Rosy Bindi e di Barbara Pollastrini. Ma non certo del buon senso.
Come si può riconoscere il diritto dell'individuo se lo si deve rappresentare come "coppia"?
Un esempio: nella bozza scritta a due mani dai ministri della Famiglia e delle Pari Opportunità è previsto il diritto a succedere nel contratto di locazione, qualora uno dei due partner venisse a mancare. Vale a dire, un riconoscimento del singolo in quanto coppia non in quanto individuo, perché altrimenti verrebbe a mancare "l'altra parte". E lo stesso vale per il permesso di soggiorno o gli obblighi alimentari. In pratica, a chi serve un certificato di convivenza se poi, nella sfera dei diritti, si ritorna ad essere un "single"? Che senso ha parlare di diritti della persona che fa parte di una coppia che non esiste?
Nessuno: è solo un astuto escamotage per far sembrare veritiero un argomento falso, per giustificare una posizione comune in una maggioranza divisa, per prendere in giro il Paese con ambiguità linguistiche che, francamente, non servono a nessuno, nemmeno ai Pacs. Fatta salva la "pax" nell'Unione.
La decisione della Corte Costituzionale di cancellare di fatto la legge Pecorella che aveva introdotto l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado, è indirizzata negativamente a Berlusconi e positivamente ai pubblici ministeri. Ciò conferma il fatto che in Italia una certa parte della magistratura continua a tenere sotto scacco una certa parte della politica, riuscendo a pilotare leggi e sentenze anche al più alto grado.
Il verdetto favorisce i pubblici ministeri e colpisce il cittadino che resterà sotto giudizio per tanti anni. Alla faccia della ragionevole durata del passato. Ed è evidente che si tratta anche di un verdetto ad personam nei confronti di Berlusconi: perché vuole infatti colpirlo, sia a livello processuale, per proseguire nell'opera di persecuzione portata avanti in questi anni, sia a livello d'immagine, perché cerca di dimostrare che l'ex premier si è avvalso di un provvedimento realizzato da un suo avvocato. E nulla conta se la legge bocciata dalla Corte Costituzionale rappresentava un enorme passo avanti per lo stato di diritto, verso il raggiungimento di una società più civile e moderna, al passo con l'Europa e con le legislazioni più avanzate come quella statunitense.
Dall'altra parte, la sentenza è l'ennesimo regalo alla magistratura. La prova è tanto più lampante se si pensa che la Corte Costituzionale ha sì restituito ai pm la possibilità di impugnare le assoluzioni di primo grado, ma allo stesso tempo ha impedito che analoga possibilità fosse restituita anche alle parti civili (questa parte del ricorso è stata rigettata e considerata inammissibile).
Tutto ciò dimostra quanto politicizzata, e vicina alla sinistra, sia la Corte Costituzionale e come nel nostro Paese prevalga una cultura dell'Inquisizione, intesa soprattutto come strumento indispensabile per la distruzione di avversari politici.
E' ovvio che in una Consulta nettamente sbilanciata (11 a 4) verso sinistra non può che favorire ad ogni occasione la parte politica di cui è espressione. Ed è ancor più grave e inquietante perché queste sentenze vengono da un organo le cui decisioni sono – queste sì – inappellabili.
Il primo rapporto nazionale sull'educazione in Italia realizzato dalla Fondazione per la sussidiarietà parla chiaro, soprattutto a Fioroni: il 61% delle famiglie crede che l'educazione sia un'emergenza nazionale; oltre il 50% auspica un sistema educativo misto tra statale e privato. Non migliora la situazione dal punto di vista delle imprese: il 56% considera inadeguate le competenze dei laureati. L'indagine mette in chiaro la necessità di aprire la scuola alla società (famiglie, studenti, territorio) e di aumentare la qualità dell'offerta formativa. Ciò deve passare per il superamento del consumato mito della scuola di Stato. Fin quando la scuola non sarà liberata dalle pressioni sindacali che negli anni hanno solo portato al progressivo svilimento della professionalità dei docenti, non si arriverà mai ad un vero arricchimento dell' offerta formativa e, quindi, al miglioramento della preparazione degli studenti. E' prioritario, dunque, riscrivere lo stato giuridico degli insegnanti per riconoscere loro l'importante funzione ricoperta all'interno della società. I dati dell'indagine sul rapporto tra educazione e lavoro, che vede una divaricazione significativa, dovrebbe indurre il governo ad un'implementazione delle riforme avviate dal governo Berlusconi e le istituzioni scolastiche all'applicazione degli strumenti innovativi introdotti dalla riforma della scuola e del lavoro. Nelle Università andrebbero attivati quei servizi previsti dalla legge Biagi come l'interconnessione con la Borsa Nazionale del Lavoro, l'orientamento e il job placement, per far sì che la transizione al lavoro non sia affidata al caso e alla buona sorte. Potremmo sintetizzare in uno slogan ciò che serve per l'educazione italiana: "più libertà, meno sindacati". La strada intrapresa dai ministri Mussi e Fioroni, al contrario, va in tutt'altra direzione.
Il centralismo è aumentato esponenzialmente, strumenti e innovazioni importanti come il portfolio e l'alternanza scuola-lavoro sono stati cancellati, è diminuito il coinvolgimento delle famiglie e degli studenti nel processo educativo. Insomma si sta tornando inesorabilmente indietro.